Anna Bonacci, la regina del teatro che nessuno conosce. Dialogo con Anna T. Ossani

Alessandro Carli, Anna Bonacci, la regina del teatro che nessuno conosce. Dialogo con Anna T. Ossani, in Pangea, 1 settembre 2020

 

“Io – dice il mio dottore – devo trovarmi sempre in un luogo dove faccia la prima attrice”. Anna Bonacci, la regina del teatro che nessuno conosce. Fu messa in scena da Billy Wilder e recitata da Kim Novak, Jeanne Moreau, Gina Lollobrigida. Dialogo con Anna T. Ossani

 

Se ponessimo ai nostri lettori, forse anche alle compagnie teatrali, le domande: «Chi era Anna Bonacci?», «Cosa ha scritto?».  O ancora: «Quante autrici teatrali italiane sono state in grado, negli anni ’50, di superare la frontiera con le loro opere?», la prima risposta sarebbe certamente: «Mai sentita nominare», e un leggero imbarazzo si noterebbe nell’interlocutore di fronte all’ultimo quesito. Eppure, questa «ignota signora del teatro» – come la definisce Anna T. Ossani, già docente di Letteratura italiana e di Letteratura teatrale italiana all’Università degli Studi di Urbino, che per prima, ristampandone (da sola o in collaborazione con altri studiosi) alcune opere, ha cercato di darle un respiro di vita, di sottrarla alla ragnatela del tempo –  è autrice de L’ora della fantasia, la «più fortunata commedia italiana del dopoguerra». Interpretata in Francia al Teatro Antoine dalla magnifica Jeanne Moreau, ha prodotto, con 295 repliche consecutive, incassi da record allo stesso Teatro, ed è stata tradotta in 20 lingue e rappresentata in 23 paesi. Il successo internazionale ha favorito non solo le trasposizioni cinematografiche della commedia ad opera di Mario Camerini prima (Moglie per una notte, 1952) e poi di Billy Wilder (Kiss me stupid, 1964), ma ha dato nuova vita scenica anche agli altri precedenti lavori teatrali.

Il nome di Anna Bonacci brilla, oggi, solo nel registro delle assenze. Un oblìo vero e proprio nelle pagine della critica e in quelle della scena.

Perché? In un intervento sul teatro delle donne in Italia, Sharon Wood ha sottolineato che i testi scritti da donne sono difficili da reperire e che il lavoro delle drammaturghe è stato messo da parte da una tradizione letteraria ancora estremamente maschilista. La scena e la drammaturgia del Novecento rappresentano ancora oggi un universo maschile, che spesso dimentica l’altra metà del cielo. Nonostante, lo ricordiamo, ci siano state penne strepitose. Potrebbe essere una prima risposta.

Molte altre risposte ci vengono invece dal volume di Anna T. Ossani e Tiziana Mattioli, pubblicato nel 2014 da Raffaelli Editore di Rimini: Anna Bonacci Biografia per immagini. Un libro prezioso non solo per lo splendido apparato iconografico che lo correda, ma soprattutto per le prospettive inedite che offre per avvicinarsi alla vita e all’opera della drammaturga.

Al di là e oltre i testi, affascina l’identità trasgressiva, sfuggente, complessa della Bonacci come persona; sorprendono e fanno vivere la sua opera sul crinale tra passato e futuro i suoi temi hard, modernissimi anche nel tratteggio di una nuova figura di donna. Una precoce anticipazione dei miti della modernità si colgono non solo nell’Ora, ma in tutta la sua produzione, ed è da subito evidente, nella scrittura, il rapporto tra l’autrice e i suoi personaggi.

Se l’opera assoluta, quella che le ha dato visibilità mondiale, è L’ora della fantasia (1944) – punta dell’iceberg di una produzione in cui troviamo, oltre alle commedie, poesie, racconti, novelle, romanzi (pubblicati anche a nome del compagno, il colonnello Guglielmo Della Noce), opere già percorse da sottili e complesse ragioni freudiane, quali Le favole insidiose (1926) – stupisce da subito conoscere da quale straordinaria famiglia provenisse. Ed è su Anna Bonacci che dialoghiamo con Anna T. Ossani.

L’ora della fantasia rappresenta un unicum: enorme successo all’estero, specie in Francia, ma anche in tutta Europa e in America Latina, freddezza della critica e disattenzione del pubblico in Italia. Perché?

16 gennaio 1953. Si alza il sipario al Teatro Antoine di Parigi: va in scena L’Heure éblouissante, allestimento francese de L’ora della fantasia di Anna Bonacci. È il trionfale prologo di un successo planetario. Mentre nella capitale francese vanno in scena Eduardo, Ugo Betti e Pirandello, i parigini fanno la fila al botteghino del teatro Antoine e le entusiastiche recensioni dei quotidiani d’oltralpe registrano un consenso immediato, vivo, di pubblico e di critica. Sentiero inconsueto per chi ignorava chi fosse «questa madame Bonacci» e audace apertura di credito a una commedia rappresentata in Francia, ambientata in Inghilterra in età vittoriana, scritta in italiano da una affascinante, sconosciuta signora della penna, almeno dieci anni prima. I fili che hanno condotto a questo risultato sono intricati, complessi, ma portano a due precise e complementari direttrici di lettura e di azione. La prima. I francesi colgono da subito nella commedia un lavoro di scavo sulle emozioni e sui pensieri delle protagoniste, che lascia emergere una coscienza nuova del femminile; e, invece di disegnarne l’apparente trama sentimentale, richiamano e apprezzano i pimenti psicanalitici che fecondano la commedia, cogliendone insieme risposte ora leziose ora graffianti, ad una società  che  aveva bisogno di leggerezza, ma che stava anche affrontando, con forza, i temi della indipendenza femminile nel dibattito culturale. La seconda e vera ragione del successo fa leva proprio sulla trasformazione della commedia in uno spettacolo, chiarendo così il senso dell’éclat francese. Simone Berriau, allora direttrice del Teatro Antoine a Parigi, aveva capito che quella commedia di un’autrice sconosciuta – e non francese – per affermarsi sulla scena doveva essere rivestita, come sarà, «d’un plume parisienne». Ben presto, il lusinghiero giudizio sull’opera inizia a sospingere inclinazioni sciovinistiche via via amplificate, e i francesi si aggiudicano la paternità del successo dell’opera. In Italia, intanto, in un continuo andirivieni di esaltazione e rabbia, la scrittrice segue il polverone mediatico che si è sollevato; vede sottolineata anche dalla critica italiana l’importanza, per il successo planetario della commedia, dell’intervento di Henry Jeanson, il dialoghista «che ti trasforma in sciampagna un denso vino d’Algeria, in cioccolatini al liquore un piatto di patate lesse» e quello degli interpreti (tra cui una splendida, giovanissima, Jeanne Moreau). Posizione, questa, propria degli importanti cronisti del «Tempo», condivisa dai colleghi del «Corriere della sera» e avvalorata dalle note acide e stizzose del critico teatrale allora decisamente più importante, Silvio D’Amico. Per lui la Bonacci è «una esordiente», capace di ideazione, ma non di costruzione di una piéce, e la sua commedia uno sterile tentativo di pochade all’italiana risolto, come in altre sue commedie, in una «favoletta». Aspra la querelle, confermata dall’epistolario, tra la scrittrice e la severa critica italiana; contenziosi e querele che aumentano, mentre L’ora della fantasia inizia il suo trionfale viaggio nel mondo. Il testo per l’allestimento che produttori e agenti stranieri intendono seguire sarà, però, proprio quello francese, tradotto da Albert Verly, coi dialoghi di Henri Jeanson: lo spettacolo, insomma, che Simone Berriau voleva. Ma c’è di più. La non dissimulata distanza di D’Amico dalla Bonacci, di cui pure il critico aveva apprezzato, come Tilgher e Pirandello, il primo testo teatrale La casa delle Nubili (1936), è anche polemica distanza dalle posizioni teatrali di Anton Giulio Bragaglia, nume tutelare della scrittrice. Non sono solo differenze di natura teorica e ideativa sulla specificità teatrale e dunque non nascono solo dalle pur reali ragioni di tenuta scenica delle commedie della Bonacci. Nascono invece proprio da temi e stilemi che premono alle soglie e costruiscono e accompagnano l’immagine del femminile che vi si disegna, dalla graffiante rappresentazione delle smagliature morali della famiglia, della società, della politica, delle distorsioni della religione, dalla sua lucida premonizione dei miti della modernità: la bellezza, la seduzione, il successo, la mondanità, il cinismo del potere. Decisamente troppo per il cattolico D’Amico e per la esterofila critica italiana, non più costretta nei limiti di prudenza necessari di fronte al nome della famiglia da cui Anna discendeva, quello dei Mancini-Bonacci, culturalmente e politicamente tra i più influenti dello Stato italiano sin dal Risorgimento.

Ulteriore, non secondario tassello, per animare di nuove implicazioni una visione critica sostanzialmente bloccata, potrebbe essere dato dal rapporto tra la commedia e il clima storico culturale in cui si colloca. Scritta nei primissimi anni ’40, rappresentata all’Argentina nel ’44, poi a Venezia nel ’48 con un successo di circostanza, viene alla luce nel quadro storico di un’Italia provata prima dal fascismo e dalla guerra, culturalmente dominata poi dal neorealismo, successivamente percorsa da profonde trasformazioni politico-ideologiche ed economiche, da sperimentazioni complesse nella vita letteraria e artistica. Una situazione storica e teatrale sfavorevole: da un lato sicuramente troppo tardi, quando la drammaturgia si apre alle miserie di un quotidiano povero, squallido; quando si assiste ad un totale cambiamento del repertorio, del pubblico, dei temi, della recitazione stessa; quando i registi, nuovi signori della scena, privilegiano scelte di alta qualità costringendo spesso l’autore sotto la propria egida. Dall’altro, va in scena troppo presto in una società, quella italiana, ancora troppo attardata culturalmente, per cogliere le indubbie ragioni di modernità di una commedia che tocca la vita di coppia, la solitudine e la finzione matrimoniale, la contiguità sesso-potere, i mercanteggiamenti a fini di successo, le crepe morali insomma di un mondo che la Bonacci aveva visto  prodursi già durante il Fascismo e che  sono forse, ancora di più, quelle di oggi.

Hai parlato della trasformazione della commedia in un vero e proprio «spettacolo». In che senso? Qual è stata dunque la chiave del successo francese?

Parto dalle ragioni del successo francese. È stato un inaspettato «fattore X». Simone Berriau, «brillante femme de théatre», che proprio nel 1953 festeggiava i suoi primi dieci anni di direzione artistica del Teatro Antoine (dove aveva portato i più grandi autori della realtà francese, da Sartre a Bernard, a Bourdet), cercava una pièce interessante da portare in scena nel gennaio 1953. Nella sua autobiografia, Simone est comme ça, ricorda di avere avuto un coup de foudre leggendo la pièce della Bonacci (senza conoscerne l’autrice), tra le pile di manoscritti poco interessanti depositati nel suo petit bureau: il testo, a titolo L’heure éblouissante, è L’ora della fantasia nella versione francese di Albert Verly. Successo francese, prima di ogni altro (impossibile negarlo), determinato da una serie di fattori concomitanti: scelta oculata  sia del  cast artistico che di quello tecnico: una venticinquenne splendida, sensuale Jeanne Moreau (già nota, ma non ancora celebre, che, dopo la prima, interpreterà entrambe le parti femminili per l’improvvisa indisposizione di Suzanne Flon), Pierre Blanchar e Bernard Lancret per le parti maschili di rilievo, un grande regista della Comèdie-Française, come Fernand Ledoux. Nel cast tecnico le scenografie vennero affidate a Emile Bertin e i costumi a Pierre Balmain, mentre a un musicista come Paul Misraki, il grande compositore di origine turca che aveva composto canzoni per Edith Piaf (è suo il valzer L’amour s’en vient, l’amour sen va, cantato in modo sensuale dalla Moreau) venne chiesto anche di introdurre all’interno della commedia vari passaggi musicali. Il ruolo fondamentale lo ebbe soprattutto un abile dialoghista, una straordinaria penna del giornalismo francese, un polemista feroce di grande fama quale Henry Jeanson. È, se vogliamo, un secondo fattore X. E qui veniamo alla prima parte della tua domanda. L’apparente acquerello puritano che la Bonacci aveva disegnato, le volute capricciose di un linguaggio agrodolce che si muove tra il lezio e il graffio, tra fiaba e ironia, il fascino indiscreto dei temi, la profondità leggera, la magica leggerezza, insomma, della commedia italiana diventa, tra le sue mani, una partitura in cui suonano ben altre note. Come spesso accade nei processi traduttivi, anche Jeanson, pur lasciando invariata la struttura dell’opera e sostanzialmente anche l’intreccio, allunga la commedia di ben tre volte il testo originario, intercettando e rendendo inequivocabili, espliciti, temi e stilemi erotici e religiosi su cui la Bonacci aveva svolazzato con andamento sinuoso, alludendo e sfuggendo la gravità degli argomenti affrontati. Le battute diventano salaci ed erotiche, gli attacchi al bigottismo religioso espliciti; l’insistenza sul tema del denaro e dell’interesse personale, del «marché conclu» sono affrontati con un artiglio affilato, non con il bulino della Bonacci. Altro cartello indicatore: il linguaggio utilizzato è di una modernità forse anche eccessiva per un testo ambientato nell’Ottocento; è privato di ogni descrizione superflua, di ogni nota crepuscolare, di quelle mezze luci che si accendono per lasciare affiorare verità inconfessabili, sottraendo così all’opera la sua dimensione favolistica. Anche i personaggi, proprio perché prioritario è il tema dell’intrallazzo, dell’accordo predefinito, diventano in alcuni casi più forti e sicuri di sé (le due donne specialmente) sempre e decisamente più moderni nel rispettato gioco geometrico degli opposti. Il linguaggio è certo più aderente di quello di Anna al periodo in cui la commedia è stata messa in scena a Parigi, ma l’operazione Jeanson  ha sostanzialmente privato la commedia  italiana del suo fascino ambiguo, allusivo, della verità interiore che lentamente affiora nei personaggi femminili e che li porta ad essere, almeno per una notte, quello che non sono, ma che sempre avrebbero voluto essere. In proposito Bragaglia diceva che il teatro della Bonacci è «il teatro della vita non vissuta». A conferma, valgano le parole di Anna: «Occorre fare di ogni vita, anche la più insipida, un’immensa avventura… con gli splendori dell’immaginazione».

Puoi accennare alle due trasposizioni cinematografiche, cioè quella di Camerini e quella di Wilder?

Nel 1952 Mario Camerini firma la regia e – con Franco Brusati e Paolo Levi – la sceneggiatura della prima trasposizione cinematografica della commedia della Bonacci Moglie per una notte. Film discutibile e discusso (più intrigante e problematico, forse, di quanto appaia ad una prima visione) che coglie e aggrava le avvisaglie, presenti nella commedia, di un nuovo clima morale del nostro Paese. Nonostante potesse valersi di un cast straordinario: Gina Lollobrigida, Gino Cervi, Armando Francioli, Paolo Stoppa, Nadia Gray, il film fa arricciare il naso all’autrice, alla Lollobrigida e alla critica e arriva in Francia nel 1953, dopo il successo della commedia in teatro.

Una conferma ulteriore dunque per le rivendicazioni francesi in merito al successo mondiale della commedia, che, voglio ricordarlo, era stata respinta, perché giudicata scandalosa dalla Warner Bros, non adatta al puritano pubblico americano. La stessa sorte toccherà al film di Billy Wilder, Kiss me stupid (1964) derivato dalla commedia di Anna, non dunque un remake di Moglie per una notte, censurato e bollato come scandaloso in una America già kennediana. Il film è una godibile satira dell’american way of life, un attacco ai valori ipocriti della midlle class americana dove il travestimento e il mercanteggiamento a fini di denaro e di successo travolgono persone e relazioni, cancellano ogni identità nella trasformazione dei ruoli, in una vertigine dello scambio, in una continua spregiudicatezza morale. Che un regista (che ha firmato la sceneggiatura con I.A.L. Diamond) già celeberrimo per aver firmato Viale del tramonto, A qualcuno piace caldo, Gli uomini preferiscono le bionde, Sabrina, Quando la moglie è in vacanza, L’appartamento,  Irma la dolce, (solo per ricordarne alcuni) citi nei titoli di testa l’opera della Bonacci forse non è cosa trascurabile. Forse a Wilder quella commedia non è sembrata solo «una torta di castagnaccio e zucchero filato» come continuava a sostenere la critica italiana. Ha colto invece ed esasperato il nocciolo duro della commedia: la messa in crisi dei fondamenti rocciosi della morale borghese, a cominciare dal matrimonio e dalla vita di coppia, fustigando i costumi americani  nel loro finto perbenismo, presentando i personaggi non come desiderosi di evadere dalla loro piccola quotidianità verso il sogno, la fantasia, ma verso i lauti guadagni, verso il successo e, per ottenerlo, sono disposti anche ad affittare una prostituta che sostituisca la moglie nella svendita dell’amore coniugale. Solo Polly, la prostituta, interpretata da una sensuale e splendida Kim Novak, col suo finto diamante all’ombelico, i suoi abiti succinti, sembra salvarsi nel sarcastico annientamento di ogni valore che il film presenta. Il travestimento, l’intrigo, la beffa, tutto ciò che la Bonacci aveva derivato dalla novellistica e dalla commedia classica, assume un andamento parossistico nel film di Wilder che aveva fatto di questi stessi temi le dinamiche portanti del proprio cinema. Le allusioni, le reticenze eloquenti della commedia diventano grottesche, ridondanti parole di personaggi resi cinici, spregevoli; l’ironia leggera diventa satira condotta su un Paese come l’America che le immagini di Wilder ricostruiscono con occhio lucido e acuto, con le dolorose vibrazioni intime di «uno straniero». Un rapporto insomma di adesione e superamento del testo originario certo, come è giusto che sia, ma che colloca il regista nella scarsa schiera di coloro che ne hanno inteso, al di là di inutili etichette, non i luoghi comuni ma le note stonate rispetto ai tempi sino a concludere il film con quel «no questions»  che  rinnova il falso lieto fine, il senso di una recita coniugale che continua. Come la chiusa della commedia della Bonacci lasciava abilmente intendere.

A questo punto credo che tu debba rispondere a due impellenti curiosità: cosa racconta L’ora della fantasia? Quali sono le sue novità tematiche?

Partiamo dal plot. Siamo in una piccola città di una contea inglese in epoca vittoriana. Un villaggio dove le giornate si ripetono eguali, dove il tempo viene scandito dagli appuntamenti religiosi. Una realtà sociale falsa, ripetitiva, dominata dal controllo della Chiesa. Qui una moglie, Mary, perfetta incarnazione della domesticy, sposa paziente di George Sedley (megalomane musicista di parrocchia che si crede ingiustamente sottovalutato) accetta – dopo qualche tentennamento, e per favorire la carriera musicale  del marito – l’imbroglio proposto dal borgomastro Taylor: uno scambio di persona e di spazi tra lei e Geraldine, la prostituta di paese. Geraldine, fingendosi Mary, dovrà adescare lo sceriffo Ronalds (noto donnaiolo) in visita nella contea e ospite dei Sedley. La sua compiacenza potrebbe aiutare (e così sarà) Sedley nella sua carriera. Nel boudoir di Geraldine, vestendo altri abiti, quelli suggeriti dalla esperta domestica della prostituta, Mary si sente diversa, si vede bella, si apre ad altra vita, ride e beve con dei mercanti che la credono una prostituta e infine consuma adulterio con lo sceriffo, sospendendo per una notte i protocolli della ragione e della recita quotidiana, per vivere liberamente un’ora di passione. In casa, intanto, Sedley, marito di Mary, si lascerà sedurre dalla dolce prostituta che sogna una vita matrimoniale, mandando al diavolo lo sceriffo in visita, che finirà per trovare nella casa di Geraldine proprio Mary, con cui vivrà una notte di passione. Tornata a casa, Mary non sarà più la piccola inconsapevole Madame Bovary del primo atto. La moglie perfetta non ha più interesse per il proprio quotidiano e risponde in maniera puntuta al marito, ignaro di quanto sia accaduto. Geraldine andrà in chiesa per sentire ancora suonare George, con grande scandalo delle bigotte di paese. L’arrivo del borgomastro, che ha ricevuto la stella a cinque punte per il servizio reso, crea una nuova inaspettata situazione teatrale: George non può resistere e nell’esaltazione del successo non sa tacere e confessa che l’intrigo non ha rispettato il copione stabilito. Sarà il campanaro a spiegare di avere visto uscire all’alba dalla casa di Geraldine lo sceriffo. Il «grazie» che Mary rivolge al borgomastro consente a lui, non al marito, di capire e la scena si chiude con la donna che guarda la cassapanca in cui conserva lo scialle regalatole dai mercanti. Oggetto da guardare per ricordare o per alimentare una nuova fantasia? E dunque, finzione che continua? A proposito dei nuclei tematici, il titolo già esplicita una tematica hard: l’ora della fantasia è il momento di una vera trasgressione, della sospensione di ogni etica normativa per soddisfare inconsci desideri: «vivre son rêve». Non è più solo «il gioco dell’equivoco e dell’impreveduto» che tesse le fila delle commedie di De Benedetti. Qui, una situazione out low, viene vissuta come naturale. Fantasia e trasgressione, regole e ordine sono di nuovo a confronto, come sempre negli scritti di Anna, ma la commedia non è da leggere secondo un’ottica di gender (neppure nella sua versione emancipazionista); non si notano intenzioni pedagogiche rivolte a consacrare il ruolo femminile entro la famiglia; non si difendono diritti della donna oppressa. Non esistono intenti pedagogici o personaggi donna positivi da romanzo rosa; i  luoghi comuni del teatro borghese poi, perdono la loro realtà formulare, la loro liturgia per diventare operativamente concreti: non  silfide né vampira, non  portatrice di un eros meduseo,  ma creatura ritornata di carne, complessa, composita, non  più pirandellianamente donna mediterranea, divisa tra i ruoli di madre o  moglie o amante, ma una donna  di virtuosa amoralità, che compie adulterio senza alcun senso di colpa. La novità del tema non sta solo nell’adulterio  effettivamente vissuto (modernità stridula  per tempi in cui l’adulterio era, doveva essere, esclusiva prerogativa del  genere maschile), ma anche  nella conclusione, non  troppo mimetizzata,  di una pièce nella quale i personaggi non trovano una nuova identità, ma una nuova finzione. In un impasto di salsa piccante e miele, si costruisce non un triangolo, ma un perfetto quadrilatero che vede realizzarsi per un’ora di fantasia alternative di vita possibili per due donne, quelle alternative che entrambe sognano: due donne con ruolo e status opposti si scambiano le parti e sembrano trovarsi benissimo fino al limite, poco dissimulato, per nulla scosso dal dubbio, che la donna sia anche un corpo che si affitta. Viene colpita al cuore l’etica del sacrificio, della rinuncia, l’istituzione matrimoniale stessa; emergono le crepe morali di una società, quella vittoriana che ha molte consonanze con quella dell’Italia fascista. L’escamotage di affidare poi ad una serva  una  puntuta silloge del matrimonio è, da parte dell’autrice, prudenziale, ma evidente comprensione di una precisa situazione storico-culturale, in cui non era facile sostenere certe tesi: «Io penso che il matrimonio unisca malinconicamente per tutta la vita due persone che avrebbero passato insieme qualche settimana deliziosa». Nuclei ideativi decisamente eccentrici, e precoci per una donna (come l’immaginario erotico mostrato in una quotidianità di situazione), si accompagnano a note molieriane sul matrimonio come infinita serie di tradimenti mentali e si intrecciano a qualche considerazione cechoviana sulla solitudine che in esso si vive; resta, è giusto rimarcarlo, un alone favolistico sentimentale  quando le due protagoniste, in situazioni inconsuete, raccontano sogni e desideri che ancora una volta rimandano a un amore ideale, ad un principe azzurro che continua a vivere nella loro fantasia. Talora, però, un’ironia ariosa apre, con lo sguardo dell’immaginazione, spazi altri, non percorsi dal mondo femminile contemporaneo alla Bonacci. E allora l’ironia, come si sa, musa dei contrari, confonde le gerarchie, sovverte i valori in un teatro labile come un sogno, ma con contrappesi di piombo.

Chi era, in definitiva, Anna Bonacci?

Ritengo che per cogliere il sottile, complesso intreccio tra opera e diagramma biografico sia possibile partire a due luoghi geografici che diversamente segnano il destino e il profilo di Anna Bonacci: Roma e Falconara. La villa di Falconara, «la casetta stracciona» dove non voleva vivere, è stata per lunghi anni solo il soggiorno estivo della sua famiglia, prima di essere la sua dimora definitiva nei tristi anni della vecchiaia. Casetta stracciona certo, ma solo se messa a confronto a Palazzo Borghese, dove era nata, nel 1892, ultima dei sette figli del senatore jesino Teodorico Bonacci (allora ministro di Grazia e Giustizia nel Gabinetto Giolitti), e nipote, per linea materna, di uno straordinario giurista e uomo politico (nei difficili anni vissuti dal Paese prima e dopo la l’unità d’Italia), come Pasquale Stanislao Mancini e Laura Beatrice Oliva («la poetessa del Risorgimento»). Scoprire l’importanza storico-politica e culturale della famiglia cui apparteneva, non è stato solo l’aver reperito un dato sconosciuto della sua biografia: quello era l’elemento nucleare di un percorso conflittuale, di ribellione verso la struttura soffocante della famiglia, verso la severa educazione impartitale, verso le regole dell’ipocrisia, verso tutto ciò insomma che le aveva provocato laceranti sensi di colpa. Era anche, però, matrice di opposte espansioni letterarie e comportamentali; era anche possibilità di capire che il suo corredo di intelligenza, avvenenza e charme, aveva bisogno della scena pubblica, dei fasti della vita romana: «Io – dice il mio dottore – devo trovarmi sempre in un luogo dove faccia la prima attrice». L’agorafobia conseguente alla nevrosi ipocondriaca che aveva caratterizzato gli anni giovanili si rovescia, a metà degli anni Venti, in volontà di ostentare la propria bellezza, di esercitare con alterigia il suo fascino regale e voluttuoso, la propria vanità, recitando – nei luoghi più elitari della capitale – il nuovo personaggio che ha costruito di sé. Recita, appunto. Inaccettabile, dunque, la proposta di Lydia, la sorella maggiore, di andare a vivere a Falconara, tra gente che considera rozza e provinciale quando, dopo la morte dei genitori, il benessere economico della famiglia si è assottigliato a un punto tale che non sono più in grado di sostenere lo status e i costi della vita romana. Sarebbe stato un mondo di sole donne (se si esclude Attilio, un «ducetto» inattivo che morirà nel 1935), e, di nuovo, una famiglia; Giuliano, corrispondente di guerra del «Corriere della sera» era morto in guerra nel 1917, e Filippo continuava la professione paterna a Roma. E a Roma continuerà a vivere, in pensioni, in case in affitto, a fare vita mondana nella capitale, scrivendo ogni giorno lettere alle sorelle (spesso per chiedere «prestiti»), ma inviandole separatamente a ciascuna di loro. Prova, anch’essa, di un legame  tormentato (un legame da cui non riesce però almeno formalmente, se non sentimentalmente a sbarazzarsi ); un amore-odio che giustifica sia il rifiuto di vivere a Falconara, sia quello di non volere mai possedere una casa (costringendosi a vivere, ospite di lusso, in pensioni di lusso, in camere d’albergo, lamentandosi continuamente del loro non essere consone alle sue esigenze), perché quella eventuale stabilità avrebbe consumato ogni possibilità immaginativa, ogni possibilità di pensarsi altrove, nei sentimenti e nei luoghi, di derogare al prevedibile, al conforme. Ribelle, testarda, altera, contro sin da bambina. Irrisolti complessi psichici si manifesteranno, nella adolescenza e nella prima giovinezza, con i sintomi di quella nevrosi ipocondriaca di cui soffrirà in modo più o meno pesante tutta la vita. Disturbi nervosi alimentati da conflitti intimi tra regola e trasgressione, virtù e vizio, piacere e dovere, impulsi sessuali e ideali, desiderio e rinuncia che la porteranno a sperimentare, con primi grandi psicologi italiani, l’analisi freudiana, a vivere la scrittura come terapia e autoanalisi, modo per conoscersi. Quando, nel 1926, diventa un personaggio pubblico, con la pubblicazione a firma Igor Velasco (una firma maschile, dunque) de Le favole insidiose, la sua irregolare e dunque ancor più seduttiva bellezza, la sua vasta e disordinata curiosità culturale,  la sua eleganza vistosa, sembrano rovesciare l’immagine di quella giovane angosciata in quella di un essere trasgressivo, seducente, affermando e fermando sulla pagina l’immagine di una nuova donna che traveste con una nuova identità, le proprie paure. E le favole, il suo viaggio verso l’inconscio, condotto attraverso una rilettura capovolta di sei fiabe di Perroult, sono splendida sceneggiatura di meccanismi psichici, sono la scoperta di un Sé plurale in una già presente drammaturgia dell’anima, in un teatro insomma. Se i circoli letterari ed esoterici più esclusivi di Roma non tarderanno a chiamarla «la poetessa della psicanalisi» ammaliati da tanta avvenenza e da tanta risoluta e coraggiosa impudenza, quel mondo, ancora dorato, favorirà il suo passaggio alla scrittura per il teatro. Una scelta che vale anche come ulteriore sfida: misurarsi dopo diari, racconti, novelle, poesie, romanzi (talora a firma del compagno Della Noce; opere che le danno utile economico, ma scarsa notorietà), con un genere codificato al maschile, dove la creatività femminile riceveva scarse attenzioni. Il rifiuto di vivere a Falconara, come quello di avere una casa propria, è anche rifiuto del matrimonio con Guglielmo della Noce («valeriana degli uomini», secondo la ironica definizione di Bragaglia), l’uomo che le è stato accanto tutto tutta la vita sopportandone le bizze, gli umori instabili, i tradimenti forse, o forse solo la civetteria e il bisogno di immaginare schiere di amanti ai suoi piedi. Della Noce era un colonnello dell’aviazione fascista con incarichi importanti nel Ministero della Cultura e propaganda e, come responsabile dell’Ufficio Editoriale aereonautico, dirigeva giornali di settore come «Le vie dell’aria», «L’aquilone», in cui aveva pubblicato, a proprio nome, racconti e novelle di Anna. Un amore nato da una possibile avventura diventa una relazione lunga una vita: per lei abbandona moglie (di un importante casato) e figli con conseguenze non secondarie sul piano economico e lavorativo; per lei quell’uomo diventa padre, fratello, amico, amante, agente. Un amore che favorisce incontri e pubblicazioni, la mette in contatto con gli uomini di cultura e di teatro, l’accompagna ovunque anche quando, con il successo francese tutto cambia. Certo successo, certo guadagni, ma anche crescenti preoccupazioni per le modifiche che le sue opere ora in scena subiscono nelle traduzioni, per le assillanti richieste degli impresari, mentre la scrittura, pur praticata ogni giorno, rivela un’immaginazione sempre più portata ad inseguire trame favolistiche o mostra un riuso manieristico, superficiale dei propri materiali, anche quando prova ad osservare un costume cambiato. Ancora una volta, per arrivare ad un’altra opera di respiro, occorre che Anna sondi di nuovo la propria condizione autobiografica. La lente di ingrandimento si fissa allora su un personaggio anziano, cogliendo i tormenti della sua senilità giunta alla resa dei conti. È il 1957.  Rina Franchetti interpreta ai Satiri Il crepuscolo. L’incontro del soggetto con se stesso è arrivato ad una dolorosa sensazione di fine. Il personaggio donna che aveva incarnato tra vanità ed estetismi incontra i dolorosi tormenti di una senilità giunta alla resa dei conti. Ma anche qui scardina orizzonti d’attesa stabiliti quando si parla di vecchiaia: essa non è per lei stanca serenità, saggezza, ma scacco, tragica consapevolezza di un nulla che si è attraversato nell’attesa, inutile diagramma di un’avventura umana costellata di rinunce. La vecchiaia selvaggia che qui si disegna non è correzione della vita, ma tragedia del non essere che attiva il desiderio nel disperato tentativo di dare senso al vissuto e di resistere all’impietosa invadenza del tempo. L’ossessione quasi feticistica di conservare tutto della sua quotidianità, non solo del proprio lavoro – così che accanto ad appunti, manoscritti, lunghe liste di aforismi, è possibile rinvenire liste della spesa o conti della sarta – lascia ora spazio alla furia ablativa con cui cancella date e ogni possibilità di datazione da lettere, cartoline, opere e corregge a penna le fotografie che potevano rivelare la corruzione che il tempo aveva esercitato sulla bellezza. Il mondo di Anna si sta già chiudendo: possono allora risuonare nei testi dell’ultima stagione creativa le parole degli amati scrittori libertini del ’600: le Lettere sulla vecchiaia di Ninon de Lenclos, i motti di Saint Évremond, riassunti da un aforisma di La Rochefoucauld: «L’inferno delle donne è la vecchiaia». Per lei lo è stato. A Falconara. A Falconara, dove ancora aveva tentato di sorprendere i falconaresi con pose trasgressive, con vestiti ridicoli per la sua età, recitando ancora la parte della donna seducente sino all’ictus che, nel 1976, devasta il suo corpo e la sua mente, sino alla morte nell’ospedale di Ancona nel 1981.

Parlaci del rapporto tra la scrittrice e i suoi personaggi…

Per rispondere alla domanda, isolerò solo qualche spunto, riferendomi ad alcune opere. Un dato certo: per Anna Bonacci la scrittura è stata sempre una sorta di laboratorio di identità, un ossessivo grumo interiore che diventa nucleo generativo della sua immaginazione. Un groviglio in cui coesistono la tentazione alla ribellione e al piacere sensuale; la tendenza ad isolarsi nei piaceri della fantasia e/o macerarsi per i sensi di colpa; una oltranza e una rinuncia in un narcisismo sfrenato che accoglie ora l’una ora l’altra tendenza o le raffigura contrapposte nella pagina. Sin dal primo trasgressivo personaggio de La «Cortigiana del sogno», «la prostituta dell’ideale», affiora, nelle inedite giovanili Poesie, il pendolarismo tra sé e altro da sé, tra eros e amore ideale; e la scrittura mostra già i segni di un’assenza, di un appagamento sempre rinviato: s’avverte, in una artificiosa e insieme significativa ricerca, la malattia di un’anima che ha paura di se stessa, e dei propri istinti.

Muoversi nel labirinto dell’inconscio, riflettere su Eros, Desiderio e rinuncia, virtù e vizio, viaggiare in modo allucinato nella drammaturgia della psiche è la scelta che presiede, s’è detto, a Le favole insidiose. I personaggi di queste fiabe sono crudeli e perversi, toccano elementi autobiografici di patologia amorosa spesso percorsa da note aggressive, tormentata da ossessioni mistiche. L’opera mette a nudo i meccanismi psichici che dominano l’agire umano: sesso, arrivismo, sadismo, complessi edipici e bisogno di fuga nel sogno. Conoscersi, se non dominarsi, è anche la via per una nuova sfida verso un mondo autoriale decisamente maschile, per soddisfare la propria vanità, per il narcisistico piacere di diventare un grande personaggio pubblico. La consapevolezza acquisita che può attraversare il proprio caos e portarne alla luce alcune riflessioni, proiettando nei personaggi specchiate immagini di un sé plurale, diventa elemento mediatore tra il teatro dell’analisi proprio delle Favole e il vero teatro, portando ad una nuova nascita che è anche nascita di una nuova scrittura teatrale. I plot saranno strutturati proprio su una dinamica oppositiva, contraddittoria di temi e personaggi, dei loro nomi, dei loro spazi, delle categorie grammaticali stesse che vi presiedono, sino a mostrare il rapporto di scambio tra due realtà, in cui l’una camuffa l’altra, in una drammaturgia che non ha più come setting il teatro borghese, ma la dimessa realtà del quotidiano colta in ambienti domestici. Non solo. Ho già accennato al primo testo teatrale, La casa delle nubili. La commedia affronta un tema, il nubilato, da una prospettiva scomoda, quella stessa dell’io che scrive (Anna nel 1936 ha 44 anni ed è nubile), dove il grande tema di eros, tragicamente affrontato ne Le Favole insidiose, diventa galateo mondano che irride la virtù (che «è tale finché non è stata messa alla prova») e inneggia al piacere. Se «solo nell’immaginazione è la purezza dell’innocenza», il personaggio della Bonacci vive nell’interstizio tra realtà e immaginazione, tra vero e falso, bene e male, eros e amore ideale, rincorrendo sempre l’infinito piacere della mente, interpretando, come attore, il teatro delle passioni. L’autore – l’autrice – come Don Chisciotte (ed stata disattesa dalla critica anche l’audacia quasi presuntuosa e programmatica di Incontro alla locanda, testo del 1942, dove faceva incontrare in una locanda spagnola del milleseicento due miti dell’immaginario come Don Giovanni e Don Chisciotte) vive di sogni, di deliri immaginativi, corteggia la realtà, ma volontariamente sceglie la misura chimerica di un teatro leggero come una favola, labile come un sogno. Ne L’ora della fantasia le istanze programmatiche di Incontro alla locanda si compongono in una scrittura in cui le parole le parole danzano leggere e ironiche, smontando la solo apparente earnestess di quella società dalla falsa morale, ridicolizzando insieme smanie sessuali e ipocrisie, cinismo e vanagloria dei personaggi maschili. Proprio perché i suoi personaggi sono sempre modelli proiettivi di parti nascoste del sé, gioco continuo di maschera e identità, maschere di un sé  che dice e non è detto, orme  metamorfiche di un io capace di mettere a fuoco una dinamica psichica che si sdoppia  tra simulazione e verità, tra luce e tenebre, tra esaltazione e angoscia, voci insomma di  un solo vero personaggio nato da una drammaturgia interiore mossa dalla libido, non deve sorprendere  l’apparente decantazione nella Casa delle nubili, come ne L’ora, del groviglio emotivo che presiedeva la sua scrittura, né la presenza  nella commedia di maggior successo, di due personaggi di donna che felicemente si scambiano le parti. É un’istanza progettante nella quale, come nell’inconscio, i contrari possono convivere, a consentire il nuovo alfabeto dell’immaginario che qui la Bonacci inventa. Inventa recuperando temi e strutture di un ricco patrimonio culturale velocemente assimilato e reso proprio. Non deve sorprendere, altresì, se pochi anni dopo la apparente leggerezza de L’ora della fantasia Anna scriva Il giudizio universale (1950). «Ritratto di famiglia in un interno», Il giudizio universale è la versione rovesciata, tragicamente negativa de L’ora della fantasia. Una commedia del 1950 (che Cesare Vico Lodovici trasforma in un libretto d’opera musicato da Vieri Tosatti e rappresentato alla Scala nella primavera del ’55), che lascia trasparire – in una apocalittica sensazione di fine – un’umanità ipocrita e disonesta; una commedia nella quale l’ironia si fa sarcasmo, il desiderio diventa vizio della mente e dei sensi, il dialogo tra gli stessi membri di una famiglia, vomito di parole ingiuriose.

In una produzione che copre circa cinquant’anni (1926-1977, data, quest’ultima, dell’ultima opera, Una strana ordinazione) la vena creativa sembra esaurirsi già all’altezza della fama internazionale de L’ora della fantasia, quasi per un appagato, soddisfatto narcisismo. Il successo, giunto in età matura, è stata forse causa non ultima della mancata ricerca da parte dell’autrice di nuove tematiche e di nuove sollecitazioni culturali. Nelle opere della vecchiaia, ancora manieristicamente rivivono, nel delirio dell’immaginazione, gli abissi dell’essere in un quotidiano che ora lascia risuonare note scivolose che deformano stati interiori, e con volute ora oblique, ora elusive, mostrano crepe, grinze, falle di un’esistenza mancata. Trascuro molte altre commedie posteriori di minor impatto, che spesso rappresentano la versione senile di opere giovanili, quando l’incontro del soggetto con se stesso è giunto ad una dolorosa sensazione di fine. Fine dell’attesa e attesa della fine. La scrittura non è più leggera, ma manieristica, si attorciglia su se stessa e l’aggiornamento dei temi diventa quasi una rimasticatura. Al di là, dunque, di facili sociologismi e di altrettanto facili automatismi interpretativi, le commedie rivelano l’eccentrico coraggio di una donna alla ricerca di se stessa, capace di mettersi in scena attraverso tematiche rischiose, con un sorriso ora sentimentale, ora sardonico, ora tragico, sostanzialmente incapace di vivere la dimensione della realtà: una sostanziale «manque-á être».

Alessandro Carli

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