Antonio Tanza e Donatella A. Cazzato
Nota a sentenza Corte di Cassazione, Prima Sezione, n. 3170 del 7.02.2017
– Rel. Acierno – Pres. Dott.ssa Maria Cristina Giancola
L’art. 43 della legge fallimentare ha natura innovativa e non si applica alle dichiarazioni di fallimento intervenute prima della sua entrata in vigore (16/7/2006 ). Ne consegue che ai fini della tempestività della riassunzione si applica l’art. 300 cod. proc, civ, ed il termine decorre dalla dichiarazione in udienza del procuratore costituito.
La prescrizione in ordine all’indebito solutorio non può che iniziare a decorrere da quando esso si è verificato e cioè non oltre dieci anni prima dalla chiusura del conto, come evidenziato nella massima ufficiale della sentenza delle S.U. n. 24418 del 2010 e da ultimo da Cass. n. 10713 del 2016.
E’ onere della banca allegare o provare l’esistenza della pattuizione relativa alla simmetricità cronologica della cadenza degli interessi passivi ed attivi dopo la delibera CICR del 9 febbraio 2000 dovendo in difetto escludersi l’applicazione della capitalizzazione trimestrale/annuale degli interessi attivi a partire dal 1/7/2000.
La Suprema Corte, con la sentenza in commento, risolve lucidamente due profili di diritto:
l’ambito di applicazione temporale dell’art. 43 della Legge Fallimentare e il dies a quo della prescrizione nei contratti di conto corrente.
Con riferimento al primo profilo, la Cassazione statuisce, senza lasciare spazio ad una diversa interpretazione, che l’art. 43 della legge fallimentare ha natura innovativa, e non meramente interpretativa, e dunque, non si applica, alle dichiarazioni di fallimento intervenute prima della sua entrata in vigore.
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Il Decreto Legislativo del 9 gennaio 2006, n. 5, “Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali”, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 12 del 16 gennaio 2006, prevede, infatti, con riferimento all’ambito di applicazione temporale delle nuove disposizioni, all’art. 153 che “il presente decreto entra in vigore dopo sei mesi dalla sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale”(id est a partire dal 16 luglio 2006).
Pertanto, la Suprema Corte ritiene prive di pregio logico-giuridico le considerazioni della Banca ricorrente secondo cui il co. 3 dell’art. 43 L.f. si mostra come norma interpretativa perché avrebbe consentito di chiarire il senso del comma primo dello stesso articolo e di dare risposta ai dubbi che il primo comma di tale norma aveva posto circa le conseguenze della intervenuta dichiarazione di fallimento sui processi in corso al momento della sua pronunzia e nei quali il fallito era parte.
Alla luce di tali premesse, la Suprema Corte risolve anche il secondo motivo di censura, confermando un orientamento orami consolidato secondo cui “la pronuncia di fallimento anteriormente alla riforma attuata con il D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 – non produce effetti interruttivi automatici sui processi in cui sia parte il fallito, perché la perdita della capacità processuale che ne consegue non si sottrae alla regola, dettata a tal fine dall’art. 300 cod. proc. civ., della necessità della dichiarazione in giudizio da parte del procuratore dell’evento interruttivo, in difetto della quale il processo prosegue tra le parti originarie, e l’eventuale sentenza resa nel confronti del fallito è soltanto inopponibile alla massa dei creditori, ma non è “inutiliter data”, poiché il terzo, che non è tenuto a partecipare alla procedura fallimentare, può avere interesse al giudizio per ottenere la sentenza, che non è radicalmente nulla, ma può produrre i suoi effetti nei confronti del fallito che abbia riacquistato la sua capacità.” (Cass. 10724 del 2013).
Ne consegue che ai fini della tempestività della riassunzione si applica l’art. 300 cod. proc. civ, ed il termine decorre dalla dichiarazione in udienza.
In tal senso, infatti, la Corte di Cassazione, specifica come la conoscenza dell’intervenuto fallimento per mezzo del consulente tecnico d’ufficio, è del tutto inidonea allo scopo.
Come già affermato, infatti, nella sentenza del 7 marzo 2013, n. 5650: “la conoscenza deve inoltre essere “legale” nel senso sopra chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte; deve cioè essere acquisita non in via di mero fatto ma per il tramite di una dichiarazione, notificazione o certificazione rappresentativa dell’evento che determina l’interruzione del processo, assistita da fede privilegiata. Tale soluzione risulta quella più idonea a garantire la esigenza di tutela del diritto di difesa e di effettività del contraddittorio evitando che, come paventato dai giudici costituzionali nelle sentenze sopra richiamate, la parte colpita dall’evento e cioè nel caso di specie la società poi dichiarata fallita e per essa la Curatela, possa essere esposta al pericolo del maturare di preclusioni a suo danno, in base ad una conoscenza acquisita non per il tramite di atti assistiti da fede privilegiata, gli unici idonei ad offrire compiuta certezza dell’evento (e del processo sul quale esso è destinato a spiegare l’effetto interruttivo)”.
Con riferimento al secondo profilo inerente la decorrenza del dies a quo della prescrizione nel contratto di apertura di credito utilizzata con scoperto di conto corrente bancario, la Corte di Cassazione, riconferma l’oramai consolidato e granitico orientamento espresso delle S.U. con la nota sentenza n. 24418 del 2010 (consultabile su http://www.studiotanza.it/sezioni_unite.html) secondo cui “l’azione di ripetizione di indebito, proposta dal cliente di una banca, il quale lamenti la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi anatocistici maturati con riguardo ad un contratto di apertura di credito bancario regolato in conto corrente, è soggetta all’ordinaria prescrizione decennale, la quale decorre, nell’ipotesi in cui i versamenti abbiano avuto solo funzione ripristinatoria della provvista, non dalla data di annotazione in conto di ogni singola posta di interessi illegittimamente addebitati, ma dalla data di estinzione del saldo di chiusura del conto, in cui gli interessi non dovuti sono stati registrati. Infatti, nell’anzidetta ipotesi ciascun versamento non configura un pagamento dal quale far decorrere, ove ritenuto indebito, il termine prescrizionale del diritto alla ripetizione, giacchè il pagamento che può dar vita ad una pretesa restitutoria è esclusivamente quello che si sia tradotto nell’esecuzione di una prestazione da parte dei “solvens” con conseguente spostamento patrimoniale In favore dell’accipiens” (in senso conforme anche Cass. Civ, sez I, sent. n. 10713 del 2016).
Naturalmente, a seguito della decisione delle SS.UU. non si sono fatte attendere altre pronunce sia di legittimità che di merito che hanno meglio specificato che i versamenti eseguiti sul conto corrente, in corso di rapporto hanno normalmente funzione ripristinatoria della provvista e non determinano uno spostamento patrimoniale dal solvens all’accipiens.
Tale funzione ripristinatoria corrisponde allo schema causale tipico del contratto. Una diversa finalizzazione dei singoli versamenti (o di alcuni di essi) deve essere in concreto provata, dimostrando una diversa destinazione dei versamenti in deroga all’ordinaria utilizzazione dello strumento contrattuale, da parte di chi intende far decorrere la prescrizione dalle singole annotazioni delle poste relative agli interessi passivi anatocistici (ex multis Cass. Civ. Sent. n. 4518 del 26 febbraio 2014, Cass. Civ. Sent. n. 3465 del 12 febbraio 2013).
In tal senso, è opportuno tener presente che l’eccezione di prescrizione è una eccezione in senso stretto, rilevabile solo dalla parte che intende farla valere, pertanto, la banca è tenuta, per potersi affermare che si abbia validamente sollevata l’eccezione di prescrizione, allegare, provare e dedurre il fatto costitutivo dell’eccezione di prescrizione ovvero la finalizzazione del versamento da parte del correntista ad una funzione diversa da quella ripristinatoria della provvista.
Alcune pronunce di merito si sono già espresse in tale senso: nel caso in esame la convenuta nella prima difesa non ha sollevato- la questione di prescrizione extrafido, si ritiene incorrendo nelle decadenze di cui agli artt. 166 e 167 cpc essendo l’eccezione di prescrizione delle operazioni un’eccezione in senso proprio, sollevabile solo ed esclusivamente dalla parte entro e non oltre i termini perentori imposti dal codice. La giurisprudenza ha in proposito correttamente sottolineato (Cass, n. 4518 del 26 febbraio 2014, citata da parte attrice), che i versamenti eseguiti sul conto corrente in corso di rapporto hanno normalmente funzione ripristinatoria della provvista e non determinano uno spostamento patrimoniale dal solvens all’accipiens. Tale funzione corrisponde allo schema causale tipico del contratto. Una diversa finalizzazione dei singoli versamenti (o di alcuni di essi) deve essere in concreto provata da parte di chi intende far decorrere la prescrizione dalle singole annotazioni delle poste relative agli interessi passivi anatocistici. Nella specie non è stato mai né dedotta, né allegata tale diversa destinazione dei versamenti in deroga all’ ordinaria utilizzazione dello strumento contrattuale.(Tribunale di Parma Sent. parziale n. 73/2017 del 16/01/2017, Dott. Giacomo Ciccio in www.studiotanza.it e Tribunale di Taranto, dott.ssa Rossella Di Todaro, sent. n. 174 del 23 gennaio 2017 in http://www.adusbefpuglia.it/web/media/images/attachments/28gennaio2017.pdf).
Allo stato dei fatti, pertanto, si auspica un intervento della Corte di Cassazione in materia per poter consolidare l’indirizzo espresso dalla giurisprudenza di merito, assicurando una interpretazione uniforme del diritto nazionale.
Di seguito il testo integrale della sentenza in commento.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
PRIMA SEZIONE CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MARIA CRISTINA GIANCOLA – Presidente-
Dott. MARIA ACIERNO -Rel.Consigliere-
Dott. MASSIMO FERRO – Consigliere-
Dott. MAURO DI MARZIO – Consigliere-
Dott. ALDO ANGELO DOLMETTA – Consigliere-
ha pronunciato la seguente sentenza sul ricorso 22451proposto da:
BANCA POPOLARE DI INTRA S.P.A. (c.f./p.i. 00118720036) in persona del legale rappresentante pro tempore elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA GENTILE DA FABRIANO 3, presso l’avvocato RAFFAELE CAVALIERE , che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato MARIA COSTANZA, giusta procura in calce al ricorso;
–Ricorrenti-
Contro
_________________________domiciliati in ROMA, VIA RIDOLFINO VENUTI 42, presso l’avvocato DI SARNO ALESSANDRA, rappresentati e difesi dagli avvocati ANTONIO TANZA, MAURO TOZZINI, giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrenti –
contro
– intimati –
avverso la sentenza n. 646/2010 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 19/04/2006;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 08/11/2016 dal Consigliere Dott. MARIA ACIERNO;
udito, per la ricorrente, l’Avvocato COSTANZA MARIA che si riporta;
udito, per i controricorrenti, l’Avvocato TANZA ANTONIO che si riporta;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FEDERICO SORRENTINO che ha concluso per il rigetto del ricorso.
FATTI DI CAUSA
La Corte d’Appello di Torino ha condannato la Soc. coop. Banca Popolare di Intra al pagamento della somma di euro 141.396 in favore della s.r.l. a titolo di ripetizione delle somme indebitamente percette dall’istituto bancario per illegittima applicazione della capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi.
Il giudizio era stato introdotto dalla società e dai fideiussori. Nel corso del giudizio d’appello veniva emessa una sentenza non definitiva dì accoglimento dell’eccezione di nullità dovuta alla violazione del divieto di anatocismo e con separata ordinanza si procedeva alla prosecuzione del giudizio, disponendo consulenza tecnica d’ufficio al fine di rideterminare il rispettivo dare ed avere tra correntista e società previa decurtazione della capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi, delle commissioni di massimo scoperto e delle valute.
Con comunicazione datata 31/7/2006 il consulente tecnico d’ufficio, allegando copia del dispositivo, dava atto dell’intervenuto fallimento della società.
Sentito il consulente d’ufficio a chiarimenti in ordine all’applicazione con reciprocità su uno dei conti correnti della trimestralizzazione del computo degli interessi attivi, veniva emessa ordinanza interruttiva del giudizio il giorno 8/11/2008.
In data 30/4/2009 hanno riassunto il giudizio la banca ha preliminarmente eccepito l’estinzione del giudizio.
La Corte d’Appello su tale eccezione ha rilevato che il fallimento è stato dichiarato il 9/6/2006.
L’art. 43 della legge fallimentare novellata, nel quale è affermato il principio dell’automaticità dell’effetto interruttivo conseguente al fallimento, è entrato in vigore il 16/7/2006, in data successiva alla dichiarazione di fallimento della società con conseguente inapplicabilità del nuovo regime. La società fallita era costituita in giudizio con un proprio procuratore speciale che non ha provveduto alla dichiarazione in udienza. Ne consegue che l’ordinanza d’interruzione deve essere revocata e la società deve ritenersi rappresentata dagli originari difensori.
Nel merito, in ordine all’eccezione di prescrizione dell’indebito accertato, la Corte ha evidenziato che tale profilo era stato affrontato e risolto nella sentenza non definitiva laddove si era stabilito che il ricalcolo delle poste di dare ed avere doveva essere svolto fin dall’inizio del rapporto in quanto il contratto di conto corrente ha natura unitaria e, conseguentemente, la società si è correttamente attivata entro il termine prescrizionale decorrente dalla chiusura del conto stesso. Non può applicarsi al conto corrente bancario l’art. 1831 cod. civ., proprio del conto corrente ordinario, secondo quanto reiteratamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, con conseguente unitarietà del conto corrente bancario dall’apertura alla chiusura definitiva senza possibilità di frazionamenti. Pertanto le liquidazioni trimestrali degli interessi costituiscono mere operazioni contabili prive di giuridico rilievo eseguite per comodità contabile, dovendosi prestare attenzione soltanto alla liquidazione finale. Infine, la Corte d’Appello, rilevato che le risultanze, meramente contabili, della consulenza tecnica d’ufficio non sono state oggetto di critica, salvo le censure in diritto già esaminate, ha evidenziato come il consulente abbia ricostruito interamente il rapporto dalla sua apertura, applicando secondo la logica economica il tasso minimo alle operazioni attive per il correntista e quello massimo per le operazioni passive e comprendendo nel divario il compenso per la prestazione della banca. Sono stati conteggiati interessi passivi semplici ed interessi attivi secondo i tassi minimi stabiliti al d.Lgs n. 385 del 1993.
Il saldo ha tenuto conto degli interessi attivi come sopra determinati.
Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per cassazione l’istituto bancario, affidandosi a quattro motivi. Hanno resistito con controricorso i fideiussori. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Nel primo motivo viene dedotto il vizio di violazione di legge in ordine agli artt. 300 e 305 cod. proc. civ. e 42, 152 e 153 legge fallimentare per non avere la Corte d’Appello dichiarato l’estinzione del giudizio per tardiva riassunzione.
La Corte d’Appello ha ritenuto dì negare che si fosse verificato, in ragione della intervenuta dichiarazione di fallimento della società, l’evento interruttivo perché il procuratore costituito per la società fallita non lo aveva dichiarato. Ma la fattispecie è regolata dall’art. 4 novellato in virtù del richiamo contenuto nell’art. 153 all’art. 152 legge fallimentare d’immediata applicazione, senza il decorso della vacatio semestrale.
Inoltre il contenuto dell’art. 43 legge fallimentare è rimasto sostanzialmente invariato in quanto anche nella versione previgente era prevista, come conseguenza della dichiarazione di fallimento, la perdita della legittimazione processuale del fallito ancorché limitatamente ai giudizi aventi ad oggetto questioni inerenti il patrimonio ovvero quella porzione del patrimonio rilevante rispetto alla procedura fallimentare. Peraltro l’art. 43 ha valenza interpretativa in quanto chiarisce gli effetti della dichiarazione di fallimento sui processi in corso. La norma non ha portata generale, non applicandosi ai giudizi che il fallito può continuare in proprio.
Nel secondo motivo viene dedotto un error in procedendo ex art. 360 n. 4 cod. proc civ. nella parte in cui la Corte d’Appello ha ritenuto che il giudizio all’esito della dichiarazione di fallimento potesse proseguire tra le parti originarie. Il ricorso in riassunzione è stato notificato dai fideiussori al fallimento che è rimasto contumace. La società non poteva più essere rappresentata dal suo originario procuratore in quanto solo il curatore sarebbe stato capace di partecipare al giudizio.
La Corte d’Appello ha, nonostante l’intervenuto provvedimento interruttivo, applicato il principio, tratto dall’art. 300 cod. proc. civ., secondo il quale in mancanza della dichiarazione da parte del procuratore costituito, il processo, per la parte nei cui confronti si è verificata la causa interruttiva, non si interrompe e continua con la parte originaria. Ma nella specie la causa interruttiva è stata riconosciuta mediante provvedimento giudiziale e il processo è stato riassunto nei confronti del fallimento. Ne consegue la nullità del capo di sentenza di condanna in favore della società.
I due motivi possono essere trattati congiuntamente in quanto logicamente connessi.
L’art. 43 della legge fallimentare ha natura innovativa e non si applica alle dichiarazioni di fallimento intervenute prima della sua entrata in vigore. Come affermato anche da questa Corte (Cass. 10724 del 2013): “La pronuncia di fallimento anteriormente alla riforma attuata con il d.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 – non produce effetti interruttivi automatici sui processi in cui sia parte il fallito, perché la perdita della capacità processuale che ne consegue non si sottrae alla regola, dettata a tal fine dall’art. 300 cod. proc. civ., della necessità della dichiarazione in giudizio da parte del procuratore dell’evento interruttivo, in difetto della quale il processo prosegue tra le parti originarie, e l’eventuale sentenza resa nel confronti del fallito è soltanto inopponibile alla massa dei creditori, ma non è “inutiliter data”, poiché il terzo, che non è tenuto a partecipare alla procedura fallimentare, può avere interesse al giudizio per ottenere la sentenza, che non è radicalmente nulla, ma può produrre i suoi effetti nei confronti del fallito che abbia riacquistato la sua capacità.”
Ne consegue che ai fini della tempestività della riassunzione si applica l’art. 300 cod. proc, civ, ed il termine decorre dalla dichiarazione in udienza.
Nella specie tale dichiarazione è mancata e, conseguentemente, il termine non è decorso. La conoscenza dell’intervenuto fallimento per mezzo del consulente tecnico d’ufficio, è del tutto inidonea allo scopo come ha esattamente ritenuto la corte territoriale revocando espressamente provvedimento interruttivo endoprocessuale, in precedenza assunto (pag. 10 sentenza impugnata). Deve osservarsi, peraltro, che nell’esposizione del secondo motivo di ricorso manca anche la puntuale censura alla specifica statuizione di revoca dell’ordinanza “ricognitiva dell’interruzione”
I primi due motivi devono, pertanto, essere rigettati.
Nel terzo motivo viene dedotta la violazione degli artt. 1831, 1857, 2033 e 2946 cod. civ. per avere la Corte d’Appello omesso di applicare correttamente la disciplina dell’indebito oggettivo, sotto il profilo del decorso della prescrizione alle cadenze periodiche contrattualmente previste per la determinazione dei saldi intercontrattuali.
La censura è manifestamente infondata alla luce del consolidato orientamento di questa Corte, secondo il quale la prescrizione in ordine all’indebito sopraindicato non può che iniziare a decorrere da quando esso si è verificato e cioè non oltre dieci anni prima dalla chiusura del conto. Al riguardo si richiama la massima ufficiale della sentenza delle S.U.(n. 24418 del 2010)che ha definito La decorrenza della prescrizione in tali fattispecie: “L’azione di ripetizione di indebito, proposta dal cliente di una banca, il quale lamenti la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi anatocistici maturati con riguardo ad un contratto di apertura di credito bancario regolato in conto corrente, è soggetta all’ordinaria prescrizione decennale, la quale decorre, nell’ipotesi in cui i versamenti abbiano avuto solo funzione ripristinatoria della provvista, non dalla data di annotazione in conto di ogni singola posta di interessi illegittimamente addebitati, ma dalla data di estinzione del saldo di chiusura del conto, in cui gli interessi non dovuti sono stati registrati. Infatti, nell’anzidetta ipotesi ciascun versamento non configura un pagamento dal quale far decorrere, ove ritenuto indebito, il termine prescrizionale del diritto alla ripetizione, giacchè il pagamento che può dar vita ad una pretesa restitutoria è esclusivamente quello che si sia tradotto nell’esecuzione di una prestazione da parte dei “solvens” con conseguente spostamento patrimoniale In favore dell’accipiens”.
L’orientamento è stato costantemente seguito e, recentemente, ribadito nella pronuncia n. 10713 del 2016.
Nel quarto motivo viene dedotta l’omessa valutazione di questione rilevante ex art. 112 cod. proc. civ. e 360 n . 4 cod. proc. civ. consistente nel non aver esaminato l’eccezione relativa al ricalcolo degli interessi passivi con cadenza annuale anche nel periodo luglio 2000 – 14 marzo 2002 nonostante che dopo la delibera CICR del 9 febbraio 2000 la banca avesse proceduto al ricalcolo degli interessi con cadenza trimestrale identica per gli interessi attivi e passivi.
La censura è manifestamente infondata.
Nella stessa narrativa del ricorso, a pag. 35, nel riprodurre le risposte alle richieste, di chiarimenti del consulente tecnico d’ufficio, viene riferito che quest’ultimo aveva espressamente escluso l’applicazione della capitalizzazione trimestrale degli interessi attivi a partire dal 1/7/2000 così conseguentemente escludendo anche la necessità di rideterminare i saldi nel lasso di tempo 1/7/2000- 14/3/2002. Peraltro, alla luce delle difese della fase di merito così come riprodotte nel ricorso, non risulta che la banca ricorrente abbia allegato o provato l’esistenza detta pattuizione relativa alla simmetricità cronologica detta cadenza degli interessi passivi ed attivi. La Corte d’appello, pertanto, non ha omesso di esaminare tale profilo, pur avendolo trattato unitariamente nel punto della sentenza 2.2., nella parte relativa all’esame critico delle doglianze relative alla capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi, dando piena ed argomentata adesione alle conclusioni rese dal consulente d’Ufficio anche in sede di chiarimenti.
In conclusione il ricorso deve essere respinto con applicazione del principio della soccombenza in ordine alle spese processuali del presente giudizio in favore della parte controricorrente.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese processuali in favore della parte controricorrente da liquidarsi in euro 9000 per compensi; euro 200 per esborsi oltre agli accessori di legge.
Così deciso nella camera di consiglio del giorno 8 novembre 2016