Michele Ruvolo, La mediazione ex officio iudicise la proposta conciliativa ex art. 185 bis c.p.c., in Corriere Giur., 2014, 7, 1001
La mediazione ex officio iudicise la proposta conciliativa ex art. 185 bis c.p.c.
Il Decreto del fare e la l. n. 98/13
Dopo che la Corte costituzionale ha dichiarato, con la sentenza 272/2012, l’illegittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1, del d.lgs. 28/10 per eccesso di delega, e quindi per violazione degli artt. 76 e 77 Cost., il c.d. Decreto del “fare” (decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito in legge 9 agosto 2013, n. 98) ha reintrodotto, per determinate controversie ed a partire dal 20 settembre 2013, la mediazione obbligatoria, ossia l’obbligo, in relazione a determinati tipi di controversie, di instaurare un procedimento di mediazione a pena di improcedibilità della domanda giudiziale.
Tale reintroduzione è avvenuta soltanto per quattro anni. La legge 98/13 stabilisce, infatti, al comma 1 bis dell’art 5, che «l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale. La presente disposizione ha efficacia per i quattro anni successivi alla data della sua entrata in vigore…».
Si è quindi rinviata alla scadenza del quadriennio la decisione – da prendere alla luce dei risultati raggiunti e dell’effettiva diffusione nel contesto sociale di un cultura della mediazione – relativa alla stabilizzazione dell’obbligatorietà della mediazione o al mantenimento della sola mediazione volontaria.
Al di là dei casi di mediazione obbligatoria ex lege, la citata riforma normativa del 2013 ha pure stabilito che il giudice può – anche in grado di appello e valutata la natura della causa, lo stato dell’istruzione ed il comportamento delle parti – disporre l’esperimento del procedimento di mediazione a pena di improcedibilità della domanda. Ovviamente si tratta dei casi in cui la mediazione non è già obbligatoria per legge, posto che in questi casi è lo stesso legislatore a configurare l’espletamento del procedimento di mediazione come condizione di procedibilità della domanda giudiziale.
È stato pure previsto un limite temporale all’emissione del provvedimento del giudice che invia le parti in mediazione. Esso deve essere adottato prima dell’udienza di precisazione delle conclusioni ovvero, quando tale udienza non è prevista, prima della discussione della causa. Insieme al provvedimento
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Ecco che la legge 98/13 attribuisce al giudice il potere di imporre alle parti di intraprendere un procedimento di mediazione nel corso del processo (in passato, invece, il giudice poteva solo invitarle a svolgere un tentativo stragiudiziale di mediazione, attendendo l’eventuale risposta positiva delle parti), in tal modo creando una nuova condizione di procedibilità (sopravvenuta) per ordine del giudice.
Si tratta di una norma che rimette al giudice l’effettività di tale canale di accesso alla mediazione (che opera non quale filtro preventivo rispetto alla genesi della lite giudiziaria ma, sostanzialmente, quale possibile modo di esaurimento di quest’ultima) e può operare in ogni lite, purché abbia ad oggetto diritti disponibili.
Un ruolo centrale nella rinnovata mediazione è quindi assegnato, oltre che all’avvocato (la cui assistenza è ormai obbligatoria), anche al giudice, il quale può ordinare alle parti di tentare la mediazione (ma senza indicare l’organismo di mediazione come era invece previsto in una disposizione del Decreto “del fare” poi opportunamente eliminata nella legge di conversione 98/13, che ha quindi lasciato spazio all’autodeterminazione delle parti nella relativa scelta).
Sono quindi due le possibili fonti dell’obbligatorietà della mediazione: 1) la prima è normativa e introduce un obbligo ex lege, limitato ad alcune materie e circoscritto nel tempo per una fase di sperimentazione; 2) l’altra si affida alla valutazione discrezionale del giudice e, per questo motivo, non è vincolata nella sua operatività né ad alcune materie né ad un determinato lasso temporale.
Rimane poi, la possibilità per le parti di vincolarsi alla mediazione tramite forme di patto che precedono l’insorgenza della lite (ad esempio inserendo clausole di mediazione nei contratti nelle materie non previste dalla legge come obbligatorie) o di avviare procedimenti di mediazione volontariamente, senza, cioè, che vi sia un obbligo legale o contrattuale. In queste circostanze la mediazione seguirà anche regole diverse sulla base dei regolamenti di procedura degli organismi di mediazione.
Tipologie di mediazione
Sotto il profilo della fonte da cui scaturisce, sono quindi stati previsti, essenzialmente, tre tipi di mediazione:
1) facoltativa, quando viene liberamente scelta dalle parti. È sempre facoltativa anche la mediazione c.d. concordata, ossia la mediazione scaturente da una clausola di mediazione (si tratta della mediazione prevista nel contratto o nello statuto o nell’atto costitutivo di un ente; v. il comma 5 dell’art. 5 d.lgs. 28/10);
2) obbligatoria ex lege, quando eÌ imposta dalla legge (e la legge 98/13 è entrata in vigore il 21 settembre 2013, senza considerare comunque i casi di mediazione obbligatoria già esistenti nel nostro ordinamento);
3) obbligatoria ex officio iudicis (o semplicemente ex officio o giudizialmente prescritta o by judge) quando e il giudice a disporre (con ordinanza emessa, come detto, prima della precisazione delle conclusioni o prima della discussione della causa) che le parti intraprendano, a pena di improcedibilità della domanda, un percorso di mediazione.
Come già osservato, tale ultimo tipo di mediazione è stata introdotta dalla citata legge 98/13. Nella precedente versione del d.lgs. 28/10 era prevista, invece, la mediazione giudizialmente sollecitata. Si prevedeva, infatti, che il giudice potesse solo invitare le parti ad iniziare un procedimento di mediazione (con chiara differenza rispetto alla conciliazione giudiziale, nella quale è lo stesso giudice a svolgere in ambito endoprocessuale le funzioni conciliative). Effettuata questa valutazione di opportunità (sulla via conciliativa) da parte del giudice, la scelta spettava poi alle parti, che potevano aderire o meno all’invito giudiziale. Le parti potevano ritenere utile, magari per la natura della controversia o per alcune particolari vicende fattuali, il ricorso ad un mediatore che potesse adoperarsi per il raggiungimento di un accordo amichevole.
Con la nuova mediazione ex officio iudicis è il giudice che stabilisce (valutata la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti) se le parti debbano o meno andare in mediazione, senza che occorra il consenso delle parti e creando così una condizione di procedibilità della domanda prima inesistente.
Il giudice può prendere questa decisione anche in grado appello e in questo caso non è semplice stabilire se, in caso di mancata instaurazione del procedimento prescritto dall’Autorità giudiziaria, si debba dichiarare improcedibile l’appello o la domanda giudiziale (in molti casi proposta dall’appellato e accolta in primo grado).
Cause connesse e mediazione obbligatoria
Molto interessante è il caso della mediazione che risulti obbligatoria soltanto in relazione ad una delle cause connesse. È quanto accaduto, anche se sotto il vigore della mediazione su mero invito del giudice di cui alla precedente formulazione del d.lgs. 28/2010, presso il Tribunale di Verona (ordinanza 18 gennaio 2012), dove pendevano due giudizi di opposizione a decreto ingiuntivo. Nel primo era stato ingiunto il pagamento di una somma di denaro a titolo di corrispettivo per forniture di autovetture e parti di ricambio che la ricorrente aveva assunto di aver effettuato a favore dell’ingiunta in esecuzione del contratto di concessione di vendita che, sempre a detta della ricorrente, doveva intendersi risolto per inadempimento della resistente seguito di invio di diffida ad adempiere rimasta priva di riscontro. In questo giudizio la resistente aveva proposto opposizione avverso il decreto ingiuntivo evidenziando il grave inadempimento contrattuale della controparte e chiedendo in via riconvenzionale la condanna di quest’ultima al risarcimento dei danni contrattuali.
Nel secondo giudizio era stata ingiunta – con decreto provvisoriamente esecutivo chiesto sempre dalla medesima ricorrente di cui sopra (concedente in relazione al contratto di concessione di vendita) – la consegna delle insegne che identificavano l’ingiunta come concessionaria-auto e officina autorizzata della ricorrente. Nel ricorso la ricorrente aveva dedotto che l’obbligo di restituzione delle insegne era previsto, oltre che nel medesimo contratto di concessione di vendita succitato, in un contratto di comodato, avente ad oggetto proprio tali insegne, contratto del quale le parti avevano previsto l’automatica risoluzione quale conseguenza della cessazione degli effetti del contratto di concessione di vendita. Dopo la costituzione dell’opponente, che aveva fatto valere le medesime argomentazioni già svolte nel primo giudizio, l’opposta, nel costituirsi, eccepiva che la controversia, riguardando anche il contratto di comodato sopra menzionato, avrebbe dovuto essere preceduta dal tentativo di conciliazione avanti al mediatore ai sensi dell’art. 5, comma 1, del d.lgs. 28/2010.
Alla prima udienza, su concorde richiesta delle parti, i due giudizi venivano riuniti. Ecco che – poiché il primo giudizio verteva sulla risoluzione o meno del contratto di concessione di vendita e solo il secondo giudizio verteva anche sul contratto di comodato – era con esclusivo riferimento alla seconda causa, riunita però alla prima, che poteva porsi un problema di condizione di procedibilità per mancato esperimento del tentativo di conciliazione. Per dar modo alle parti di esperire, nel caso di specie, il procedimento di mediazione, sarebbe stato necessario separare la controversia riguardante il contratto di comodato da quella concernente il contratto di concessione di vendita e revocare il decreto ingiuntivo opposto (anche se un simile effetto avrebbe richiesto l’emissione di una sentenza, il che avrebbe complicato l’iter del giudizio in quanto, in caso di esito negativo del procedimento di mediazione, si sarebbe dovuto promuovere un nuovo giudizio relativo al contratto di comodato). Proprio per evitare una tale eventualità e, al contempo, per favorire appieno la prospettiva conciliativa propria del procedimento di mediazione, il Tribunale di Verona ha ritenuto opportuno che al procedimento di mediazione le parti devolvessero tutte le controversie di cui si è detto, giovandosi del disposto dell’art. 5 comma 2 d.lgs. 28/2010 e, quindi, della mediazione su invito del giudice. Stante la stretta connessione, non solo giuridica ma anche fattuale, esistente tra la controversia relativa al contratto di concessione di vendita e quella relativa al contratto di comodato, il decidente ha considerato opportuno, al fine di rendere utilmente esperibile il procedimento di mediazione, demandare ad esso entrambe le controversie. Ciò che risulta di particolare interesse è che in questo caso il Tribunale di Verona non ha chiesto esplicitamente alle parti se volessero accettare l’invito del giudice, ma, a scioglimento della riserva, invece di fissare l’udienza per la verifica dell’accettazione dell’invito ad opera delle parti, ha direttamente rinviato la causa ad un’udienza successiva di oltre quattro mesi per consentire alle parti di esperire il procedimento di mediazione su tutti i rapporti dedotti in causa ed ha assegnato alle stesse il termine di quindici giorni dalla comunicazione del provvedimento per presentare la domanda di mediazione. Ciò ha fatto in quanto ha ritenuto che il consenso delle parti all’avvio della mediazione giudizialmente sollecitata (con riferimento, quindi, al contratto di concessione di vendita), consenso richiesto dal citato comma 2 dell’art. 5 del d.lgs. 28/2010, potesse presumersi sulla base del loro contegno processuale, estrinsecatosi, per quanto riguarda l’opposta, nel richiedere espressamente l’avvio della mediazione e, con riferimento all’opponente, nel non aver sollevato obiezioni di sorta in relazione a tale eventualità.
Dopo le modifiche apportate dalla legge 98/13, che ha trasformato la mediazione ex officio in obbligatoria prevedendo che il provvedimento del giudice che invia le parti in mediazione faccia sorgere una condizione di procedibilità della domanda giudiziale, la soluzione adottata dal Tribunale diventa ancor più semplice da adottare in quanto non occorre verificare la sussistenza del consenso delle parti.
Mediazione ex officio iudicis: casi e tempi
Per Trib. Milano, sez. IX, 29 ottobre 2013 (in Giur. it., 2014, 88; v. pure, Trib. Milano, sez. impresa, ord. 11 novembre 2013, Pres. est., E. Riva Crugnola, in www.ilcaso.it) la mediazione ex officio iudicis è possibile anche per i procedimenti pendenti (in quanto il nuovo comma 2 dell’art. 5 del d.lgs. 28/10 attribuisce un nuovo potere discrezionale al magistrato che va considerato come una nuova facoltà squisitamente processuale e quindi applicabile dal momento dell’entrata in vigore della norma a tutti i procedimenti, compresi quelli pendenti), nonché pure per le materie diverse da quelle assoggettare a mediazione obbligatoria ex lege in base al comma 1 bis dell’art. 5 del d.lgs. 28/10 (il che sembra del tutto evidente se si considera che per le materie di cui al citato comma 1 bis è già prevista una forma di mediazione obbligatoria ed a nulla varrebbe la mediazione ex officio iudicis).
Pure Trib. Firenze, sez. II, 19 marzo 2014 ritiene che la mediazione ex officio iudicis possa essere disposta anche per i procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore della legge 98/13 (e ciò in forza del principio per cui tempus regit actum). Con riferimento ai giudizi pendenti va poi osservato che nelle materie già selezionate dal Legislatore per la mediazione obbligatoria ex lege può ritenersi sussistente una “presunzione semplice” di opportunità, avendo già la normativa formulato ex ante una prognosi favorevole quanto all’efficacia del procedimento di mediazione.
Inoltre, secondo Trib. Roma, sez. XIII, 28 novembre 2013 la mediazione ex officio iudicis sarebbe ammissibile pure nei giudizi di querela di falso in quanto, essendo ammissibile tra i mezzi istruttori anche la confessione (pure tramite interrogatorio formale), allora verrebbero in questione diritti disponibili. Tale soluzione non trova comunque molti consensi.
Ancora, per Trib. Firenze, sez. II, 27 novembre 2013 l’esistenza di una clausola arbitrale non impedisce il ricorso alla mediazione ex officio iudicis.
La mediazione è poi certamente utile per i conflitti che riguardino rapporti destinati a proiettarsi nel tempo, come quelli di vicinato o come lerelazioni commerciali. Ed anche la sussistenza di legami tra le parti è un elemento rivelatore dell’opportunità della mediazione (es. liti tra coniugi).
Si è poi reputata adeguata la mediazione in caso di controversie recanti un valore così contenuto da far apparire l’utilizzo del processo sproporzionato. Recentemente si è pure ritenuto che il giudice possa far uso dell’istituto anche per far fronte ad eventuali fasi di stasi del processo per motivi che prescindono dalle parti, come lo smarrimento di atti di causa (cfr. Trib. Brescia, sez. II, 28 novembre 2013).
Trib. Verona 27 gennaio 2014 (giud. Vaccari) ha infine inviato le parti in mediazione tenendo pure conto della probabilità che l’iter del contenzioso si sarebbe complicato per la possibile proposizione di un regolamento di competenza e per l’eventualità di dover dar corso ad un’attività istruttoria diretta a chiarire il rapporto intercorso tra le parti, con conseguente lievitazione dei costi per le parti.
Quel che bisogna ora mettere in evidenza è che devono comunque venire in questione diritti disponibili.
Invero, tutti i tipi di mediazione (e quindi anche quella ex officio iudicis) sono esperibili se relativi a controversie civili e commerciali vertenti su diritti disponibili. Ciò pare piuttosto evidente in considerazione della natura negoziale della conciliazione e del fatto che la materia dei diritti disponibili costituisce un limite naturale di qualsiasi atto negoziale dispositivo.
Certo, è bene precisare che la causa è nella disponibilità delle parti anche quando riguardi situazioni giuridiche soggettive indisponibili allorché oggetto del processo non sia l’an del diritto soggettivo ma la riparazione monetaria di natura patrimoniale che consegue alla violazione dello stesso (v. quanto ha precisato, in tempi recenti, la Suprema Corte in tema di Legge cd. Pinto: «il diritto al processo giusto e di durata ragionevole è indisponibile e, come tale, non è soggetto a conciliazione; esso è però sicuramente diverso da quello alla riparazione monetaria di natura patrimoniale della sua violazione di certo disponibile» – Cass. civ., sez.un., 22 luglio 2013 n. 17781). È chiaro, dunque, come il fascio applicativo dell’istituto sia ampio e, soprattutto, come esso certamente includa le controversie in cui il giudice sia chiamato a monetizzare la lesione arrecata ad un diritto della persona.
La mediazione ex officio iudicis può poi essere disposta anche se una delle parti del processo è una Amministrazione pubblica. Nelle fonti normative non si rinvengono, infatti, disposizioni che escludono le pubbliche amministrazioni dall’ambito di applicazione della disciplina introdotta. Pertanto, la normativa in materia di mediazione in ambito civile e commerciale trova applicazione anche in riferimento al settore pubblico, come pure si legge nella circolare del Dipartimento della funzione pubblica n. 9/2012.
Né è ostativo al procedimento di mediazione il fatto che una delle parti sia sottoposta ad una misura di protezione (es. interdizione o amministrazione di sostegno): in questo caso, però, in ragione delle eventuali limitazioni previste nel decreto di amministrazione o di quelle discendenti dalla sentenza di interdizione, occorrerà, per l’eventuale conciliazione/transazione, esplicita autorizzazione dell’Autorità giudiziaria competente (Tribunale o giudice tutelare).
A tal ultimo proposito si noti che, con riferimento al procedimento di mediazione ci si è interrogati, tra le altre cose, sulle modalità di partecipazione al tavolo della mediazione dei soggetti incapaci. In proposito Trib. Varese 13 febbraio 2012 (decreto giudice tutelare) ha autorizzato il tutore a partecipare a tutti gli incontri dei mediatori, in sostituzione dell’interdetto e ciò in considerazione del fatto che la valida trattazione del procedimento di mediazione richiede la piena capacità di colui che vi partecipa. Il giudice varesino ha poi anche precisato sia che è compito dei mediatori quello di accertare che al tavolo di mediazione si presentino soggetti con la piena capacità di disporre del diritto conteso, tenuto conto delle pubblicità ex lege sottese alle misure di protezione degli adulti incapaci e della diligenza professionale cui deve godere il mediatore, sia che, in caso di possibile ipotesi transattiva, il tutore deve comunque munirsi, per l’adesione e la sottoscrizione, dell’autorizzazione di cui all’art. 375, comma 1, n. 4 c.c.
Pare poi opportuno osservare che, come tutte le ordinanze, anche quella che dispone la mediazione ex officio è da ritenere revocabile ai sensi dell’art. 177 c.p.c. Rispetto a tale ordinanza, non impugnabile, è quindi ammissibile lo ius poenitendi di cui all’art. 177 c.p.c.
Del pari abbastanza pacifico deve poi ritenersi l’esclusione del fatto che la sospensione del giudizio possa determinare anche sospensione del procedimento di mediazione che sia stato disposto nel corso di esso, dal momento che questo incidente, pur inserendosi nel giudizio, ha una propria autonomia, ricollegabile alla sua esclusiva finalità conciliativa, cosicché non pare risentire delle sorti del processo (in questo senso Trib. Verona 27 gennaio 2014, che aggiunge che un riscontro a tale ricostruzione è rinvenibile nel disposto dell’art. 6,. comma 2, d. lgs. 28/2010 che prevede che il termine per lo svolgimento della mediazione non è soggetto a sospensione feriale).
Ci si deve invece interrogare sulle conseguenze derivanti dalla mancata attivazione ad opera delle parti della mediazione prescritta dal giudice.
La soluzione preferibile è quella che ritiene necessaria l’emissione di una sentenza di improcedibilità della domanda.
Resta però da chiarire se tale tipo di decisione sia da ritenere non adottabile ogniqualvolta venga instaurato il procedimento di mediazione disposto dal giudice o se occorra qualcosa di più per ritenere adempiuto l’ordine giudiziale.
Adempimento dell’ordine del giudice
Il ricordato provvedimento del Trib. Firenze, sez. II, 19 marzo 2014 chiarisce le condizioni verificatesi le quali può ritenersi correttamente eseguito l’ordine del giudice e può quindi considerarsi formata la condizione di procedibilità. Esse sono: 1) che vi sia stata la presenza personale delle parti; 2) che le parti abbiano effettuato un tentativo di mediazione vero e proprio.
Ed anche per Trib. Firenze, sez. spec. impresa, 17 marzo 2014 occorre la comparizione personale delle parti. Ecco che, avendo nel caso di specie i difensori delle parti, all’uopo delegati, manifestato al mediatore la mera volontà dei deleganti di non procedere all’esperimento della mediazione, il Tribunale di Firenze ha rimesso le parti di nuovo davanti al mediatore. In altri termini, secondo il Tribunale di Firenze nel caso in cui il giudice disponga la mediazione la condizione di procedibilità non è soddisfatta quando i difensori si recano dal mediatore e, ricevuti i suoi chiarimenti su funzione e modalità della mediazione, dichiarano il rifiuto di procedere oltre. In caso di mediazione ex officio è necessario che le parti compaiano personalmente (assistite dai propri difensori come previsto dall’art. 8 d.lgs. n. 28/2010) e che la mediazione sia effettivamente avviata.
Nel suo articolato e ben strutturato ragionamento il giudice fiorentino (ord. 19 marzo 2014) parte dalla considerazione per cui l’art. 5 e l’art. 8 del d.lgs. 28/10 sono formulati in modo ambiguo, posto che nell’art. 8 sembra che il primo incontro sia destinato solo alle informazioni date dal mediatore ed a verificare la volontà di iniziare la mediazione (l’art. 8 prevede, infatti, che «durante il primo incontro il mediatore chiarisce alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione. Il mediatore, sempre nello stesso primo incontro, invita poi le parti e i loro avvocati a esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione e, nel caso positivo, procede con lo svolgimento»). Tuttavia, nell’art. 5, comma 5 bis, si parla di “primo incontro concluso senza l’accordo”. Sembra dunque che il primo incontro non sia una fase estranea alla mediazione vera e propria. Non avrebbe molto senso, secondo il Tribunale di Firenze, parlare di “mancato accordo” se il primo incontro fosse destinato non a ricercare l’accordo tra le parti rispetto alla lite, ma solo la volontà di iniziare la mediazione vera e propria. Ciò a prescindere dalle difficoltà di individuare con precisione scientifica il confine tra la fase c.d. preliminare e la mediazione vera e propria (difficoltà ben nota a chi ha pratica della mediazione), data la non felice formulazione della norma.
Pertanto, il Tribunale di Firenze ha ritenuto necessario, al fine di spiegare la detta ambiguità interpretativa, ricostruire la regola avendo presente lo scopo della disciplina, anche alla luce del contesto europeo in cui si inserisce (direttiva 2008/52/CE).
Sei sono gli argomenti che hanno portato il Tribunale di Firenze a ritenere necessaria, per la formazione della condizione di procedibilità della domanda giudiziale dopo la mediazione ex officio iudicis, la presenza effettiva delle parti nel procedimento di mediazione e l’effettivo avvio di un sostanziale tentativo di mediazione:
1) i difensori, definiti mediatori di diritto dalla stessa legge, hanno sicuramente già conoscenza della natura della mediazione e delle sue finalità. Se così non fosse non si vede come potrebbero fornire al cliente l’informazione prescritta dall’art. 4, comma 3, del d.lgs 28/2010, senza contare che obblighi informativi in tal senso si desumono già sul piano deontologico (art. 40 codice deontologico ). Non avrebbe dunque senso imporre l’incontro tra i soli difensori e il mediatore solo in vista di un’informativa;
2) la natura della mediazione esige che siano presenti di persona anche le parti: l’istituto mira a riattivare la comunicazione tra i litiganti al fine di renderli in grado di verificare la possibilità di una soluzione concordata del conflitto: questo implica necessariamente che sia possibile una interazione immediata tra le parti di fronte al mediatore. L’assenza delle parti, rappresentate dai soli difensori, dà vita ad altro sistema di soluzione dei conflitti, che può avere la sua utilità, ma non può considerarsi mediazione. D’altronde, questa conclusione emerge anche dall’interpretazione letterale: l’art. 5, comma 1 bis e l’art. 8 prevedono che le parti esperiscano il (o partecipino al) procedimento mediativo con l’assistenza degli avvocati, e questo implica la presenza degli assistiti;
3) ritenere che la condizione di procedibilità sia assolta dopo un primo incontro in cui il mediatore si limiti a chiarire alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione vuol dire in realtà ridurre ad un’inaccettabile dimensione notarile il ruolo del giudice, quello del mediatore e quello dei difensori. Non avrebbe ragion d’essere una dilazione del processo civile per un adempimento burocratico del genere. La dilazione si giustifica solo quando una mediazione sia effettivamente svolta e vi sia stata un’effettiva chance di raggiungimento dell’accordo alle parti. Pertanto occorre che sia svolta una vera e propria sessione di mediazione. Altrimenti, si porrebbe un ostacolo non giustificabile all’accesso alla giurisdizione;
4) l’informazione sulle finalità della mediazione e le modalità di svolgimento ben possono in realtà essere rapidamente assicurate in altro modo: 1. Dall’informativa che i difensori hanno l’obbligo di fornire ex art. 4 cit., come si è detto; 2. dalla possibilità di sessioni informative presso luoghi adeguati (v. direttiva europea) e, per quanto concerne il Tribunale di Firenze, presso l’URP (v. articolo 11 del protocollo Progetto Nausicaa2 ) e da ultimo, sempre nell’ambito di tale Progetto, presso l’ufficio di orientamento gestito dal Laboratorio Unaltromodo dell’Università di Firenze;
5) l’ipotesi che la condizione si verifichi con il solo incontro tra gli avvocati e il mediatore per le informazioni appare particolarmente irrazionale nella mediazione disposta dal giudice: in tal caso, infatti, si presuppone che il giudice abbia già svolto la valutazione di “mediabilità” del conflitto (come prevede l’art. 5 cit.: che impone al giudice di valutare «la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti»), e che tale valutazione si sia svolta nel colloquio processuale con i difensori. Questo presuppone anche un’adeguata informazione ai clienti da parte dei difensori; inoltre, in caso di lacuna al riguardo, lo stesso giudice, qualora verifichi la mancata allegazione del documento informativo, deve a sua volta informare la parte della facoltà di chiedere la mediazione. Come si vede, dunque, sono previsti plurimi livelli informativi e non è pensabile che il processo venga momentaneamente interrotto per un’ulteriore informazione anziché per un serio tentativo di risolvere il conflitto;
6) l’art. 5 della direttiva europea 2008/52/CE distingue le ipotesi in cui il giudice invia le parti in mediazione rispetto all’invito (sempre da parte del giudice) per una semplice sessione informativa: un ulteriore motivo per ritenere che nella mediazione disposta dal giudice viene chiesto alle parti (e ai difensori) di esperire la mediazione e cioè l’attività svolta dal terzo imparziale finalizzata ad assistere due o più soggetti nella ricerca di un accordo amichevole (secondo la definizione data dall’art. 1 del d.lgs. n. 28/2010) e non di acquisire una mera informazione e di rendere al mediatore una dichiarazione sulla volontà o meno di iniziare la procedura mediativa.
Alla luce delle considerazioni che precedono il giudice fiorentino ha considerato quale criterio fondamentale la ragion d’essere della mediazione, che ruota attorno all’esigenza di tentare realmente di pervenire ad una soluzione non giudiziale della controversia, ed ha affermato la necessità che le parti compaiano personalmente (assistite dai propri difensori come previsto dall’art. 8 d.lgs. n. 28/2010) e che la mediazione sia effettivamente avviata.
Un’altra strada interpretativa è quella seguita (allo stato) dal Tribunale di Milano (strada, però, inaugurata prima della presa di posizione di Firenze): la condizione di procedibilità è soddisfatta anche quanto sia tenuto solo il primo incontro di mediazione senza accordo (l’incontro di cui all’art. 8 comma I d.lgs. 28/2010). Le differenze non sono di scarsa rilevanza. Nel primo incontro il mediatore chiarisce alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione. Il mediatore, sempre nello stesso primo incontro, invita poi le parti ed i loro avvocati ad esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione e, nel caso positivo, procede con lo svolgimento. Si tratta, dunque, secondo il Tribunale di Milano, dell’incontro dedicato alla cd. valutazione di mediabilità e, cioè, dell’anticamera del procedimento mediativo.
Secondo il primo indirizzo illustrato (Tribunale di Firenze), per soddisfare la condizione di procedibilità questo primo incontro non basta: occorre dare effettivamente inizio alla procedura. Per il secondo indirizzo segnalato (Tribunale di Milano) questa prima relazione al tavolo di mediazione è già sufficiente.
La lettura che conferisce maggiore razionalità all’istituto è certamente quella fiorentina e ciò almeno per quanto riguarda l’effettivo tentativo di mediazione, considerato che è invece difficile sostenere che le parti debbano essere personalmente presenti, essendo loro diritto conferire eventualmente una procura di carattere sostanziale ad un altro soggetto (che può pure essere l’avvocato difensore).
Sussiste, però, un nodo interpretativo da risolvere. Il Legislatore ha espressamente regolato il regime giuridico sotteso alla condizione di procedibilità e previsto, all’art. 5 comma 2 bis, che «quando l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale la condizione si considera avverata se il primo incontro dinanzi al mediatore si conclude senza l’accordo». La disposizione, dunque, sembra richiamare espressamente “il primo incontro” di cui all’art. 8 comma I cit.
Il giudice non potrebbe quindi esigere, al fine di ritenere correttamente formata la condizione di procedibilità, che le mediazione sia stata tentata anche oltre il primo incontro.
Tuttavia, egli può comunque richiedere che in questo primo incontro il tentativo di mediazione sia stato effettivo.
Certo, è vero che può sembrare che in questo primo incontro il mediatore potrebbe non avere neppure la possibilità di tentare un accordo se le parti non vogliono che ciò accada. Infatti, secondo quanto previsto dall’art. 8 del nuovo d.lgs. 28/10, «durante il primo incontro il mediatore chiarisce alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione. Il mediatore, sempre nello stesso primo incontro, invita poi le parti e i loro avvocati a esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione e, nel caso positivo, procede con lo svolgimento».
Una prima lettura delle disposizioni normative pare giustificare un’interpretazione per cui se le parti e i loro avvocati non vogliono effettuare un vero tentativo di conciliazione (magari per non pagare il compenso all’organismo di mediazione) ben possono esprimere in questa prima parte del primo incontro, di natura preliminare, la loro volontà contraria all’inizio di una mediazione e il tutto finisce lì. La disposizione normativa in questione, così interpretata, sarebbe molto discutibile in quanto rischierebbe di rendere la mediazione di fatto facoltativa. Il mediatore potrebbe pure pensare, alla luce di tale disposizione normativa, di non potere neppure tentare di verificare se effettivamente le posizioni delle parti sono inconciliabili. Se, infatti, in quest’ultimo caso si può parlare di un fallimento della mediazione, nel caso teoricamente consentito dal legislatore di manifestazione (anche ad opera di una sola delle parti) della sua volontà contraria alla mediazione vi sarebbe un aborto legale della mediazione. Peraltro, se si ritiene che ogni parte può impedire fin dall’inizio l’effettivo svolgimento del procedimento di mediazione, ognuno dei partecipanti sarebbe titolare di un diritto potestativo alla chiusura del procedimento e gli altri sarebbero tutti in una posizione di soggezione. Ed è da credere che tale diritto potestativo verrebbe spesso esercitato se si considera che, come accennato, è stato aggiunto il comma 5 ter dell’art. 17 del d.lgs. 28/10, secondo cui nel caso di mancato accordo all’esito del primo incontro nessun compenso è dovuto per l’organismo di mediazione.
Tuttavia, una corretta interpretazione (in linea con la ratio della direttiva europea – ed è noto che gli operatori nazionali sono tenuti, secondo la Corte di giustizia UE, a tentare un’interpretazione delle disposizioni nazionali conforme alle norme europee – che mira ad agevolare il più possibile la soluzione delle controversie in modo alternativo a quello giudiziario) è quella che ritiene che il mediatore, nell’invitare le parti e i loro procuratori a esprimersi sulla “possibilità” di iniziare la procedura di mediazione, deve verificare se vi siano i presupposti per poter procedere nell’effettivo svolgimento della mediazione (il cui procedimento comunque già inizia con il deposito dell’istanza di mediazione). Tali presupposti sono, ad esempio, l’esistenza di una delibera che autorizza l’amministratore di condominio a stare in mediazione (così come previsto dalla legge 220/12) o l’esistenza di un’autorizzazione del giudice tutelare se a partecipare alla mediazione deve anche essere un minore ovvero la presenza di tutti i litisconsorti necessari. Il mediatore non dovrebbe chiedere, come invece ritenuto da molti, se le parti vogliono andare avanti. Egli non deve verificare la “volontà” delle parti e dei procuratori, ma li invita ad esprimersi sulla “possibilità” di iniziare la procedura di mediazione. E nel punto in cui la norma dice che “nel caso positivo, procede con lo svolgimento” essa non va intesa nel senso che se gli avvocati dicono che c’è tale possibilità si va avanti, mentre se dicono che non sussiste questa possibilità non si procede oltre. È il mediatore che, tenuto conto di quello che dicono le parti e gli avvocati, valuta se sussiste questa possibilità (nella norma, infatti, non si legge “nel caso di risposta positiva”, ma “nel caso positivo”). Si comprende, quindi, il motivo per cui il comma 5 ter dell’art. 17 del d.lgs. 28/10 contempla (come il comma 2 bis dell’art. 5) la possibilità di un accordo tra le parti in sede di primo incontro (prevedendo che in caso di mancato incontro non è dovuto compenso all’organismo).
Proposta conciliativa ex art. 185 bis c.p.c.
Ai sensi dell’art. 185 bis c.p.c. (Proposta di conciliazione del giudice), «il giudice, alla prima udienza, ovvero sino a quando è esaurita l’istruzione, formula alle parti ove possibile, avuto riguardo alla natura del giudizio, al valore della controversia e all’esistenza di questioni di facile e pronta soluzione di diritto, una proposta transattiva o conciliativa. La proposta di conciliazione non può costituire motivo di ricusazione o astensione del giudice».
Anche questa previsione normativa, di carattere processuale, è applicabile ai procedimenti pendenti e ciò in applicazione del principio tempus regit actum. Infatti, l’art. 77 del decreto legge 69/2013, che introduce la proposta di conciliazione del giudice, non contempla disposizioni transitorie ed il suo regime di efficacia temporale discende dalla norma finale (art 86), secondo la quale il decreto entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione (Trib. Milano, sez. X, ord. 4 luglio 2013, est. A. Simonetti).
Il Legislatore ha voluto espressamente tenere distinte, da un lato, la proposta “transattiva” e dall’altra quella “conciliativa” (e, infatti, modifica, in questi termini, anche il contenuto dell’art. 420 c.p.c.). La proposta avente natura transattiva è diretta a provocare nelle parti la transazione (art. 1966 c.c.), ovvero il contratto col quale i litiganti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine alla loro lite. La proposta conciliativa, invece, propone la composizione di una controversia a seguito dello svolgimento di una attività di mediazione che può anche prescindere da reciproche concessioni e non risolversi in una esternazione negoziale.
Per meglio comprendere la distinzione tra proposta transattiva e proposta conciliativa si valutino le due ordinanze di seguito indicate.
Trib. Fermo (ord. 17 ottobre 2013, est. Marziale) propone la soluzione “transattiva della lite” mediante accordo compositivo della controversia con cui si realizzi la «corresponsione, da parte dell’opponente, della somma relativa alla sola sorte capitale con esclusione degli accessori vari; spese compensate».
Trib. Milano (ord. 27 novembre 2013, est. Vannicelli) propone una “soluzione conciliativa” della lite invitando i litiganti a valutare «la possibilità di rinunciare reciprocamente a qualsiasi pretesa e contro pretesa creditoria».
Evidentemente, sia la proposta conciliativa che quella transattiva sono tanto più facilmente accoglibili quanto più chiaro è il panorama normativo-giurisprudenziale di riferimento.
Infatti, secondo Trib. Roma, sez. XIII, ord. 23 settembre 2013 (est. M. Morriconi) l’esistenza di questioni di facile e pronta soluzione di diritto, che legittima l’applicazione dell’art. 185 bis c.p.c., trova il suo fondamento logico nell’evidente dato comune che è meno arduo pervenire ad un accordo conciliativo o transattivo se il quadro normativo dentro il quale si muovono le richieste, le pretese e le articolazioni argomentative delle parti sia fin dall’inizio sufficientemente stabile, chiaro e in quanto tale prevedibile nell’esito applicativo che il Giudice ne dovrà fare.
La giurisprudenza di merito ha poi giudicato applicabile l’art. 185 bis c.p.c. anche alle liti familiari, come strumento per potere proporre un assetto compositivo della lite e dunque per raggiungere un accordo omologabile dal giudice (v. art. 337 octies c.c.).
In particolare, il Tribunale di Milano, sez. IX, con decreto del 26 giugno 2013 ha affermato che l’art. 185 bis c.p.c. – che prevede il potere del giudice di rivolgere alle parti proposte conciliative – pur non espressamente richiamato nel rito famiglia, costituisce l’espressione di un principio generale (e infatti si rinviene anche nell’art. 420 c.p.c.), pure per il fatto di distinguere espressamente tra proposta transattiva e conciliativa e per la difficoltà di ammettere settori o comparti divisi dell’ordinamento in cui il giudice possa o non possa aiutare i litiganti a pervenire ad un assetto condiviso per la soluzione pacifica della causa.
L’applicazione dell’istituto della proposta conciliativa ha poi condotto la Sezione IX civile del Tribunale di Milano ad una sperimentazione che vede concludersi con accordo l’80% dei procedimenti ex artt. 316 comma IV c.c. (cd. rito partecipativo).
Si è anche ritenuto che con la proposta ex art. 185 bis c.p.c. si possa tenere pure conto delle altre liti tra le parti, non oggetto dello specifico processo pendente, ma pur sempre connesse con lo stesso, in modo che l’assetto conciliativo vada a comporre il conflitto nel suo complesso non limitandosi a definire la singola controversia. E così Trib. Milano, sez. IX, 14 novembre 2013, Pres. rel. Dell’Arciprete, ha formulato alle parti la seguente proposta conciliativa: «la ex moglie potrebbe acquistare la quota di casa del marito (avendone fatto proposta): euro 160.000,00 (valore della quota da liquidare) da cui detrarre la quota del TFR che le spetta (euro 30.000,00= con residuo da versare di euro 130.000,00. Per l’effetto, l’assegno divorzile verrebbe ridotto ad euro 550,00 mensili)». La proposta è stata accolta dalle parti con delle modifiche apportate dalle stesse. Ed effettivamente è da ritenere possibile la formulazione da parte del giudice di una proposta conciliativa che comprenda anche pretese delle parti relative a liti diverse da quella oggetto di causa o addirittura ancora da instaurare. Invero, se il mediatore non è limitato nella sua attività conciliativa alle richieste formulate in giudizio dalle parti, anche il giudice, nel congegnare una proposta conciliativa, può fare riferimento a pretese estranee al contenzioso davanti a lui pendente.
Invio in mediazione e proposta conciliativa ex art. 185 bis c.p.c.
Sulla combinazione tra proposta conciliativa ai sensi dell’art. 185 bis c.p.c. e mediazione ex officio iudicis si sono registrati diversi orientamenti. È bene riportare in sintesi i provvedimenti della giurisprudenza di merito maggiormente interessanti:
1) Trib. Roma, sez. XIII, 28 novembre 2013 ha effettuato una proposta conciliativa (dettagliatamente motivata) e ha inviato le parti in mediazione solo in caso di mancato accordo entro il termine concesso dal giudice per accettare la proposta conciliativa. Lo schema applicato può definirsi in termini di “proposta con invio in mediazione sub condicione”;
2) Trib. Roma, sez. XIII, 14 novembre 2013 ha stabilito che qualora vi sia il rischio di una decisione che acclari un concorso di colpa con riferimento ad un sinistro stradale, allora la mediazione ex officio può rivelarsi molto utile. In questo caso le parti sono state inviate in mediazione con avviso che in caso di mancato accordo si sarebbero ammesse e poi espletate le prove e successivamente sarebbe stata formulata una proposta conciliativa ex art. 185 bis c.p.c. Questo modo di procedere risponde allo schema della “mediazione ex officio con riserva di proposta conciliativa”;
3) Trib. Milano, sez. impresa, 27 novembre 2013, est. Vannicelli, ha invece formulato una proposta transattivo-conciliativa e ha rinviato il processo ad un’altra udienza per sentire le parti riservandosi in quella udienza di prescrivere il procedimento di mediazione ex officio. Si tratta di “proposta con riserva di mediazione”. La stessa soluzione ha adottato il Tribunale di Verona (est. Vaccari) nella recentissima ordinanza del 17 giugno 2014 con la quale ha avanzato alle parti una proposta conciliativa anticipando la futura valutazione, alla successiva udienza ed al fine di agevolare la soluzione conciliativa o altra eventualmente ipotizzabile, della possibilità di demandare la mediazione;
4) Trib. Milano, sez. spec. impresa B, 11 novembre 2013 ha formulato una proposta conciliativa (non motivata) e ha disposto la mediazione ex officio (all’interno della quale la proposta del giudice poteva costituire un punto di riferimento per pervenire alla conciliazione). In questo caso lo schema applicato non è quello della proposta con riserva di mediazione, ma quello della “proposta con mediazione”.
Sempre in relazione a tale ultimo provvedimento mette poi conto osservare che probabilmente la mancata (o comunque succinta) motivazione della proposta è, secondo chi scrive, la scelta maggiormente opportuna. In generale nelle proposte conciliative è preferibile al più spiegare i motivi per cui nella specifica causa è da ritenere possibile una conciliazione della lite, ma non anche i motivi per cui si effettua quella specifica proposta e come il giudice sia arrivato alla determinazione degli specifici termini della proposta. Certo, l’art. 185 bis c.p.c. esclude espressamente che la proposta di conciliazione possa costituire motivo di ricusazione o astensione del giudice. Tuttavia, l’esplicitazione dell’iter logico posto a fondamento dell’individuazione delle concrete condizioni della proposta non aggiunge molto all’eventuale bontà intrinseca della stessa e rischia di determinare un’anticipazione di giudizio non gradita alle parti (o almeno non ad entrambe). Senza contare, infine, che una proposta può essere ben congegnata anche senza valutare le ragioni ed i torti emergenti dagli atti processuali ma tenendo soltanto conto del fascio di soluzioni “digeribili” ad opera delle parti al fine comunque di porre fine al contenzioso ed ai suoi costi.