Sulla natura speculare e opposta di due modelli di abuso pedopornografico

 

Annalisa Verza, Sulla natura speculare e opposta di due modelli di abuso pedopornografico, Considerazioni sociologiche e giuridiche a margine di una recente sentenza in materia, in www.penalecontemporaneo.it

Sulla natura speculare e opposta di due modelli di abuso pedopornografico, considerazioni sociologiche e giuridiche a margine di una recente sentenza in materia

Abstract. Il presente lavoro parte dall’analisi di una recente sentenza relativa al reato di pornografia minorile per affrontare il problema dell’inadeguatezza del nostro art. 600ter c.p. nel fornire tutela verso forme di abuso pedopornografico (e pornografico) che, come il “sexting” e la diffusione non autorizzata di materiale sessualmente esplicito (fenomeni oggi molto diffusi e sociologicamente inquadrabili all’interno di una specifica cultura di massa) rientrano in schemi comportamentali diversi rispetto a quelli che hanno inizialmente ispirato la costruzione della norma in questione. Tale sentenza, che assolve l’imputato in relazione al reato di produzione di materiale pedopornografico “perché il fatto non sussiste”, mentre condanna al minimo della pena per il reato di divulgazione di tale materiale, offre l’occasione per una riflessione in merito agli ambiti residui (pur dopo la l. 172/2012) di incertezza definitoria in relazione alla condotta di cui all’art. 600ter c.p., e alla proporzionalità retributiva tra le sue parti, nonché in merito al vacuum normativo tuttora non colmato relativo alla punizione di condotte di diffusione non autorizzata di materiale sessualmente esplicito direttamente finalizzate alla distruzione dell’immagine sociale della vittima.

In particolare, si sosterrà che nel sexting viene capovolto, rispetto a quanto accade per la forma classica di abuso pedopornografico, il rapporto “reato principale-reato secondario” che mette in relazione tra loro la produzione e la divulgazione di tale materiale, sia sotto il profilo della maggiore-minore gravità, e quindi retributivo, sia sotto quello della strumentalità dell’uno alla realizzazione dell’altro.

sommario: 1. Il fatto e la sentenza. – 2. La pornografia (minorile): cosa è cambiato negli ultimi decenni. – 3. La definizione di pornografia minorile dopo l’ultima modifica dell’art. 600ter c.p. – 4. I due argomenti-chiave della sentenza. – 5. Sulla ratio giustificativa dell’estensione dell’ambito di tutela della norma. – 6. Problemi di tutela prodromica e di proporzionalità retributiva per il reato di pornografia minorile. – 7. Il reato mancante: la diffusione non autorizzata di materiale sessualmente esplicito.

1. Il fatto e la sentenza.

Il tortuoso percorso di definizione di una disciplina per il contrasto penale della pornografia minorile, nonostante i molti “ritocchi” apportati negli ultimi vent’anni dal legislatore anche su sollecitazione di importanti convenzioni internazionali (da ultimo, la legge 1.10.12 n. 172 che ha recepito la Convenzione di Lanzarote), ancora non sembra aver dissipato le incertezze relative alla configurabilità di tale tipo di condotta, nella variegata composizione delle diverse fattispecie che la costituiscono. Questo lavoro intende riflettere sull’adeguatezza del nostro sistema normativo a tutelare contro modalità “nuove” di abuso pornografico, prendendo spunto da una recente sentenza1.

In tale sentenza, il Giudice per le Indagini Preliminari è stato chiamato a decidere, nell’ambito di un giudizio abbreviato, in merito ad un caso di divulgazione su Facebook, a dichiarato scopo di vendetta per la rottura della relazione sentimentale, di materiale sessualmente esplicito ritraente anche una diciassettenne (che avrebbe compiuto gli anni di lì a un mese e poco più), la quale, all’epoca, aveva prestato il proprio consenso alle riprese, realizzandone essa stessa la parte iniziale. Dalle indagini era emerso anche che, successivamente al compimento, di lì a poco, della maggiore età della querelante, altri due filmati erano stati realizzati dai due, prima della fine della relazione. Solo un caso fortuito volle che l’unico dei tre a disposizione dell’imputato, e della sua vis nocendi, fosse il primo, e dunque quello filmato poco prima del diciottesimo compleanno della vittima (circostanza alla quale, del resto, né l’imputato né la querelante hanno dato alcun peso nella loro deposizione).

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La pubblicazione del video (il 29.10.2012: dopo, dunque, l’entrata in vigore della legge di ratifica della Convenzione di Lanzarote) si ricollegava, oltretutto, ad un quadro composito di comprovate minacce, appostamenti e richieste di contatto insistenti e angoscianti (per dichiarazione della vittima), durati dalla fine della relazione (marzo 2012) fino alla data del fatto. Infatti, poco prima di pubblicare il video l’imputato aveva scritto, in un messaggio, alla querelante: “ti rovinerò […], te lo prometto… vedrai che ti renderò la vita impossibile”. Tuttavia, la vittima non ha deciso di querelare l’ex fidanzato in relazione al reato di atti persecutori ex art. 612bis c.p., né il pubblico ministero ha deciso di procedere d’ufficio in tal senso (nonostante la connessione tra tale condotta e il reato contestato di pornografia minorile, procedibile d’ufficio).

L’imputato, dopo aver ritagliato il filmato, escludendone i primi tre minuti (quelli girati dalla querelante) e ricavandone solo la seconda metà (quella girata da lui stesso e nella quale, ovviamente, le riprese avevano come oggetto principale la ragazza) aveva caricato tale spezzone di video su Facebook in un profilo di fantasia, collegandolo – e quindi rendendolo visibile, cosa che di fatto avvenne – ai profili di amici e coetanei della vittima, ottenendo anche un “like”, e quindi una visibilità ulteriore presso tutti i contatti di almeno un altro profilo.

In relazione a tale fatto, davanti al GIP, sia il Pubblico Ministero che il difensore dell’imputato hanno chiesto l’assoluzione da tutti i capi di imputazione contestati (produzione, ex art. 600ter, 1° comma c.p., e divulgazione, ex art. 600ter 3° comma c.p., di materiale pedopornografico).

Nella sentenza qui commentata, il GIP:

1) ha assolto l’imputato per il reato di produzione di materiale pedopornografico “perché il fatto non sussiste”, invocando la necessità, per configurare tale condotta, della presenza, cumulativamente, di altri due elementi:

a): di elementi ulteriori, ravvisabili in “una qualche forma di manipolazione da parte dell’imputato,” o di “soggezione da cui possa essere derivata una strumentalizzazione”; b): a maggior ragione, di un “utilizzo” del minore necessariamente “transitivo”, interpretando, quindi, l’“utilizzo del minore” in maniera tale da richiedere necessariamente che, a riprendere o fotografare il minore “utilizzato”, sia un secondo soggetto “utilizzatore”, ed escludendo, quindi, indirettamente e a priori, l’ipotesi dell’utilizzo “riflessivo” del corpo minorenne da parte dello stesso soggetto (il cd. “selfie”, pur essendo questa una modalità di produzione di materiale pedopornografico oggi altamente frequente e diffusa).

Escluso così, “perché il fatto non sussiste”, il reato di produzione di materiale pedopornografico – che avrebbe assorbito, se riconosciuto, quello della divulgazione dello stesso in forza di quanto disposto al comma 3 dell’art. 600ter c.p., e che avrebbe comportato la pena della reclusione dai 6 ai 12 anni oltre ad una pena pecuniaria tra i 24.000 e i 240.000 euro –,

2) il GIP ha condannato l’imputato, per il reato (comparativamente minore) di divulgazione di materiale pedopornografico, al minimo della pena edittale prevista (pena già notevolmente più bassa rispetto a quella prevista per la produzione: da 1 a 5 anni di reclusione, e da 2.582 a 51.645 euro di pena pecuniaria), ulteriormente decurtato di un terzo a causa dell’opzione per il rito abbreviato.

Nella nota in esame la decisione verrà vagliata in relazione alle scelte ermeneutiche operate, con particolare riguardo:

– all’applicabilità dell’art. 600ter 1° comma c.p., nella formulazione che la l. 172/2012 ha lasciato invariata, a condotte rientranti nel modello del sexting, e, conseguentemente, all’interpretazione del concetto dell’“utilizzo” del minore atto a configurare, in tal caso, il reato di “produzione di materiale pedopornografico”;

– alla lacuna normativa che attualmente non permette una sanzione adeguata di condotte di divulgazione di materiale sessualmente esplicito che siano finalizzate non tanto alla mercificazione o all’oggettivizzazione sessuale del soggetto ripreso, quanto, piuttosto, a scopi decisamente e direttamente denigratori/vendicativi nei confronti dello stesso, minorenne o maggiorenne che sia.

Tale tipo di condotta – che la diffusione delle nuove tecnologie ha reso possibile e, anzi, semplicissima da attuare – è oggi, infatti, tutt’altro che rara: prendendo l’espressione in prestito dal lessico anglosassone, ad essa ci si può riferire come ad una manifestazione di “revenge porn”, ovvero di un’offensiva “pornograficizzante”, volta a svilire una persona rendendo pubblicamente accessibile, come nella pornografia, la sua intimità sessuale, a scopo di vendetta (in genere, per rotture o rifiuti sentimentali)2. La condotta esplicitata nel caso in esame rientrerebbe pienamente in quest’ultima tipologia di comportamento, posta a cavallo tra la pedopornografia e lo stalking, ma non pienamente sostanziata da nessuna delle due fattispecie, così come definite nel nostro ordinamento.

2. La pornografia (minorile): cosa è cambiato negli ultimi decenni.

La normativa italiana in materia di pedopornografia è stata oggetto, nell’ultimo ventennio, di una serie progressiva di modifiche ispirate ad una sempre più decisa volontà – espressa anche a livello internazionale e concepita nei termini di uno sforzo comune e omogeneo da parte dei diversi sistemi giuridici nazionali implicati – di affrontare in maniera netta e decisa un fenomeno dalla portata e diffusione sempre più allarmante.

Il fenomeno della circolazione della pornografia minorile, infatti, riversato nella dimensione transfrontaliera, immateriale e scarsamente regolata del web, ha conosciuto, come comprovato da diversi studi3, un’impennata senza precedenti. E, parallelamente alle dimensioni della pornografia, è cresciuta anche la sua forza di autolegittimazione, essenzialmente dovuta alla mancanza, nell’ultimo mezzo secolo, di un contrasto serio e di una critica lucida alla sua diffusione (fenomeni frutto, a loro volta, del vecchio – ma tuttora vitale – “dogma” che, da fine anni Sessanta, ha sdoganato la pornografia imponendo alla società “liberal” di leggerla necessariamente come espressione di “liberazione sessuale4”): più essa colonizza i diversi territori culturali con cui ci confrontiamo ogni giorno, più essa diventa “dato ubiquitario” che giustifica circolarmente la propria presenza attraverso la propria presenza, fenomeno “culturale” di massa5, con la conseguenza che diventa sempre più difficile metterla in discussione in maniera critica.

Inoltre, proprio a causa della popolarità della sua diffusione e della forza suggestiva espletata dai relativi stilemi presso le utenze più giovani – in maniera immediata o anche mediata, per esempio, attraverso le allusioni pubblicitarie e gli ammiccamenti dei personaggi più alla moda –, il fenomeno, anche nella sua “sezione” pedopornografica, si è trasformato: le immagini e le riprese pedopornografiche in circolazione, infatti, non sono più, quasi esclusivamente, il frutto di un’attività clandestina e organizzata a stampo criminale, spesso finalizzata al lucro, ma vengono, in una misura non irrilevante, prodotte sempre più anche a livello amatoriale6, da soggetti spesso lontanissimi dal pensare che tale loro azione possa avere un qualche rilievo penalistico7, e convinti, anzi, che, in qualche modo, questo genere di disponibilità sia segno di un’apertura e disinvoltura da ritenersi scontata e “dovuta” in una coppia8. Secondo Telefono Azzurro ed Eurispes9, infatti, “tra i nuovi rischi di Internet e dell’uso dei cellulari c’è il sexting, l’invio di immagini e video a sfondo sessuale ad amici, fidanzati, adulti, persone conosciute e non; il 6,7% dei giovani italiani ha inviato sms o video a sfondo sessuale col proprio cellulare, mentre il 10,2% ne ha ricevuto almeno uno”10.

Il “sexting”, ovvero la creazione di video e immagini sessualmente espliciti, normalmente finalizzati alla condivisione con il partner e, quindi, trasmessi allo stesso, è diventato, dunque, recentemente – complice l’integrazione delle videocamere in quasi tutti i telefoni cellulari – elemento tutt’altro che raro nella routine relazionale delle giovani coppie, al punto da determinare, spesso, vere e proprie aspettative in merito alla disponibilità e capacità del partner (soprattutto della donna/ragazza) a prestarsi a questo gioco11. Essere sexy, provocanti, capaci di emozionare sessualmente attraverso l’esplicito, è diventato imperativo per le ragazze nella cultura giovanile odierna, al contempo ribelle e sprovveduta.

Si potrebbero avanzare varie ipotesi di tipo sociologico12 sulle ragioni profonde di questa deriva culturale, che, al di là della sua apparente contingenza, appare legata al gioco eterno del rapporto di potere tra i sessi13. E, infatti, che dietro l’apparenza trasgressiva della “moda” si nasconda un pericolo molto serio per il minore (specialmente, la minore) imprudentemente ritratto – sostanziato nel potere dato a chi controllerà poi tale materiale di arrecare, divulgandolo, danni gravissimi alla sua immagine e alla sua vita – appare evidente non appena l’immagine “sextata” esce dalla sua esclusiva disponibilità e dalla privacy del rapporto per il quale era stata prodotta. La vergogna, lo shock e il panico prodotti dalla divulgazione – per leggerezza, per bullismo o, come spesso accade, per vendetta a seguito di una rottura sentimentale – di immagini sessualmente esplicite sono tremendi: è sufficiente consultare la cronaca, e i frequenti casi di suicidio associati a tali atti, per vedere quanto pervasivo e profondo sia il trauma che in tali casi viene subito dalla vittima. Quando la vittima, poi, è un minore, questo viene a subire certamente, di conseguenza, un blocco (purtroppo, a volte, definitivo) nel suo percorso di crescita, con conseguente gravissima compromissione del suo “sviluppo fisico, psicologico, spirituale, morale e sociale” e della formazione della sua intera personalità (termini che designano, come è noto, il “bene da tutelare” alla protezione del quale è preposto, tra gli altri, l’art. 600ter c.p.14).

L’art. 600ter c.p., nella sua formulazione iniziale, non era stato pensato per questo tipo di condotte, che erano all’epoca ancora scarsamente frequenti: esso fu invece pensato con l’obiettivo di combattere essenzialmente lo sfruttamento (termine utilizzato nella norma introdotta nel 1998) pornografico dei minori volto ad alimentare, soprattutto, il circuito della pedofilia.

Tuttavia, oggi non si può ignorare il fatto che le modalità attraverso le quali la pornografia (in specie, minorile) può creare (e crea) danno alle sue vittime, si sono sdoppiate.

Accanto alla modalità classica, legata al circuito della pedofilia, nell’ottica della quale la pornografia è creata utilizzando e sfruttando il minore per fini sessuali ed economici, e nell’ambito della quale il momento cardine in cui si realizza il danno al minore è quello della produzione del materiale sessualmente esplicito che lo rappresenta (dato che la relativa divulgazione, normalmente, non andrà a coinvolgere i suoi amici, compagni, familiari e conoscenti), non è possibile ignorare la presenza di un diverso, e sempre più frequente, utilizzo della pornografia minorile, prodotta anche senza manipolazione o strumentalizzazione diretta da parte dell’imputato15, finalizzato – e questo è l’elemento di diversità – a colpire personalmente il minore stesso.

Questo secondo tipo di utilizzo della pornografia minorile vede, come elemento centrale e costitutivo del danno, la divulgazione del materiale sessualmente esplicito, mentre la produzione assume un rilievo normalmente secondario, per livello di offensività.

Se nella prima tipologia di abuso pornografico (la creazione di materiale pedopornografico per alimentare il relativo circuito) il danno alla personalità del minore si crea nella strumentalizzazione che si realizza nel momento della produzione del materiale, mentre la divulgazione costituisce solo un mezzo per ricavare poi da tale materiale un utile, nella seconda tipologia il rapporto tra produzione e divulgazione si inverte: la produzione, che, spesso, avviene (come nel caso in esame) nell’ambito della diffusa pratica del sexting, senza una strumentalizzazione del minore ritratto, rappresenta più che altro il mezzo che rende possibile divulgare successivamente tale materiale realizzando quel tipo di “sexting secondario16” definibile, con una metonimia, “revenge porn” (ma che può sfociare anche, più genericamente, in offensive di stampo cyberbullistico) – ed è appunto nell’ambito della divulgazione che tale gravissimo abuso – reso possibile dalla fase precedente, quella del sexting primario – viene realmente a costituirsi.

In proposito, tra l’altro, val la pena di sottolineare che tale “nuovo” modello sta assumendo una rilevanza tale che il timore dello stesso, nella percezione che del problema hanno i giovani stessi, supera addirittura, e di molto, il timore che accompagna il “primo” modello. La percepita pericolosità della modalità di abuso legata alla malevolenza del proprio “pari17” costituisce, insomma, una minaccia che spaventa i giovani molto più che non quella ricollegata alla modalità classica di abuso pornografico, nella quale il colpevole è il cosiddetto “pedofilo”.

Il caso sopra descritto si inscrive certamente nell’ambito della seconda modalità di abuso pornografico.

Il nostro sistema normativo è stato chiamato, anche ultimamente, a seguito di impegni assunti a livello internazionale nell’ambito di convenzioni in materia, e in forza di direttive europee vincolanti (da ultima, la Direttiva europea 2011/93/UE relativa alla lotta contro l’abuso e lo sfruttamento sessuale dei minori e la pornografia minorile, che ha sostituito la precedente decisione-quadro 2004/68/GAI), a modificare e ampliare l’ambito di tutela previsto dalle proprie disposizioni-chiave in materia. In parallelo con il crescente allarme indotto dalla sempre maggior diffusione e diversificazione, a livello nazionale e internazionale, dei reati a sfondo sessuale su minori, “in particolare per quanto riguarda l’utilizzo sempre maggiore delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione da parte dei minori e degli autori di reato” (Convenzione di Lanzarote, Preambolo), la Convenzione di Lanzarote, ratificata a ottobre 2012, ha imposto una “virata” nella direzione di un approccio di “tolleranza-zero18”, volto a combattere il fenomeno della pornografia minorile in ogni sua forma al fine di “proteggere i minori dallo sfruttamento e dall’abuso sessuale, indipendentemente da chi ne è l’autore” (Convenzione di Lanzarote, Preambolo).

3. La definizione di pornografia minorile dopo l’ultima modifica dell’art. 600ter c.p.

Con la l. 172/2012 è stata ratificata la Convenzione di Lanzarote del 2007 per la protezione dei minori dallo sfruttamento e dagli abusi sessuali. A seguito di tale ratifica, dunque, tutte le parti del nostro sistema normativo interessate dalla legge dovranno essere fatte oggetto di una rilettura volta a dare effettività, attraverso il loro dettato, ai principi ed agli obiettivi espressi in tale documento. Le parti del codice penale interessate dalla ratifica, quindi, dovranno essere comprese tenendo necessariamente in considerazione, a livello teleologico, i principi stabiliti nella convenzione del 2007, assieme a quanto stabilito nella nuova Direttiva europea 2011/93/UE, anch’essa teleologicamente vincolante.

In relazione all’art. 600ter c.p., la l. 172/2012 è intervenuta non solo allargando il primo comma – il che ha lasciato, tuttavia, la disciplina del reato di produzione di materiale pedopornografico essenzialmente immutata (salvo un lieve abbassamento della pena pecuniaria, il testo ancora prevede la punizione di “chiunque utilizzando minori di anni 18 produce materiale pornografico”) – ma soprattutto introducendo nel nostro ordinamento una definizione, formulata nel nuovo settimo, e ultimo, comma dell’art. 600-ter c.p., derivata, in termini quasi identici, dall’art. 20, 2° comma, della Convenzione stessa, che recita: “per pornografia minorile si intende ogni rappresentazione, con qualunque mezzo, di un minore degli anni diciotto coinvolto in attività sessuali esplicite, reali o simulate, o qualunque rappresentazione degli organi sessuali di un minore di anni diciotto per scopi sessuali19.

Una formulazione, dunque, volutamente molto ampia (ricomprendente “ogni rappresentazione”, realizzata “con qualunque mezzo”), e soprattutto oggettiva, di cosa costituisca materiale pedopornografico: per la definizione del materiale prodotto come pornografico, essa richiede solamente che la rappresentazione abbia avuto scopi sessuali, e non anche che il processo creativo a monte sia stato condotto attraverso manipolazioni, né tantomeno che alla sua fonte vi sia stata una dualità di componenti (una attiva e una passiva: il minore ritratto).

Alla stregua di tale definizione, il materiale divulgato su Facebook dall’imputato, e da lui ripreso, è dunque, certamente, materiale pedopornografico ai sensi dell’art. 600ter ult. comma c.p..

Il reato di cui all’art. 600ter, 1° comma, c.p. richiede che sia punito chi produce materiale pedopornografico utilizzando minori di 18 anni. Non si fa riferimento, in merito, alla presenza o meno del consenso del minore ritratto. Il materiale di cui alla nostra sentenza è stato prodotto, appunto, utilizzando una (anche se per poco) minorenne, cosa richiesta dalla norma al fine di qualificare il materiale pornografico come “pedopornografico” e non solo pornografico, portandolo a poter integrare la fattispecie.

A livello lessicale, dunque, è possibile interpretare un fatto come quello in esame come rientrante all’interno della fattispecie prevista dalla norma.

Come verrà qui sostenuto, però, ciò che frena tale interpretazione sta, più a monte, nella struttura speculare e opposta che si dà tra il modello che ha inizialmente ispirato l’art. 600ter c.p. e quello che si realizza a partire dall’autoproduzione, o dalla produzione consensuale, di materiale (certamente) pedopornografico – due modelli diversi, per i quali è stata, però, mantenuta, come sola unica norma possibile di riferimento, quella originariamente ritagliata in base alla struttura del primo modello.

Così, nel caso di specie, il GIP si è trovato davanti ad un bivio. Da un lato, il primo corno del dilemma: l’esigenza di riconoscere l’intrinseca pericolosità della creazione (a rigore, anche dell’autoproduzione) di tale tipo di materiale, come imposto dai documenti internazionali e come richiesto, in un’ottica, lato sensu, di sociological jurisprudence, dalla necessità di tenere conto dell’evoluzione della sensibilità e dei costumi sociali, in relazione alla diffusione dei fenomeni di sexting e dei conseguenti abusi. Dall’altro lato, il secondo corno del dilemma: l’esigenza, cioè, di valutare il caso rapportandolo strettamente al modello (tradizionale) di crimen che ha ispirato la formulazione dell’art. 600ter c.p. – formulazione che la legge 172/2012 (pur decisa ad “aprire” il sistema penale al nuovo spirito espresso dalla Convenzione di Lanzarote) ha lasciato immutata – per evitare estensioni in malam partem.

Nel nostro caso, il GIP ha optato per la seconda strada, ed ha assolto in merito al reato di produzione di tale materiale (effettivamente esistente, e dunque prodotto) “perché il fatto non sussiste”.

4. I due argomenti-chiave della sentenza.

Come espresso nella motivazione della sentenza, la via interpretativa percorsa per arrivare a tale decisione si è basata su una riflessione incentrata perlopiù sulla disciplina introdotta dalla legge 38 del 2006, che all’epoca aveva sostituito, al 1° comma, il termine “sfruttare” con il termine “utilizzare” (permettendo di punire anche ipotesi di produzione di tale materiale non orientate al fine di lucro), e sulla dottrina immediatamente successiva, che, in un’ottica di graduale estensione (rispetto al requisito dello “sfruttamento” economico) della tutela del minore, interpretava il termine “utilizzare” come comportante la degradazione del minore ad oggetto di manipolazioni20.

Alla luce di ciò, il GIP ha argomentato che mentre per il reato – considerato minore, se non “prodromico” – di divulgazione del materiale pedopornografico non è chiesto all’interprete di vagliare in che modo il materiale sia stato prodotto, elemento costitutivo della condotta di produzione di tale materiale continuerebbe ad essere (p. 20) “l’effettivo sfruttamento del minore” (espressione che recupera addirittura la terminologia anteriore alla l. 238/2006), o, come si esprime più sotto, un’utilizzazione intesa come “mercificazione del minore” e “approfittamento fisico e morale della sua persona” (ibid.). In quest’ottica, il consenso prestato dalla ragazza alle riprese varrebbe ad escludere la presenza di manipolazioni o situazioni di soggezione, e, dunque, la sussistenza del fatto.

Eppure, sia la Convenzione di Lanzarote che la Direttiva 2011/93/UE, agli obiettivi espressi dalle quali dovrebbe ora ispirarsi, in senso nuovo, la disciplina in oggetto, dicono ben altro: che, infatti, la punizione del reato di produzione di materiale pedopornografico, così come prevista dai citati documenti internazionali, non richieda, di per sé, né sfruttamento, né approfittamento, né mercificazione, né manipolazione è cosa che si può chiaramente e logicamente dedurre a contrariis dal fatto che entrambi i documenti permettano eventualmente ai singoli Stati21 di scegliere di escludere l’applicazione della sanzione (o di ridurla) nelle ipotesi, caratterizzate da consensualità, dell’autoproduzione e della relativa detenzione di pornografia da parte degli stessi minori. E’ dunque evidente che (salvo una espressa scelta contraria) nello spirito dei documenti internazionali citati anche l’autoproduzione (che di certo non implica “sfruttamento” né “approfittamento”, né, tantomeno, “transitività”) configura il reato di produzione di pedopornografia. A ciò si aggiunga il fatto che il legislatore italiano, pur sollecitato in tale senso, non ha deciso di applicare alcuna esclusione esplicita in relazione alla relativa norma nel nostro ordinamento, come altri legislatori hanno, invece, fatto.

Di qui, a minori ad maius: in relazione alle nuove basi poste dalla Convenzione di Lanzarote e dalla Direttiva 2011/93/UE, dovrebbe configurare il reato in questione anche il comportamento in cui le riprese pedopornografiche siano realizzate dal compagno col consenso del minore filmato, senza bisogno di elementi ulteriori – come nel nostro caso.

Si configura quindi un evidente iato normativo tra quanto si trova prescritto nei documenti internazionali, gli obiettivi espressi dai quali dovrebbero trovare, peraltro, diretta applicazione nel nostro ordinamento, e ciò che – pur in dichiarata recezione degli stessi – viene prescritto a livello nazionale.

L’art. 600ter 1° comma, nel mantenimento, previsto dalla l. 172/2012, della sua formulazione originaria, concepita inizialmente solo per una forma di condotta che vede il minore “sfruttato” e transitivamente “utilizzato”, non si presta, infatti, molto agevolmente ad essere “ampliato” nella sua interpretazione fino a ricomprendere una nuova fattispecie, come quella del sexting, diversa da quella per la quale l’articolo era stato originariamente formulato, anche se d’altro canto questa nuova fattispecie dovrebbe essere presa in considerazione dal nostro ordinamento, e non esiste altro articolo sulla pedopornografia utilizzabile per inquadrarla oltre all’art. 600ter c.p.

L’altro puntello fondamentale, strettamente correlato al precedente, della decisione del GIP, è consistito nella sua decisione di attribuire validità, in relazione all’art. 600ter, 1° comma c.p., al consenso del minore ultraquattordicenne, per analogia con quanto previsto in merito alla sua libertà di compiere atti sessuali ex art. 609quater c.p22.

Eppure, anche in relazione a ciò, la formulazione della nostra disciplina è derivata da una precisa scelta, in capo al legislatore, di non attribuire rilevanza al consenso del minore ultraquattordicenne in relazione al reato di pedopornografia. Che si sia trattato di una omissione cosciente e ponderata (ubi legislator noluit, tacuit), e dunque tale da escludere la previsione di un rimando analogico giurisprudenziale come quello proposto dal GIP nella sentenza in esame, si dovrebbe desumere, anche in questo caso, dal fatto che la Convenzione di Lanzarote, come visto sopra, avesse esplicitamente proposto di considerare se diminuire o escludere la pena in caso di consenso, appunto, dell’ultraquattordicenne alla produzione di tale materiale. Interpellata in questo senso, la legge italiana non ha voluto estendere al reato in questione (pur potendolo fare in occasione della l. 172/2012) una clausola per l’ultraquattordicenne simile a quella introdotta nell’art. 609quater c.p.23.

La l. 172/2012, insomma, considerata in coordinamento con la Convenzione di Lanzarote, dovrebbe essere letta come volta a escludere sia la necessità di “approfittamento” per la configurabilità del reato di produzione di materiale pedopornografico, sia l’adottabilità, per l’art. 600ter, 1° co. c.p., di una disciplina sul consenso dell’ultraquattordicenne analoga a quella disposta dall’art. 609quater c.p.

In relazione, del resto, alla ricostruzione delle ragioni sottostanti a tale mutamento di prospettiva, e all’esclusione di una considerazione del consenso del minore ultraquattordicenne in tema di pornografia analoga a quanto previsto all’art. 609quater c.p., si possono fare alcune considerazioni.

5. Sulla ratio giustificativa dell’estensione dell’ambito di tutela della norma.

Le ragioni della scelta di coinvolgere, nel reato di produzione di materiale pedopornografico, anche il comportamento che si inquadra nella pratica del sexting (caratterizzato, generalmente, dal consenso del minore alla sua produzione, se non dall’autoproduzione stessa) possono rimandare ad almeno tre ordini di motivi.

a) Una distinzione di valore tra atti sessuali e pornografia: nell’esplicita esclusione, in relazione alla produzione e al consumo di pedopornografia, di un trattamento analogo a quello previsto all’art. 609quater c.p., sembra, infatti, di poter cogliere una chiara determinazione del legislatore a tenere distinte le due fattispecie, identificando, da un lato, un valore esistenziale, affettivo ed esperienziale positivo ed armonico nel compimento di atti sessuali consensuali da parte dell’infraquattordicenne, tale da giustificare un’eccezione alla regola generale della mancanza di validità del consenso del minore, negando però, d’altro lato, che questo valore si possa dare anche nella produzione e fruizione di materiale pedopornografico: nella crasi fredda di narcisismo e voyeurismo che questo implica, infatti, il sostituto pornografico dell’eros si pone come radicalmente “altro” rispetto all’esperienza erotico-sessuale diretta. Questa posizione valoriale ben si colloca all’interno del contesto di preoccupazione e di richiesta di contrasto “culturale” della pornografia minorile24, e dell’“effetto di tolleranza” che accompagna il suo espandersi, espresso dai documenti internazionali (sia la Convenzione di Lanzarote, all’art. 8, sia la Direttiva 2011/93/UE, all’art. 21, chiedono, infatti, esplicitamente agli Stati di colpire tale cultura, con misure giuridiche e culturali). Ad esempio, la Direttiva 2011/93/UE impone una disciplina europea della pornografia virtuale per la quale anche quella realizzata senza utilizzare foto di minori reali dovrebbe essere comunque sanzionata qualora non sia prodotta e posseduta ad uso esclusivamente privato del produttore, e/o esistano rischi di diffusione di tale materiale.

Una disciplina così configurata mostra come, attualmente, l’obiettivo di colpire la pornografia minorile si estenda al di là della protezione dall’abuso realizzato verso lo specifico minore ritratto (in questo caso, inesistente), in direzione anche del contrasto “culturale” di ciò che essa divulga ed erotizza, e dell’effetto di progressiva assuefazione25, nei confronti del suo messaggio, che essa induce.

b) Un riconoscimento della effettiva pericolosità, per lo stesso soggetto minorenne ripreso, del materiale pedopornografico prodotto: indipendentemente dal fatto che materiali prodotti all’interno di una logica di sexting non nascano, in genere, dotati di finalità offensive, ciononostante si riconosce che essi sono dotati di alta potenzialità criminogena ed offensiva, e si chiederebbe, quindi, di punirne l’autore allo scopo di proteggere il minore ritratto, anche se consenziente, dai rischi ai quali tale produzione lo espone. Il materiale prodotto attraverso pratiche di sexting costituisce, infatti, materiale “pericoloso” che può facilmente sfuggire al controllo dei suoi creatori (come nel caso, alquanto tipico, qui commentato), esponendo il minore ritratto, a causa della sua imprudenza, non solo ad una intrinseca “oggettivizzazione” di tipo pornografico, che si realizzerà ogni volta che la sua intimità verrà vista e fruita da terzi, ma anche ad altri tipi di abuso molto gravi (rientranti ad esempio, come, nel nostro caso, nel quadro del revenge porn).

c) Un riconoscimento del fatto che il materiale pedopornografico prodotto può configurarsi come “pericoloso” anche in relazione a persone terze: l’intrinseca impossibilità di garantire la non diffusione di tali materiali, sempre potenzialmente “scaricabili” da qualunque computer o dispositivo connesso in rete, comporta infatti il rischio che questi vadano ad alimentare il vasto mercato della pornografia minorile, a sua volta espressione e strumento di altri gravi abusi (è tipico, ad esempio, l’utilizzo di materiali pedopornografici nello sviluppo dei processi di adescamento (grooming), o di corruzione di altri minorenni).

Per le ragioni appena espresse, dunque, e in conformità con gli obiettivi stabiliti a livello internazionale, anche la pedopornografia prodotta nell’ambito del sexting, marcata da consenso o autoprodotta, dovrebbe essere oggetto di sanzione: non certo, però, nella misura prevista dall’attuale art. 600ter 1° comma c.p., pensata per contrastare la (diversa) modalità più classica di abuso pedopornografico.

6. Problemi di tutela prodromica e di proporzionalità retributiva per il reato di pornografia minorile.

Considerato, dunque, il fatto che la condotta dell’imputato26 sembrerebbe, effettivamente, potersi configurare anche come “produzione di materiale pedopornografico”, alla luce dello spirito dei documenti internazionali ratificati e recepiti, e alla luce dell’esigenza, da questi espressa, di un contrasto a tutto tondo alla cultura che tale materiale esprime e ai pericoli ai quali essa espone, resta da comprendere in che misura la norma, alla quale il legislatore italiano ha consegnato il compito di salvaguardare tali esigenze, si riveli effettivamente atta a tutelarle.

L’art. 600ter c.p. punisce la produzione di materiale pedopornografico con una pena durissima: da 6 a 12 anni di carcere, più una multa da 24.000 a 240.000 euro. Esso punisce, invece, la distribuzione, diffusione, divulgazione e pubblicizzazione dello stesso con la reclusione da 1 a 5 anni e con la multa da euro 2.582 a euro 51.645. Sostanzialmente, il legislatore italiano ha pensato di poter mantenere, anche ai fini delle nuove esigenze di tutela espresse dai documenti internazionali, il vecchio impianto della norma risalente al 1998, e leggermente modificato nel 2006, assieme alle correlative assunzioni sulla gravità dei diversi tipi di condotta che la compongono, implicite nella proporzionalità delle pene che li accompagnano. La norma del 1998, anche così come modificata nel 2006, infatti, investiva il reato di produzione di materiale pedopornografico del ruolo di reato principale, lasciando alle condotte di cui al terzo comma un ruolo secondario, reso evidente:

– dal palese scarto retributivo che le accompagna,

– dalla clausola di esclusione di cui al comma terzo, per la quale il riconoscimento del reato di produzione (anche se non seguito da divulgazione) escluderebbe tout court la punibilità delle condotte di divulgazione, diffusione, ecc.

– dall’interpretazione giurisprudenziale, espressa, ad esempio, nel 2000 dalla Corte di Cassazione27, che definisce condotte come la diffusione della pornografia minorile come prodromiche e strumentali alla pratica della pedofilia – sentenza ripetutamente richiamata nella sentenza in esame, che ribadisce, appunto (p. 20), una lettura delle stesse come volta ad approntare una tutela “anticipata” del minore (agendo, quindi, prima che il danno al bene giuridico protetto si realizzi).

Ma la struttura che attribuisce un disvalore massimo alla produzione del materiale pedopornografico, ritagliando solo una funzione prodromica e secondaria alla punizione della sua diffusione, al punto da non punire tale secondo comportamento qualora sia ravvisata la configurabilità del primo, ben si attaglia alla modalità classica di abuso pornografico – quella legata all’alimentazione dei circuiti utilizzati dai pedofili – mentre si trova ad essere totalmente inadatta a rendere conto delle dinamiche e delle scale di disvalore che caratterizzano l’abuso pornografico che si realizza nel quadro della seconda, più recente modalità: quella, diffusasi negli ultimi dieci anni, legata al sexting, nella quale la vis nocendi, diversamente che nel caso precedente, è volta direttamente a distruggere la dignità della vittima nel suo ambiente.

Anche questa modalità si lega alla produzione e diffusione di materiale pedopornografico, e anch’essa lede gravemente lo sviluppo armonico del minore, ma nella logica del sexting il rapporto tra reato principale e reato secondario e “prodromico” è invertito: mentre, infatti, la produzione, in genere consensuale, del materiale e la sua comunicazione al partner (sexting primario) non causa direttamente un’offesa al minore, ma produce un pericolo, una potenzialità di danno, è nella divulgazione a terzi (sexting secondario, revenge porn) che la condotta realmente lesiva, in questo caso, si concretizza, al punto che, rovesciando il rapporto previsto dall’attuale clausola di esclusione di cui al 3° comma dell’art. 600ter c.p., dovrebbe essere la configurabilità del reato di divulgazione, attraverso il quale il danno realmente si attua, ad assorbire quella del reato – in questo caso, “prodromico” – di produzione.

In quest’ottica, dunque, la proporzionalità retributiva tra le due condotte (compresa quella del minore che, autoriprendendosi nel cosiddetto “selfie”, espone imprudentemente se stesso a grossi pericoli) dovrebbe essere invertita. E in effetti, la Direttiva 2011/93/UE aveva previsto, per il reato di produzione di pedopornografia, una pena massima di soli tre anni: una pena, dunque, di portata ben minore rispetto a quella attualmente prevista dall’art. 600ter 1° comma c.p.

Di contro, però, e parallelamente, maggior rilievo e peso punitivo dovrebbe avere, in ragione della sua maggior gravità oggettiva e della vis nocendi che la ispira, la condotta di chi (art. 600ter 3° comma c.p.) “con qualsiasi mezzo, anche per via telematica, distribuisce, divulga diffonde o pubblicizza il materiale pornografico di cui al primo comma”.

Il legislatore italiano, pur dichiarando di ratificare e recepire lo spirito “nuovo” della tutela invocato nei documenti internazionali citati, ha mantenuto, anche per le condotte nuove, l’impianto vecchio, costruito per disciplinare soltanto il primo modello di abuso pornografico, ma palesemente inadatto a disciplinare il secondo.

La conseguenza della disponibilità, per disciplinare entrambi i modelli di abuso pedopornografico, del solo impianto vecchio, relativo alla prima tipologia, della nostra norma, implica che, in un quadro di sexting, la difficile alternativa per il giudice (come nel nostro caso) si darà tra:

– il punire in un’ottica estensiva, da un lato, anche lo stesso minore ripreso con ben 6-12 anni di reclusione, oltre che con una multa pesantissima (una pena superiore a quella prevista per la violenza sessuale di gruppo, e quindi anche intuitivamente sproporzionata, considerata l’assenza, in genere, di maleficenza nella condotta in questione), o, dall’altro,

– il non punire affatto (attenendosi ad un’interpretazione strettamente legata alla tipologia di reato inizialmente prevista per l’art. 600ter c.p. 1° comma), anche in ragione dell’eccesso sanzionatorio che ne risulterebbe, ricorrendo, a tal fine, a interpretazioni giurisprudenziali legate a tale impianto originario, come quelle richiamate nella sentenza in questione28 e arrivando ad attribuire (ultra, se non contra legem) validità al consenso del minorenne.

Ne risulta un quadro decisamente “bipolare”, scisso tra una punizione accanitissima e il non far nulla, nella considerazione di condotte “adiacenti” che possono, in molti casi, sfumare l’una nell’altra (come possiamo, ad esempio, distinguere nettamente il partner pedofilo che ottiene, con lusinghe e cure, il consenso del minore a posare per lui e poi conserva il materiale prodotto, da quello non pedofilo verso il quale il consenso è davvero libero e genuino29?).

A causa di questa spaccatura, l’alternativa binaria che si dava nel caso in questione oscillava tra l’applicare una pena pesantissima, tale da compromettere gravemente la vita di un giovane, o, per evitare ciò, il confinare in un’ottica “garantistica” l’interpretazione dell’art. 600ter c.p. entro i limiti della tutela del solo primo modello, vanificando però, con ciò, il senso della portata innovativa della Convenzione di Lanzarote e della Direttiva 2011/93/UE, e ignorando, quindi, la necessità di tutela del secondo tipo di “danno pedopornografico”.

L’assenza di una norma configurata ad hoc per questo tipo di condotta, e l’obbligatorio riferimento ad un reato di pornografia minorile costruito secondo uno schema non realmente applicabile, in termini di proporzionalità, anche al sexting, e appoggiato ad una severità retributiva controproducente perché tale da scoraggiare, in molti casi, la sua stessa applicazione, costringono a scelte che finiscono per portare ad uno svuotamento dall’interno della capacità di tutela di una fattispecie di reato che appare, se applicata al sexting, incoerente e “self-defeating”, e tale, quindi, da lasciare molte sue vittime prive di una giusta tutela.

7. Il reato mancante: la diffusione non autorizzata di materiale sessualmente esplicito.

La definizione europea e internazionale della pedopornografia comprende, dunque, anche il sexting, anche se i documenti internazionali lasciano libertà agli Stati di modulare ad hoc, rispetto al modello tradizionale di produzione di materiale pedopornografico, il contrasto allo stesso, data la sua particolare struttura.

Il nostro legislatore, però, non ha raccolto tale suggerimento, preferendo adottare in tutti i casi un atteggiamento punitivo di massima severità che si è tradotto in una recezione a metà dell’ampliamento della fattispecie, dato che esso impone, in sede di applicazione, la necessità di scegliere, nei casi di produzione consensuale di materiale pedopornografico, tra le due alternative – entrambe insoddisfacenti – dell’eccesso punitivo, o di un’assenza di punizione, da giustificarsi attraverso un’ermeneutica legata, necessariamente, a schemi precedenti all’emergenza del fenomeno del sexting. Allo stesso tempo, anche sotto un altro aspetto appare evidente l’inadeguatezza del nostro impianto normativo a rendere giustizia in maniera adeguata alle vittime di sexting secondario. L’ordinamento, infatti, tutela (quando lo fa30) dalla produzione e divulgazione di pedopornografia il minorenne, con notevole accanimento punitivo, ma, paradossalmente, lascia indifeso il maggiorenne.

Nel nostro caso, se il destino avesse voluto che il video nelle mani dell’imputato fosse stato uno di quelli prodotti un paio di mesi più tardi, subito dopo il diciottesimo compleanno della querelante, non ci sarebbe stato un corrispettivo dell’art. 600ter c.p. invocabile per la tutela della vittima.

L’unica possibilità, in tale caso, sarebbe stata quella di inquadrare il fatto come un caso di stalking: e in effetti, per tentare di colmare tale lacuna, la Corte di Cassazione, già in una sentenza del 201031, aveva affermato che si doveva considerare come “integrante l’elemento materiale del delitto di atti persecutori, ad esempio, il reiterato invio alla persona offesa di sms o di messaggi di posta elettronica o postati sui cosiddetti social networks, nonché la divulgazione su questi ultimi di filmati ritraenti rapporti sessuali intrattenuti dall’autore del reato con la medesima32”.

Tuttavia, anche in tal caso l’inquadramento non risulterebbe semplice e lineare, e tale da fornire alla vittima una chiara e sicura tutela. Infatti, non sempre il revenge porn si accompagna – come è stato nel nostro caso – ad appostamenti e minacce esplicite tali da ingenerare nella vittima l’ansia, la paura, o lo stato di timore che la norma richiede. Spesso la divulgazione del materiale sessualmente esplicito per scopi di vendetta avviene nella totale inconsapevolezza della vittima, che lo scopre a cose fatte, trovandosi già direttamente danneggiata, più che intimorita dalla paura di un danno incombente33. Così, paradossalmente, se la normativa riguardante lo stalking sanziona pesantemente l’atto di suscitare in una persona il timore di un danno come questo (con una pena aggravata sia nel caso in cui l’autore sia stato sentimentalmente legato alla vittima, sia quando la condotta sia perpetrata attraverso strumenti informatici o telematici), essa lascia davanti ad un vuoto nel caso (ancor più grave) nel quale il danno sia effettivamente prodotto.

Un’altra possibilità di tutela potrebbe essere fornita inquadrando il fatto come trattamento illecito dei dati personali (art. 167 del codice sulla privacy), ma anche questa soluzione appare puramente “rimediale” in assenza di una norma specifica: essa, infatti, non può che “girare attorno” al problema senza però coglierlo in pieno.

In considerazione di ciò, appare chiaro che servirebbe non solo una norma ad hoc volta a punire in maniera proporzionata alla sua dimensione, in questo caso, prodromica (raccogliendo, magari, il suggerimento della Direttiva 2011/93/UE, che proporrebbe una pena massima di tre anni) la produzione di materiale pedopornografico che si dà nel sexting primario, ma anche, e soprattutto, una norma volta a punire in maniera proporzionata la divulgazione non autorizzata di materiale sessualmente esplicito che si realizza nei casi di sexting secondario e revenge porn, sia per le vittime minorenni34 che per quelle maggiorenni.

In relazione a ciò, tuttavia, si registra una scarsa sollecitudine sia nell’ordinamento (che avrebbe potuto intervenire in tal senso sia in occasione della l. 172/2012, sia in occasione della l. 119/2013, ma non si è espressa sul tema), sia, spesso, anche nella stessa “cultura giuridica” dei giuristi35 nella gestione concreta di casi come questo.

La persistenza di tale remora a esprimere una chiara volontà di tutelare le vittime di questi abusi fa sorgere il dubbio che vi sia una resistenza culturale in questo senso – frutto, come si diceva all’inizio, forse della capacità autolegittimante della pornografia, o forse, semplicemente, della permanenza nella nostra cultura di un sillogismo tanto logicamente scorretto quanto antico e radicato: la ragazza avrebbe dovuto evitare di esporsi nel sexting; essa, tuttavia, vi si è consensualmente esposta: ergo, non se l’è, forse, cercata?

1 Trib. Firenze, 27 gennaio 2015 (dep. 10 febbraio 2015), G.I.P. Silvia Cipriani. Ringrazio Michele Papa per avermi stimolato a scrivere questa nota.

2 Ma essa può realizzarsi pure, al di là di una logica di relazione intima, in ambiti più genericamente “cyberbullistici”.

3 Cfr., ad es., UNICEF – Innocenti Research Centre, Child Safety Online. Global Challenges and Strategies, United Nations Children’s Fund, 2011; Telefono Arcobaleno, Report Annuale: Contrasto della Pedofilia on-line – Anno 2011, Roma, Telefono Arcobaleno Onlus; Meter Onlus, Osservatorio Mondiale contro la Pedofilia, Rapporto annuale 2014.

4 A. Verza, Il dominio pornografico, Napoli, 2006.

5 Cfr. P. Adamo, Il porno di massa, Milano, 2004.

6 Secondo i dati contenuti nel Rapporto Annuale pubblicato nel 2013 da INHOPE (INHOPE – International Association of Internet Hotlines, 2013. Report per l’anno 2012, 2013 l’82% dei siti che ospitano materiale pedopornografico è di natura non commerciale

7 A. Verza, Sexting e pedopornografia: i paradossi, in Ragion Pratica, 2013, 2, pp. 569-592.

8 Nel nostro caso, ad esempio, la stessa querelante era ben lungi dal pensare che le riprese divulgate in rete potessero configurare un reato di produzione di materiale pedopornografico, tanto che nella sua deposizione nessun rilievo venne dato alla sua minore età all’epoca in cui fu girato il video.

9 Telefono Azzurro ed Eurispes, Indagine conoscitiva sulla condizione dell’Infanzia e dell’adolescenza in Italia, 2013.

10 Secondo un’altra ricerca italiana, il 4% dei ragazzini tra i dodici e i quattordici anni, e addirittura l’8% di quelli tra i quindici e i diciassette anni, ha ammesso di aver inviato foto pornografiche di sé; il 45% ha ammesso di ricevere messaggi a sfondo sessuale, e il 24% di ricevere foto o video di persone conosciute on-line nude o semi-nude (Ipsos e Save the Children, Sessualità e Internet: comportamenti dei teenager italiani, 2010).

11 S. Abbruzzese, E’ un mondo di uomini, in MinoriGiustizia, 2009, 3, pp. 7-19.

12 Cfr. A. Verza, La “lettera scarlatta” e la presunzione del consenso come forma di “whitewashing” culturale. Riflessioni in margine tra l’art. 600-ter e il nuovo art. 612-bis comma 2 c.p., in Studi sulla Questione Criminale, 2014, 1-2, in corso di pubblicazione.

13 Cfr. A. Verza, The Rule of Exposure. From Bentham to Queen Grimhilde’s Mirror, in ARSP, 2014, 4, pp. 450-466.

14 In questi termini, letteralmente, si esprime il Preambolo della l. 269/1998.

15 In realtà manipolazione c’è, come abbiamo sostenuto sopra, ma si tratta di un fenomeno culturale a largo raggio.

16 Mentre il sexting primario si realizza nell’invio del materiale alla persona per la quale esso è stato prodotto, quello secondario consiste nel suo eventuale e successivo invio a terzi. J. Ringrose, R. Gill, S. Livingstone, and L. Harvey, A Qualitative Study of Children, Young People and «Sexting», a report prepared for the NSPCC, 2012.

17 Varie ricerche (da ultimo, Ipsos e Save the Children I ragazzi e il cyberbullismo, 2013) affermano, infatti, che la minaccia maggiormente percepita come tale dagli adolescenti (dal 72%) non è tanto quello di cadere, nel web, nelle reti del “pedofilo” inteso come molestatore estraneo alla cerchia del minore stesso, quanto quella di diventare vittima dei propri pari.

18 Obiettivo, questo, già definito nel 2001 nel Piano d’Azione adottato a Budapest dal Consiglio d’Europa, e specificamente richiamato nel preambolo della Convenzione di Lanzarote.

19 Il tutto si applica anche alla pornografia virtuale, ex art. 600-quater.1 c.p., introdotto dalla l. 38/2006.

20 Non assumendo, in questi casi, valore esimente l’eventuale consenso da questi prestato (Sez. III, sent. 27252 del 5/6/2007, dep. 12/7/2007, Rv 237204).

21 Per la seconda parte del punto 3 dell’art. 20 della Convenzione di Lanzarote è facoltativa la punizione della produzione e del possesso di materiale pornografico in cui siano coinvolti minori che abbiano raggiunto l’età del consenso sessuale quando tali immagini siano prodotte e/o detenute da questi ultimi con il loro consenso e unicamente a loro uso privato (ipotesi condivisa dalla Direttiva 2011/93/UE, che, all’art. 8.3, richiede anche, in aggiunta, che nessun abuso sia stato consumato per produrlo). In Italia, tuttavia, non è stata stabilita nessuna eccezione in tal senso alla punibilità della produzione e del possesso di pornografia minorile. La possibilità di ricorrere a tale esenzione è stata invece subito accolta da altri paesi come la Finlandia, che fa ricorso in tal caso ai principi generali dell’ordinamento, la Germania, nel caso di pornografia prodotta consensualmente tra minori di 18 anni e avente ad oggetto un minore tra i 14 e i 17 anni, la Polonia, che in tali casi concede al giudice flessibilità di giudizio, e l’Olanda.

22 Sul consenso del minore cfr. D. Valenza, Rapporti tra fattispecie e costruzione per gradi di offesa al bene giuridico, in Cassazione Penale, 2009, 10, pp. 3852-3863, che, già prima della “miniriforma” operata dalla l. 172/2012, commentava (p. 3854) la diversa rilevanza attribuita dal diritto al consenso ad atti sessuali, “sorta di discrimen tra lecito e illecito”, e a quello riferito alla produzione di pornografia dove, soprattutto nell’interpretazione della Corte di Cassazione (Sez. III, 5 giugno 2007, n. 27252), l’utilizzo del concetto dell’“utilizzazione” del minore come elemento chiave della definizione equiparerebbe “la vittima ad un ‘mero strumento di piacere’ come tale incapace di esprimere una determinazione di volontà”.

23 Che l’esclusione della possibilità di considerare valido il consenso dell’ultraquattordicenne per analogia con quanto previsto all’art. 609quater c.p. non sia stata casuale si può ulteriormente desumere dal fatto che, anche in relazione al novellato art. 609quinquies c.p., relativo alla corruzione di minore, la l. 172/2012 ha scelto di punire l’atto di “mostrare pornografia” al minore senza applicare alla fattispecie una disciplina analoga a quanto previsto all’art. 609quater, 3° comma c.p.

24 Cfr. A. Verza, Il “danno culturale” dato dalla normalizzazione delle “pratiche di pedofilia e pedopornografia”, in Politica del diritto, 2013, 3, pp. 361-390.

25 Cfr. Save the Children, Abuso sessuale dei minori e nuovi media: spunti teorico-pratici per gli operatori, Save the Children Onlus, 2012, pp. 21-22.

26 Ma anche quella della querelante, in relazione alla prima parte – quella tagliata – del filmato.

27 Sez. Unite, sent. N. 13 del 31/5/200 Cc, dep. 5/7/2000, Rv 216337.

28 Ma non solo: nella stessa direzione interpretativa presa dalla sentenza in esame si è recentemente pronunciata anche altra giurisprudenza che ha sostenuto, con una formulazione attenta e cauta, che “affermare, in linea astratta, che il consenso del minore non esclude la sussistenza del reato può essere una verità riduttiva”: App. Milano, ud. 12 marzo 2014, Pres. Rizzi, Est. Domanico. Questa decisione è puntellata sull’interpretazione dell’“utilizzo” di un minore (previsto dall’art. 600-quater c.p.) come necessariamente, quantomeno, transitivo, in modo tale da considerarlo effettivo – con un discutibile recupero della terminologia precedente al 2006 – solo nei “casi in cui appaia palese una condotta di utilizzazione e sfruttamento”. Sempre la giurisprudenza è intervenuta per escludere dall’ambito di applicabilità dell’art. 600-ter c.p. le ipotesi di produzione ed esibizione di materiale pedopornografico non inserite in un contesto organizzativo volto a permetterne la fruizione a terzi (così Sez. 3, sent. n. 41776 del 2013), ribadendo un precedente indirizzo espresso, ad esempio, in Sez. III-UD 20-11-2007 n. 1814, sul quale si sofferma, in maniera critica, M. La Rosa, Non costituisce reato la produzione di materiale pedopornografico ad uso privato dell’autore, in Cassazione penale, 2008, 11, pp. 4167-4177. Contra, cfr. Cass. Sez. 3 sent. 1181 del 23/11/2011, o Cass. Sez. 3 sent. 43414 del 2010.

29 Ma, più in generale, come valutare, in senso assoluto, il valore del consenso, da parte di una giovane, a posare in video sessualmente espliciti, quando ciò si inserisce in una cultura “pseudoliberazionista” che induce tali comportamenti punendo come “represse” o dotate di poco spirito quelle che non “ci stanno” (salvo poi poter attribuire a quelle che, invece, accondiscendono, lo stigma, ancor peggiore, della “svergognata” che “se l’è cercata”)?

30 Nel nostro caso, ad esempio, colpisce anche il fatto che il PM avesse chiesto l’assoluzione da tutti i capi di accusa, senza neppure considerare, tra l’altro, la possibilità di procedere ex art. 612bis c.p.

31 Sez. 6, n. 32404 del 16 luglio 2010, D., Rv 248285.

32 Attualmente, dopo la l. 119/2013, lo stesso art. 612bis c.p. prevede, al 2° comma, una nuova aggravante “ordinaria” (tale, quindi, da aumentare fino ad un terzo la pena prevista dall’articolo, che prevede la reclusione da 6 mesi a 5 anni) da applicarsi quando il fatto nel quale si estrinseca la condotta persecutoria “venga commesso attraverso strumenti informatici o telematici”. Cfr., in merito, Corte di Cassazione, Relazione n. III/01/2013, 2013.

33 Cfr. A. Verza, Le modalità telematiche di persecuzione nella legge 119/2013. Un’occasione mancata, in Sociologia del diritto 2013, 3, in corso di pubblicazione.

34 Con il d.l. 4 marzo 2014 n. 39, col quale è stata data attuazione alla Direttiva 2011/93/UE, si è stabilito che la pena prevista (anche) per l’art. 600ter c.p. venga aumentata “se dal fatto deriva al minore, a causa della reiterazione delle condotte, un pregiudizio grave”: è da vedersi se in questa definizione potrà rientrare il pregiudizio arrecato al minore dalla (quantomeno potenziale) reiterazione infinita della divulgazione delle sue immagini, una volta diffuse sul web.

35 “La locuzione cultura giuridica si riferisce (…) a quelle parti di una cultura – costumi, opinioni, prassi d’azione e di pensiero – che incanalano le forze sociali, in particolari modi, verso il diritto o contro il diritto”: L. Friedman, Il sistema giuridico nella prospettiva delle scienze sociali, Bologna, 1978, p. 55-56.