Michele Ruvolo, Le prime applicazioni giurisprudenziali in tema di mediazione, in Corriere Giur., 2012, 3, 330
Le prime applicazioni giurisprudenziali in tema di mediazione
Sommario: Materie soggette a mediazione obbligatoria – Mediazione e usucapione – Procedimento cautelare e accertamento tecnico preventivo – Rito sommario di cognizione – Rilievo d’ufficio obbligatorio o facoltativo dell’improcedibilità – Principio del contraddittorio – Mediazione e notifica prima del 21 marzo 2011 – Mediazione giudizialmente sollecitata – Mediazione e cause connesse – Obblighi di informativa dell’avvocato – Mediazione e domande riconvenzionali – Mediazione e soggetti incapaci – Omologazione del verbale di accordo
Materie soggette a mediazione obbligatoria
La prima, e forse più importante, questione interpretativa che ha dovuto affrontare la giurisprudenza è quella relativa all’ambito di estensione della mediazione obbligatoria.
In proposito è doveroso ricordare che l’art. 5, comma 1, del d.lgs. 28/2010 prevede la mediazione obbligatoria (e, quindi, il previo esperimento del tentativo di conciliazione davanti ad un organismo di mediazione quale condizione di procedibilit° della domanda giudiziale) ogni qual volta si voglia far valere in giudizio una pretesa afferente ad una certa (e legislativamente individuata) materia. La formula impiegata è quella per cui “chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa ad una controversia in materia di condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti, da responsabilità medica e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari, e tenuto preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione”.
La formula “azione relativa a una controversia in materia di…” è identica a quella impiegata dall’art. 447 bis c.p.c. per il rinvio a talune disposizioni del rito lavoro in relazione alle “controversie in materia di locazione e di comodato di immobili urbani e di affitto di aziende”.
Ora, è pacifico in giurisprudenza che la formula “controversie in materia di” è più ampia della formula “controversie di“. Una controversia in materia di locazione può riguardare anche liti non strettamente dipendenti dal contratto di locazione, ma in qualche modo collegate allo stesso. Ecco che, ad esempio, è una “controversia in materia di locazione” anche quella (ex art. 2932 c.c.) relativa al preliminare di locazione o alla responsabilità precontrattuale connessa alla stipula di un contratto di locazione (v. Cass. 581/03; 4873/2005 e 15110/2007).
Sembrano quindi rientrare nell’ambito della mediazione obbligatoria anche tutte quelle domande volte ad ottenere l’indennità di occupazione per l’ipotesi di rapporto locatizio privo della forma scritta richiesta dalla legge 431/1998. Seppure si tratti di un caso rientrante sia nella materia delle locazioni che in quella del risarcimento del danno, tuttavia può agevolmente credersi che si tratti di danni connessi ad un contratto di locazione nullo. Pare quindi che si debba ritenere che la relativa azione sia “un’azione relativa ad una controversia in materia di locazione”. Conseguentemente, l’esperimento del procedimento di mediazione costituisce in questo caso condizione di procedibilità della domanda giudiziale.
In quest’ottica Trib. Modena, sez. II, 6 maggio 2011, ha ritenuto che il procedimento di rilascio dell’immobile occupato senza titolo deve scontare la preventiva ed obbligatoria procedura di mediazione (d.lgs. n. 28 del 2010), a pena di improcedibilità rilevabile d’ufficio non oltre la prima udienza. Nel caso deciso dal Tribunale di Modena si trattava di un ricorso locatizio ex art. 447 bis c.p.c. con il quale si era chiesto di ordinare al resistente il rilascio dell’immobile occupato senza titolo con condanna al versamento della conseguente indennità di occupazione. Nel provvedimento il giudicante precisava che la domanda traeva “evidentemente titolo da rapporto lato sensu locativo” (anche se, effettivamente, in assenza di un rapporto locatizio, pure nullo o risolto, si potrebbe ugualmente considerare invocabile la mediazione obbligatoria in quanto “controversia in materia di diritti reali” o in quanto “controversia i
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Sembra comunque ora opportuno osservare che le disposizioni che prevedono condizioni di procedibilità, costituendo deroga all’esercizio del diritto di agire in giudizio, garantito dall’art. 24 Cost., non possono essere interpretate in senso estensivo (v. Cass. 967/2004 e Corte cost. 403/07).
Ora, poiché il primo comma dell’art. 5 del d.lgs. 28/ 2010 è una disposizione che prevede una condizione di procedibilità, anche per tale primo comma va esclusa un’interpretazione estensiva.
Seguendo questa linea Trib. Cassino (ordinanza 11 novembre 2011) ha affermato che l”elencazione delle materie di cui all’art. 5 comma 1 d.lgs. 28/10 è tassativa e non semplicemente esemplificativa, per cui tale tassatività impedisce qualsiasi interpretazione estensiva ai sensi dell’art. 12 preleggi (il caso esaminato dal Tribunale di Cassino era relativo ad una domanda di risarcimento danni per falso giuramento).
Analogamente, per Trib. Pavia (sez. I, 26 ottobre 2011) l’elenco (da ritenere tassativo) di materie di cui all’art. 5 d.lgs. n. 28 del 2010, per le quali la conciliazione è coattiva, non è suscettibile di esegesi estensiva. Nel caso di specie, nel giudizio ex art. 2901 c.c. per la revoca di un contratto bancario, una delle parti non aveva esperito il prodromico tentativo di conciliazione. L’altra parte aveva sollevato l’eccezione di improcedibilità della domanda, disattesa però dal giudice che ha ritenuto che l’azione revocatoria non rientra nel novero delle materie indicate dalla legge, a nulla rilevando che l’oggetto – un contratto bancario – rientrasse nell’elenco in questione. Per il Tribunale di Pavia, invero, la mediazione obbligatoria prevista dall’art. 5, comma 1, d.lgs. 28/2010 costituisce una condizione per l’esercizio dell’azione giudiziaria, altrimenti libero, con la conseguenza che l’elenco di materie, contenuto nella norma, in relazione alla quali il previo esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità, deve essere interpretato restrittivamente. Ne deriva che l’azione revocatoria ex art. 2901 c.c., anche se giustificata da un contratto bancario, che ricade sotto il fascio applicativo del citato comma 1 dell’art. 5 d.lgs. 28/10, non deve essere preceduta dall’obbligo preliminare della mediazione.
Nello stesso senso si è giustamente pronunziato Trib. Varese (10 giugno 2011, in Guida al diritto 2011, 44, 9) in un caso in cui il contratto di conto corrente veniva dedotto ed allegato dalla banca attrice non come oggetto del giudizio e nemmeno come materia del contendere, ma solo come humus negoziale da cui traevano linfa i titoli esecutivi infruttuosamente portati in esecuzione e, quindi, quale giustificazione dell’azione revocatoria ex art. 2901 c.c. Guardando al petitum sostanziale, la banca chiedeva esclusivamente la revoca ex art. 2901 c.c. degli atti indicati nelle conclusioni della citazione, poiché ritenuti lesivi delle ragioni creditorie della creditrice.
Orbene, posto che l’art. 5, comma 1, d.lgs 28/2010 prevede testualmente l’obbligo della mediazione per “chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa ad una controversia… in materia di contratti bancari”, il Tribunale di Varese ha ritenuto che l’azione revocatoria non è relativa ad una controversia in materia di contratti bancari, essendo in quest’ambito inscrivibili le sole cause in sui si faccia discussione delle obbligazioni negoziali che dal contratto scaturiscono, ovvero ancora si metta in discussione la validità o efficacia della stipula. Esercitando l’azione ex art. 2901 c.c., invece, si attiva un mezzo di tutela del diritto di credito e, quindi, l’azione è relativa ad una controversia in materia di conservazione della garanzia patrimoniale.
Il bravo giudice varesino afferma, poi, che non è possibile l’interpretazione analogica o estensiva dell’art. 5, comma 1, d.lgs. n. 28 del 2010 (visto che, come già sopra osservato, la giurisprudenza costituzionale ha enunciato, ad esempio nella sentenza n. 403 del 2007, il principio generale per cui deve essere garantito l’accesso immediato alla giurisdizione ordinaria ed ha ammesso che questo può essere sì ragionevolmente derogato, introducendo forme di giurisdizione cd. condizionata tramite disposizioni di legge, le quali vanno però considerate “di stretta interpretazione”) e correttamente conclude nel senso di ritenere non applicabile al caso di specie la norma sulla mediazione obbligatoria.
Di contro, Trib. Mondovì (ordinanza 11 ottobre 2011, in Riv. dott. comm. 2011, 4, 939) ha sostenuto che il giudizio che ha per oggetto l’azione revocatoria fallimentare prevista dall’art. 67 l. fall. di rimesse intervenute su conto corrente, essendo giudizio concernente un contratto bancario (nella fattispecie conto corrente), rientra, ratione materiae, nell’ambito della mediazione obbligatoria.
È invece evidente che il giudizio di divisione, nell’espropriazione di beni indivisi, è escluso dall’ambito applicativo della mediazione obbligatoria, trattandosi di procedimento incidentale di cognizione strumentale alla realizzazione del procedimento esecutivo (così Trib. Prato, 9 maggio 2011, in Resp. civ. e prev. 2011, 9, 1876). Invero, risponde ad una precisa scelta legislativa che i procedimenti incidentali di cognizione, tra i quali debbono essere a ogni buon diritto annoverati i giudizi di divisione endoesecutivi, siano sottratti alla nuova procedura in tema di mediazione civile. La ragione della scelta del legislatore del 2010 deve infatti essere rintracciata nel necessario bilanciamento tra la funzione deflattiva del nuovo strumento conciliativo e le contrapposte esigenze di celerità e concentrazione tipiche di un processo quale è quello esecutivo, la cui principale funzione è la pronta e celere liquidazione delle ragioni dei creditori. La mediazione in sede esecutiva, ove ritenuta applicabile all’esecuzione forzata, finirebbe con lo scontrarsi con un processo esecutivo, come ridisegnato dalle riforme degli ultimi anni, che, pur conoscendo “parentesi” di cognizione, le delinea e configura come essenzialmente “strumentali” all’esecuzione stessa, onde consentire, nel caso di specie, l’individuazione definitiva dell’oggetto dell’espropriazione forzata.
Particolare è, poi, il caso (diffamazione a mezzo sms) di cui si è dovuto occupare Trib. Varese (sezione di Luino) con l’ordinanza del 20 dicembre 2011.
Posto che tra le cause soggette all’obbligo di mediazione obbligatoria preventiva rientrano anche le controversie da responsabilità civile per “diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità”, nel caso di specie era stata fatta valere dall’attore una responsabilità conseguente a dichiarazioni e sms che la parte convenuta aveva reso e inviato, secondo parte attrice, sul luogo di lavoro di quest’ultima. Si trattava, a ben vedere, di un evento identico (la presunta diffamazione) ma prodotto con uno strumento diverso (stampa/pubblica da un lato; telefono/voce dall’altro).
Per il Tribunale di Varese in casi quale quello in questione la mediazione non è obbligatoria. Secondo il giudice varesino la diffamazione a mezzo della voce o del telefono non integra gli estremi di quella a mezzo stampa, essendo evidente la disomogeneità strutturale e genetica dei due strumenti diffamatori. Non essendo possibile (come già visto) l’interpretazione analogia o estensiva dell’art. 5, comma 1, d.lgs. 28/2010, la norma non è stata quindi ritenuta applicabile al caso in questione, affermandosi il principio per cui l’azione in materia di responsabilità da diffamazione è sottoposta alla mediazione obbligatoria solo se realizzata “con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità”, ma non anche con il telefono o la voce.
Sempre Trib. Varese (sez. I, ordinanza del 20 gennaio 2012) si è poi occupato della differenza, in rapporto alla mediazione, tra azione di rivendica e azione di restituzione.
Con riferimento ad una domanda giudiziale finalizzata ad ottenere la restituzione di un’autovettura, il giudice varesino ha ritenuto di dovere tenere distinte, ai fini della mediazione obbligatoria delle azioni in tema di difesa della proprietà, l’azione di rivendicazione (che, come è noto, ha carattere reale, è fondata sul diritto di proprietà di un bene, di cui l’attore assume di esser titolare, ma di non averne la materiale disponibilità; è esperibile contro chiunque, di fatto, possiede o detiene il bene ed è volta ad ottenere il riconoscimento del diritto di proprietà di esso e a riaverne il possesso) dall’azione di restituzione (che è fondata sull’inesistenza, ovvero sul sopravvenuto venir meno, di un titolo alla detenzione del bene da parte di chi attualmente ne disponga per averlo ricevuto da colui che glielo richiede o dal suo dante causa – e per questo ha natura personale – ed è volta, previo accertamento di tale mancanza, ad attuare il diritto – personale – alla consegna del bene). Le due azioni, pur tendendo al medesimo risultato pratico del recupero della materiale disponibilità del bene, hanno natura e presupposti diversi: con la prima, di carattere reale, l’attore assume di essere proprietario del bene e, non essendone in possesso, agisce contro chiunque di fatto ne disponga onde conseguirne nuovamente il possesso, previo riconoscimento del suo diritto di proprietà (v. Cass. civ., sez. II, sentenza 26 febbraio 2007 n. 4416, Rv. 596948); con la seconda, di natura personale, l’attore non mira ad ottenere il riconoscimento di tale diritto, del quale non deve, pertanto, fornire la prova, ma solo ad ottenere la riconsegna del bene stesso, e, quindi, può limitarsi alla dimostrazione dell’avvenuta consegna in base ad un titolo e del successivo venir meno di questo per qualsiasi causa, o ad allegare l’insussistenza ab origine di qualsiasi titolo (Cass. civ., sez. III, sentenza 10 dicembre 2004 n. 23086, Rv. 578708).
Orbene, per il Tribunale di Varese, se l’attore propone l’azione (reale) di rivendicazione, la domanda deve essere preceduta dalla mediazione, trattandosi di controversia in materia di diritti reali. Se, invece, propone una domanda (personale) di restituzione, la domanda correttamente può essere introitata direttamente davanti al Tribunale, non involgendo la lite diritti reali.
Certo, è evidente allora quanto sia importante l’opera di qualificazione della domanda operata dal giudice.
Ed è su questo aspetto che si sofferma l’ordinanza del Trib. Verona 28 settembre 2011, secondo la quale se è vero che l’individuazione della materia del contendere ai fini dell’applicazione dell’art. 5 comma 1 del d. lgs. 28/2010 va compiuta con riferimento alla domanda, e cioè alla sostanza della pretesa ed ai fatti dedotti a fondamento di questa, analogamente a quanto da tempo ha affermato la giurisprudenza di legittimità con riguardo al criterio per determinare la competenza per materia (cfr. tra le tante Cass. civile, sez. III, 13/10/1980, n. 5489), è anche vero che l’applicazione del predetto criterio non impedisce al giudice di qualificare diversamente il fatto sotto l’aspetto giuridico (attività comunque non espletata nel caso di specie, nel quale il giudice non ha ritenuto di qualificare come diffamazione a mezzo stampa, considerata dall’art. 5 comma 1° del d.lgs. 28/10, la fattispecie oggetto del giudizio, dal momento che la parte attrice aveva chiesto la condanna delle società convenute, sue concorrenti sul mercato, al risarcimento dei danni per atto di concorrenza sleale ex art. 2598 n. 2 in conseguenza delle denigrazione subita a seguito della pubblicazione di notizie non veritiere e comunque lesive della propria reputazione sull’esito di un contenzioso davanti al giudice amministrativo).
Mediazione e usucapione
Molto delicata è, poi, la questione relativa alla riconducibilità delle controversie in tema di usucapione all’interno della sfera applicativa della mediazione obbligatoria.
In proposito, e con riferimento quindi ai rapporti tra mediazione e usucapione, è opportuno osservare innanzitutto che Trib. Roma (sez. V civile, decreto 22 luglio 2011 in Guida al diritto 2011, 43, 31, in Giur. merito 2011, 12, 3124, e in www.altalex.com) ha affermato che non è titolo idoneo alla trascrizione nei registri immobiliari il verbale di conciliazione avente ad oggetto l’accertamento dell’acquisto del diritto di proprietà o di altro diritto reale di godimento per intervenuta usucapione e ciò in quanto esso non è riconducibile ad una delle ipotesi normative relative agli atti soggetti a trascrizione, non risolvendosi in uno degli accordi previsti dall’art. 2643 c.c., perché non realizza un effetto modificativo, estintivo, o costitutivo, ma assume al contrario il valore di un mero negozio di accertamento, con efficacia dichiarativa e retroattiva, finalizzato a rimuovere l’incertezza, mediante la fissazione del contenuto della situazione giuridica preesistente. Né il detto verbale è idoneo alle formalità pubblicitarie di cui all’art. 2651 c.c. (relativo alle sentenze dichiarative dell’acquisto per usucapione). Di qui la conclusione negativa del Tribunale di Roma sulla trascrivibilità del verbale di conciliazione in questione, tesi peraltro avvalorata dalla considerazione che altrimenti le parti potrebbero utilizzare la mediazione per colludere ai danni di terzi, così minando la funzione di certezza dei rapporti che proprio la pubblicità è destinata a garantire.
Dopo la decisione del Tribunale di Roma (confermata dallo stesso Trib. Roma, sez. V, 8 febbraio 2012, nonché da Trib. Catania, sez. I, 24 febbraio 2012) si sono registrate due decisioni di segno diametralmente opposto in ordine alla riconducibilità delle domande in tema di usucapione sotto il raggio applicativo della mediazione obbligatoria.
Proprio partendo spunto dal citato provvedimento del Tribunale di Roma, Trib. Varese (ordinanza del 20 dicembre 2011), effettuando un’interpretazione costituzionalmente orientata, ha negato che debba richiedersi, nei giudizi concernenti l’acquisto di un diritto reale per usucapione, il previo esperimento del procedimento di mediazione.
Il Tribunale di Varese parte dalla considerazione per cui in tema di usucapione il verbale di conciliazione non può offrire all’attore un risultato equivalente a quello della sentenza. Pur ipotizzando, infatti, un negozio di accertamento per la ricognizione della proprietà di un bene o di diritti reali (circostanza comunque fortemente avversata da una larga parte dei notai e costituente una foce interpretativa controversa in dottrina e giurisprudenza), in ogni caso si tratterebbe di una strada che non realizza comunque il risultato della sentenza: trattandosi di un negozio delle parti, esso resterebbe sempre impugnabile anche dai terzi con gli strumenti offerti dall’ordinamento per tutelare il soggetto che si ritenga leso nelle garanzie, ad esempio per un congegno simulatorio posto in essere ai suoi danni. Se è vero, infatti, che la transazione ha natura costitutiva ed il negozio di accertamento ha natura invece dichiarativa, è anche vero, però, che pure il secondo può essere prestato a finalità elusive dei diritti altrui e, quindi, può essere oggetto di un autonomo giudizio per tale verifica. Insomma, per il Tribunale di Varese, a ben vedere, l’accordo, in questo caso, non si surroga alla sentenza e la composizione amichevole della lite volge inevitabilmente al fallimento perché l’attore non può rinunciare alla “garanzia” dell’accertamento giudiziale. Ciò è ancora più vero ove si tenga presente che le prime pronunce in materia (v. la citata decisione del Tribunale Roma, sez. V civile, decreto 22 luglio 2011) hanno affermato che il verbale di conciliazione che accerta l’usucapione non è trascrivibile.
In quest’ottica il Tribunale di Varese valorizza, in relazione al rito agrario, quell’orientamento della Suprema Corte che ha ritenuto che la condizione di accesso al Tribunale non sia esigibile quando la fase stragiudiziale non possa “assicurare quel risultato di “conciliazione’ tale da evitare la instaurazione della controversia”. Secondo la giurisprudenza di legittimità, l’intenzione del legislatore è quella di ridurre il contenzioso, favorendo, tra gli interessati, accordi stragiudiziali delle vertenze. Ma, allora, nei casi in cui le parti non abbiano uno strumento conciliativo per “evitare” la controversia, la condizione non deve essere richiesta. Ne consegue che, nei casi in esame – quelli in cui l’accordo non può comporre la lite evitando la sentenza, che si figura come indefettibile – non sarebbe da richiedere la condizione di procedibilità ex art. 5, comma 1, d.lgs 28/2010, giusta una interpretazione teleologica della disposizione, che conformi l’articolato al criterio costituzionale della ragionevolezza.
L’interpretazione secundum constitutionem deve ritenersi ammessa nel caso di specie, per il Tribunale di Varese, in conseguenza anche dell’elencazione (contenuta sempre nell’art. 5 comma 1 del d.lgs. 28 del 2010) delle materie sottoposte al regime dell’obbligatorietà che costituisce (secondo i primi commentatori) quasi una “scelta a casaccio”. In presenza di un’approssimazione del genere, il rischio è quello di un’applicazione automatica dell’art. 5, comma 1, d.lgs. 28/10 che conduca a risultati interpretativi palesemente incostituzionali: in particolare, là dove si imponga la mediazione cd. obbligatoria nella consapevolezza che i litiganti non potranno comunque pervenire ad un accordo conciliativo. L’incostituzionalità si manifesta all’interprete in modo evidente poiché viene frustrata la stessa ratio dell’istituto: operare come un filtro per evitare il processo; ma se il processo non è evitabile, l’istituto è un’appendice formale imposta alle parti con irragionevolezza (e, quindi, in violazione dell’art. 3 Cost.).
Il principio affermato dal Tribunale di Varese è, pertanto, quello per cui nel caso delle azioni di usucapione, non potendo la sentenza essere surrogata dall’accordo, la mediazione non è obbligatoria.
Di contro, Trib. Palermo (sezione distaccata di Bagheria, ordinanza del 30 dicembre 2011) ha ritenuto che rientrino in mediazione obbligatoria le controversie relative all’accertamento dell’acquisto della proprietà o di altro diritto reale per usucapione (e ciò nonostante quanto affermato dal Tribunale di Roma nella ricordata decisione sulla non trascrivibilità del verbale di accordo eventualmente stipulato dal mediatore e contenente il negozio di accertamento dell’acquisto per usucapione).
In particolare, il Tribunale di Palermo ha affermato che le domande in tema di usucapione rientrano nell’ambito della mediazione obbligatoria in quanto costituiscono domande relative a “controversie in materia di diritti reali” (e come tali soggette a mediazione obbligatoria) anche quelle volte ad ottenere l’accertamento dell’avvenuto acquisto, per possesso prolungato nel tempo, del diritto reale di proprietà o di un diritto reale di godimento. Inoltre, il giudice palermitano non considera condivisibile quell’impostazione per cui – poiché la mediazione in tema di usucapione non può avere il medesimo effetto della sentenza (posto che non sarebbe trascrivibile il negozio di accertamento dell’acquisto della proprietà per usucapione) – allora un’interpretazione costituzionalmente orientata del d.lgs. 28/2010 dovrebbe portare ad escludere le controversie in materia di usucapione dalla mediazione obbligatoria.
Infatti, per il Tribunale di Palermo il procedimento di mediazione tende a fare trovare un accordo che impedisca il sorgere del contenzioso giudiziario, senza che necessariamente tale accordo debba coincidere con il contenuto della pronuncia giudiziaria richiesta da parte attrice. La mediazione non è un clone anticipato della sentenza: l’accordo in sede di mediazione sulla domanda di usucapione può essere configurato in mille forme, tutte idonee a fare venire meno la lite (ad esempio trasferimento della proprietà del bene con acquisto a titolo derivativo o rinuncia alla domanda di acquisto della proprietà per usucapione a fronte del pagamento di una somma di denaro). In altri termini, l’assenza, in relazione al procedimento di mediazione, del principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato comporta che una controversia che entra in mediazione come domanda di usucapione può uscirne mediata in un’altra forma. Se è vero che la mediazione è da ritenere non necessaria nei casi in cui non sia configurabile un accordo che possa evitare la lite, è anche vero che in relazione alla domanda di usucapione è possibile ipotizzare vari accordi risolutivi della controversia. La mediazione non è inutile per la sola circostanza che l’eventuale verbale di accordo non sia trascrivibile. Ecco che per il Tribunale di Palermo il tentativo di conciliazione è obbligatorio anche quando l’attore vuole vedere dichiarato il proprio acquisto del diritto reale per usucapione, poiché trattasi di “controversia in materia di diritti reali” ai sensi del primo comma dell’art. 5 del d.lgs. 28/10 e poiché è possibile una risoluzione extragiudiziale della lite.
Di recente Trib. Como, sez. distaccata di Cantù, 2 febbraio 2012, ha affermato che la domanda di usucapione va assoggettata a mediazione obbligatoria e che il relativo verbale di accordo è trascrivibile. Sul punto si è sostenuto che l’accordo di mediazione ha ad oggetto il diritto reale e non il fatto attributivo di esso, ossia l’avvenuta usucapione. Pertanto, la parte che si vede trasferito il bene lo acquisterebbe a titolo derivativo (in quanto lo strumento utilizzato per la traslazione sarebbe il verbale di mediazione) e non a titolo originario come invece nel caso di accertata usucapione mediante sentenza. Ciò, inoltre, vuol dire, per il Tribunale di Como, che l’accordo di mediazione con cui si attribuisce un diritto reale sarebbe trascrivibile ai sensi dell’art. 2643 n. 13 c.c. in relazione all’art 11 del D Lgs n 28/2010, perché in esso non vi sarebbe altro che una transazione.
Una posizione mediana (e davvero molto interessante) ha assunto Trib. Roma, sez. V civile, 8 febbraio 2012 che ha escluso la trascrivibilità del verbale di conciliazione giudiziale avente ad oggetto l’accertamento dell’intervenuta usucapione del diritto di proprietà (così come ha fatto anche Trib. Catania, sez. I civile, 24 febbraio 2012, pure negando l’applicabilità dell’art. 2643 n. 13 c.c., mancando le reciproche concessioni tipiche della transazione, o dell’art. 2645 c.c.) ma ha affermato che dal raffronto degli artt. 2 e 5 del d.lgs. 28/10 si può ritenere che la mediazione in materia di usucapione debba essere circoscritta soltanto al superamento della lite riguardo all’esistenza dei presupposti di fatto. Per il giudice romano si deve ricorrere alla via conciliativa solo quando sussiste una controversia in fatto, con la conseguenza che se il fatto è pacifico tra le parti l’attore può direttamente instaurare il processo innanzi all’autorità giudiziaria, la quale, preso atto della mancanza della lite da conciliare, non potrebbe rilevare l’improcedibilità della domanda.
In questa prospettiva, considerato che in tema di usucapione la conciliazione consente l’utilizzo del negozio di accertamento per risolvere il contrasto fra le parti eliminando la situazione d’incertezza grazie all’espresso riconoscimento da parte dell’usucapito del possesso ad usucapionem, il Tribunale di Roma ha affermato che quando non vi è contestazione sui presupposti fattuali dell’usucapione allora non esiste la lite e non c’è alcuna controversia da dirimere.
Pertanto, per il Tribunale di Roma, se il fatto è pacifico tra le parti, e se quindi l’usucapiente persegue solo l’interesse, diverso e ulteriore rispetto alla risoluzione della controversia con l’usucapito, di ottenere un accertamento del diritto acquistato per usucapione con valenza erga omnes, non altrimenti ottenibile se non in sede giudiziaria, non potrà utilmente seguire la via conciliativa.
Il Tribunale di Roma ha poi aggiunto che anche quando si realizzi l’accordo conciliativo, questo non è ostativo all’instaurazione o alla prosecuzione del successivo giudizio innanzi all’autorità giudiziaria al fine di ottenere l’accertamento erga omnes, e quindi al fine di soddisfare il diverso ed ulteriore interesse rispetto a quello soddisfatto dalla conciliazione, posto che con l’accordo conciliativo la controversia in fatto fra le parti (unica per l’appunto mediabile) è venuta meno.
Procedimento cautelare e accertamento tecnico preventivo
Sempre con riferimento all’ambito di estensione delle controversie che sono soggette alla mediazione obbligatoria, in giurisprudenza è stato esaminato il caso dei rapporti tra mediazione e accertamento tecnico preventivo.
Al riguardo è noto che si può iniziare un procedimento cautelare anche in assenza del previo espletamento del procedimento di mediazione. Il terzo comma dell’art. 5 del d.lgs. 28/2010 prevede, infatti, che “lo svolgimento della mediazione non preclude in ogni caso la concessione dei provvedimenti urgenti e cautelari, né la trascrizione della domanda giudiziale”.
Peraltro, lo stesso art. 5 del d.lgs. 28/2010 prevede che la disciplina della mediazione obbligatoria e la mediazione demandata dal giudice non trova applicazione, fino ad un certo punto, neppure con riferimento ai procedimenti possessori. Inoltre, il fatto che il procedimento cautelare non sia inibito dall’esistenza di un tentativo obbligatorio di conciliazione era già un dato acquisito in giurisprudenza (v. anche Corte cost. 22 ottobre 2007, n. 355 e Corte cost. 30 novembre 2007, n. 403). Invero, la tutela cautelare costituisce uno strumento d’azione necessario per l’effettiva tutela del diritto controverso, costituzionalmente rilevante ai sensi degli art. 24 e 111 Cost., quando si prospetti una situazione di pericolo nel ritardo, che, in quanto tale, non tollera attese e necessita di una risposta di tutela a volte immediata. Nella relazione illustrativa al d.lgs. 28/2010 si legge al riguardo: “la mediazione non può andare a discapito della parte che ha interesse a ottenere un provvedimento urgente o cautelare; imporre una sospensione in tali ipotesi significherebbe precludere l’accesso alla giurisdizione rispetto a situazioni che richiedono una decisione in tempi molto ristretti e sulle quali il mediatore è privo di qualsiasi potere d’intervento”.
La questione forse meno pacifica è quella relativa all’ambito dei procedimenti di natura urgente in relazione ai quali non occorre il previo espletamento del procedimento di mediazione.
Sul punto risulta parecchio rilevante il tenore testuale della norma, la cui ampia formulazione consente di includervi diverse fattispecie. Si legge, invero, nella relazione illustrativa al d.lgs. 28/ 2010: “la formula prescelta (“provvedimenti urgenti e cautelari”) è molto ampia, onde potervi ricomprendere con sicurezza anche quei provvedimenti volti a fronteggiare stati di bisogno, la cui qualificazione è incerta in giurisprudenza e dottrina (come ad es. l’ordinanza provvisionale ex articolo 147 del codice delle assicurazioni private o l’accertamento tecnico preventivo, sulla cui natura cautelare si è recentemente pronunciata la Corte costituzionale con la sentenza n. 26 del 28 gennaio 2010, ma che era sino a oggi controversa)”.
Più complicato, rispetto all’accertamento tecnico preventivo di cui all’art. 696 c.p.c. (come visto escluso dalla mediazione obbligatoria), è il caso dell’accertamento tecnico preventivo finalizzato alla conciliazione (art. 696 bis c.p.c.).
Sul punto sembra comunque pienamente condivisibile quanto ha stabilito Trib. Varese, sez. I, 21 aprile 2011 (in Guida al diritto 2011, 44, 8 e in Il civilista 2011, 11), per il quale la consulenza tecnica preventiva (art. 696 bis c.p.c.) e la mediazione (d.lgs. 28/2010) perseguono la medesima finalità, introducendo entrambi gli istituti un procedimento finalizzato alla composizione bonaria della lite, così da sembrare tra loro alternativi e, quindi, apparendo le norme di cui al d.lgs. 28/2010 incompatibili logicamente e, dunque, non applicabili quando la parte proponga una domanda giudiziale per una c.t.u. preventiva. Invero, la prevalente giurisprudenza di merito aderisce, vuoi implicitamente vuoi esplicitamente, alla tesi dottrinaria che inscrive l’istituto dell’art. 696 bis c.p.c. nell’alveo della alternative dispute resolution, valorizzando la tensione della norma verso la composizione della lite, l’intervento di un terzo neutrale e le agevolazioni fiscali.
Pertanto, in caso di c.t.u. preventiva, non sussiste la condizione di procedibilità di cui all’art. 5, comma 1, d.lgs. 28/2010 e il difensore non è obbligato alla comunicazione di cui all’art. 4, comma 3, d.lgs. 28/2010.
Di opinione differente Trib. Pisa, ordinanza 3 agosto 2011 (in Foro it., 2012, 1, I, 270) che assume consapevole posizione difforme rispetto al Tribunale di Varese. Secondo il Trib. di Pisa la domanda per CTU preventiva ex art. 696 bis c.p.c. va esclusa dalla mediazione in quanto procedimento “urgente”, sottratto alla mediazione in virtù dell’art. 5 comma 3 d.lgs. 28/2010. Il Trib. di Pisa precisa anche che la mediazione va richiesta solo per le controversie che orbitano su “giudizi di merito” e non anche riguardo a quelle che, come la CTU preventiva, sono finalizzate alla raccolta di una prova preventiva.
Rito sommario di cognizione
Sempre in merito all’ambito di estensione della mediazione obbligatoria con riferimento a giudizi diversi da quello ordinario, ci si è poi interrogati pure in relazione al rito sommario di cognizione. In proposito Trib. Palermo, sezione distaccata di Bagheria, 16 agosto 2011 (in Guida al diritto 2011, 43, 18) ha ritenuto che non può dirsi che il procedimento sommario di cognizione sarebbe escluso dalla mediazione obbligatoria invocando il principio per cui per i procedimenti urgenti e cautelari non occorre la condizione di procedibilità del previo esperimento del procedimento di mediazione. Infatti, il processo sommario di cognizione (art. 702 bis c.p.c.) è, secondo l’impostazione preferibile, un processo a cognizione piena che non ha natura urgente o cautelare. Inoltre, se esso fosse stato escluso dall’ambito di applicazione del primo comma dell’art. 5 d.lgs. 28/2010 sarebbe stato facile eludere il procedimento di mediazione obbligatorio instaurando processualmente la controversia con il sommario di cognizione.
Analogamente, Trib. Genova 18 novembre 2011, ha affermato che il procedimento sommario di cognizione “non rientra tra quelli per i quali è esclusa la mediazione obbligatoria (arg. a contrariis dal combinato disposto degli artt. 5 e 1 e 4 d.lgs. 28/2010). Il c. 4 esclude esplicitamente alcuni procedimenti, senza infatti menzionare il rito sommario ex art. 702 bis”. In termini simili si è espresso Trib. Varese con ordinanza del 20 gennaio 2012.
Rilievo d’ufficio obbligatorio o facoltativo dell’improcedibilità
Le questioni interpretative alle quali la giurisprudenza di merito ha fornito le prime risposte non sono state soltanto relative alle materie ed ai giudizi oggetto di mediazione obbligatoria, ma anche a taluni concreti meccanismi processuali.
E così, ad esempio, in diversi casi è successo che gli avvocati delle parti si sono accordati per evitare la costosa e non breve procedura di mediazione (ben sapendo dell’impossibilità di pervenire ad una conciliazione, magari alla luce dei rapporti tra le parti e dell’elevato contenzioso già esistente tra le stesse) ed adire direttamente il giudice con l’intesa di non eccepire l’improcedibilità dell’azione e confidando nel mancato rilievo officioso del giudice.
Tuttavia, questa scelta non sembra poter essere produttiva di esiti positivi.
Ad esempio, Trib. Palermo, sezione distaccata di Bagheria (ordinanza del 13 luglio 2011), ha ritenuto che la rilevabilità dell’improcedibilità è obbligatoria e non discrezionale in quanto, letteralmente, il comma 1 dell’art. 5 del d.lgs. 28/2010 prevede che “l’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto a pena di decadenza o rilevata d’ufficio dal giudice non oltre la prima udienza”. Il “deve” regge sia l’eccezione di parte che il rilievo officioso.
Semmai si può porre un problema di quando debba essere effettuato questo rilievo d’ufficio.
Innanzitutto, è chiaro che nei procedimenti per ingiunzione, ai sensi dell’art. 5, comma 4, d.lgs. 28/2010, la mediazione non è obbligatoria né nella fase di deposito del ricorso monitorio né in quella, eventuale, di opposizione. L”obbligo dell’esperimento del procedimento di mediazione (con conseguente rilievo officioso dell’improcedibilità della domanda) sorge soltanto nel momento in cui il giudice si è pronunciato in merito alla concessione o sospensione della provvisoria esecuzione del decreto (così Trib. Prato, 18 luglio 2011, in Guida al diritto 2011, 44).
Meno semplice è la questione del possibile rilievo d’ufficio già in sede di decreto di fissazione dell’udienza.
Al riguardo Trib. Modena (sez. II, 5 maggio 2011, in Giur. merito 2011, 7-8, 1820, in Guida al diritto 2011, 44, 8, ed in Arch. locazioni 2011, 6, 825), ad esempio, in un caso di un ricorso ex art. 447 bis c.p.c. contenente una domanda di rilascio di un immobile per detenzione senza titolo e di condanna del resistente al pagamento dei canoni di occupazione, ha ritenuto possibile, già in sede di emanazione del decreto di fissazione dell’udienza di discussione ex art. 415 c.p.c., il rilievo d’ufficio relativo al mancato espletamento della procedura obbligatoria di mediazione.
Ecco che il Tribunale di Modena ha subito assegnato il termine di quindici giorni per presentare la domanda di mediazione, fissando contestualmente anche l’udienza per la discussione ad una data successiva alla scadenza del termine di quattro mesi di durata massima del procedimento di mediazione.
La stessa impostazione è stata seguita da Trib. Prato (decreto del 30 marzo 2011).
In realtà, non sembra condivisibile l’impostazione per cui il rilievo officioso sia esercitabile già con il decreto di fissazione dell’udienza di discussione. Certo, è vero che in tal modo si mira ad assicurare una più celere definizione del procedimento, dando attuazione al principio costituzionale della ragionevole durata del processo, ma è anche vero che non sembra ben rispettato il prevalente principio del contraddittorio (v. Cass., sez. un., 20604/08; sez. un. 9962/10). Occorre dare alle parti del giudizio la possibilità di interloquire sulla necessità o meno di instaurare un procedimento di mediazione (che potrebbe non essere necessario in relazione a casi che non rientrino pacificamente in una delle categorie indicate dal legislatore).
Senza considerare che il procedimento di mediazione potrebbe pure essere stato posto in essere senza che, però, la parte ricorrente abbia allegato al suo fascicolo processuale il verbale negativo di conciliazione. In relazione ad un caso di questi tipo il detto rilievo officioso già in sede di decreto di fissazione di udienza comporterebbe addirittura, invece che una riduzione dei termini processuali, un allungamento degli stessi.
Ancora, si noti che l’assegnazione alle parti del termine di 15 giorni per la presentazione della domanda di mediazione già con il decreto di fissazione dell’udienza può comportare che il termine in questione decorra per il ricorrente da quando abbia notizia del decreto e per il resistente dal momento della notificazione del ricorso e del decreto.
Principio del contraddittorio
Particolare rilievo al principio del contraddittorio ha dato di recente il Tribunale di Palermo.
Infatti, in un caso in cui non era andata a buon fine la notificazione dell’atto di citazione ad uno dei convenuti in un giudizio relativo ad una controversia in materia di diritti reali non preceduto dal procedimento di mediazione il Tribunale di Palermo (sezione distaccata di Bagheria, ordinanza del 30 dicembre 2011) non ha assegnato il termine di 15 giorni per la presentazione della domanda di mediazione (con rinvio della causa ad un’udienza successiva alla scadenza del termine, di 4 mesi, di durata massima della mediazione), ritenendo che dovesse prima instaurarsi correttamente il contraddittorio tra le parti.
Si è ritenuto, in generale, che non può disporsi la rinnovazione della citazione o della notificazione della stessa o l’integrazione del contraddittorio per una successiva udienza con contestuale assegnazione del termine per la proposizione dell’istanza di mediazione.
Come detto, è infatti necessario garantire a tutte le parti del giudizio la possibilità di interloquire sulla necessità o meno di instaurare un procedimento di mediazione (con riferimento, ad esempio, alla circostanza della sussumibilità della specifica controversia in quelle soggette per legge alla mediazione obbligatoria).
L”invio delle parti in mediazione contestualmente all’imposizione degli adempimenti per la regolare instaurazione del contraddittorio sarebbe sì una soluzione attuativa del principio costituzionale della ragionevole durata del processo, ma impedirebbe alle parti ancora non presenti in giudizio di evidenziare le ragioni per cui non andrebbe effettuata la mediazione obbligatoria e potrebbe comportare, in caso di presentazione davanti al mediatore del chiamato in mediazione, la sopportazione di costi ad opera di quest’ultimo soggetto ancora non costituito in giudizio e la necessità per lo stesso chiamato, in caso di sua contumacia nel procedimento di mediazione, di dover motivare il giustificato motivo della sua assenza qualora decidesse di costituirsi poi in giudizio e ciò al fine di evitare le conseguenze negative previste dall’art. 8, comma 5, d.lgs. 28/10 (nello stesso senso del Tribunale di Palermo anche Trib. Como, sez. distaccata di Cantù, 2 febbraio 2012, che, prima di invitare le parti alla mediazione giudizialmente sollecitata, ha ritenuto di dovere integrare il contraddittorio).
Per il Tribunale di Palermo è vero che più volte la Corte di cassazione ha evidenziato che l’ordinamento vigente impone la necessità di interpretare ed applicare la normativa processuale in armonia con il principio di cui all’art. 111 Cost. sulla ragionevole durata del processo come principio che conduce ad escludere che il mancato compimento di adempimenti processuali che si siano appalesati del tutto superflui possa condurre ad una conseguenza di sfavore per il processo, ma che è anche vero che ciò vale sempre che siano rispettati il principio del contraddittorio ed il diritto di difesa (v. Cass., sez. un., 20604/08; sez. un. 9962/10; sull’incidenza sulle regole processuali del principio della ragionevole durata del processo solo dopo la regolare instaurazione del contraddittorio v. anche, in materia di decisioni della c.d terza via, Cass., sez. III, 6051/10).
Certo, in linea con le citate esigenze di ragionevole durata del processo, nulla esclude che l’attore si attivi spontaneamente, prima dell’udienza di comparizione davanti al giudice, per provocare il tentativo di mediazione, così evitando di dover attendere a tal fine l’udienza ex art. 183 c.p.c. per poi dovere subire il rilievo officioso dell’improcedibilità della domanda e, quindi, un ulteriore rinvio ad oltre quattro mesi di distanza.
Di particolare interesse è, poi, Trib. Brindisi, sez. dist. Francavilla Fontana, ordinanza del 9 gennaio 2012, secondo il quale non è necessario il procedimento di mediazione prima dell’instaurazione del giudizio di merito conseguente ad un sequestro ante causam. Per il Tribunale di Brindisi la parte che abbia richiesto ed ottenuto un sequestro ante causam per una controversia rientrante in una delle materie di cui all’art. 5, comma 1, d.lgs. 28/2010, pur volendo esperire il procedimento di mediazione non potrà esimersi dall’instaurare il giudizio di merito ex art. 669 octies c.p.c. prima o nel corso della mediazione stessa, in quanto, il termine di durata della procedura conciliativa ai sensi dell’art. 6 d.lgs. n. 28/2010 può spingersi fino a 4 mesi, ed è dunque più ampio rispetto al termine perentorio di cui all’art. 669 octies, comma 1, c.p.c. Di conseguenza, la parte interessata, ove volesse attendere l’esito della mediazione prima di introdurre il giudizio di merito, rischierebbe, in caso di mancato accordo, di vedere vanificata anche la tutela conservativa già ottenuta a seguito dell’inefficacia ex art. 669 novies c.p.c. Paradossalmente, per il Tribunale di Brindisi le altre due strade ipotizzabili, se da un lato consentirebbero di evitare il suddetto rischio, dall’altro produrrebbero comunque un irragionevole aggravio per il diritto di difesa (in primis sul piano dei costi processuali) poiché: attivando la mediazione contestualmente all’instaurazione del giudizio di merito, specie ove la mediazione stessa si dovesse concludere positivamente, la parte avrebbe sopportato invano anche le spese per introdurre il giudizio, poi non più necessario; instaurando solo il giudizio, la parte stessa andrebbe incontro ad una pronunzia giudiziale di improcedibilità alla prima udienza, con conseguente invito a procedere a mediazione ed a sopportarne i relativi costi.
In realtà, ciò che forse non considera il Tribunale di Brindisi è che il comma 6 dell’articolo 5 del d.lgs. 28/2010 prevede che la comunicazione della domanda di mediazione interrompe e sospende i termini di prescrizione e decadenza, e ciò fino al termine del procedimento di mediazione. E dovendo il giudice nazionale interpretare la normativa interna in modo conforme a quella europea, va ricordato che l’articolo 8 della direttiva europea 2008/52/Ce prevede che “gli Stati membri provvedono affinché alle parti che scelgono la mediazione nel tentativo di dirimere una controversia non sia successivamente impedito di avviare un procedimento giudiziario o di arbitrato in relazione a tale controversia per il fatto che durante il procedimento di mediazione siano scaduti i termini di prescrizione o decadenza”. Peraltro, l’art. 8 della direttiva è in linea con il considerando n. 24, che prevede che “per incoraggiare le parti a ricorrere alla mediazione, gli Stati membri dovrebbero provvedere affinché le loro norme relative ai termini di prescrizione o decadenza non impediscano alle parti di adire un organo giurisdizionale o di ricorrere all’arbitrato in caso di infruttuoso tentativo di mediazione”.
Non vi è quindi il rischio di un’inefficacia del provvedimento cautelare ex art 669 novies c.p.c. in pendenza del procedimento di mediazione.
Peraltro, l’interpretazione del Tribunale di Brindisi porterebbe pure a ritenere non obbligatoria la mediazione in tutti i casi di impugnativa di delibera assembleare (soggette invece a mediazione obbligatoria dal 21 marzo 2012), considerato che il ristretto termine di 30 giorni per l’impugnazione delle delibere assembleari di cui all’art. 1137 c.c. normalmente sarà già decorso prima della fine del procedimento di mediazione.
Mediazione e notifica prima del 21 marzo 2011
Un’altra questione processuale che si è posta in giurisprudenza è quella relativa alla necessità o meno della condizione di procedibilità dell’esperimento del procedimento di mediazione qualora l’attore abbia consegnato la citazione all’ufficiale giudiziario entro il 21 marzo 2011, ma la notifica si sia perfezionata nei confronti del convenuto dopo il 21 marzo 2011.
In proposito Trib. Modena, sezione distaccata di Pavullo (8 luglio 2011) ha affermato che l”obbligo di mediazione ex d.lgs. n. 28 del 2010 concerne i processi “iniziati” a far data da lunedì 21 marzo 2011 e che nei processi introdotti con citazione occorre aver riguardo al momento della richiesta della relativa notifica, ossia della consegna del plico all’ufficiale giudiziario (art. 149, 3 comma, c.p.c.) ovvero direttamente alle poste nel caso di notifica eseguita in proprio dall’avvocato (legge n. 53 del 1994).
Una posizione diversa ha assunto Trib. Palermo, sezione distaccata di Bagheria (ordinanza del 13 luglio 2011), secondo il quale, se è vero che l’art. 149, comma 3, c.p.c. prevede, per la notifica a mezzo posta, che la notificazione si perfeziona, per il soggetto notificante, al momento della consegna del plico all’ufficiale giudiziario e se è anche vero che tale principio ha carattere generale e vale per tutti i tipi di notifica, tuttavia non può trascurarsi che il principio in questione comporta soltanto che il notificante non incorre in decadenze o prescrizioni maturate dopo la detta consegna (v. per tutte Corte cost. 477/02; 28/04 e ord. 97/04). Resta il fatto che agli altri fini la notifica si considera perfezionata nel momento in cui il destinatario ne ha legale conoscenza. Ora, poiché l’art. 24 del d.lgs. 28/10 prevede che le disposizioni sulla condizione di procedibilità di cui al comma 1 dell’art. 5 si applicano ai processi “iniziati” a partire dal 21 marzo 2011 (ossia dopo la data di entrata in vigore del decreto, che era domenica 20 marzo 2011) e considerato che la pendenza del giudizio ed il suo “inizio” si hanno dalla notificazione della citazione, allora devono ritenersi improcedibili le domande contenute in citazioni (relative a materie soggette a mediazione obbligatoria) notificate al destinatario a partire dal 21 marzo 2011.
Su questa linea vedi anche Trib. Catanzaro, sez. II, ordinanza del 16 agosto 2011, secondo la quale le norme sulla condizione di procedibilità si applicano quando il libello introduttivo di lite sia stato notificato successivamente al termine di cui all’art. 24, comma 1, d. lgs. 28/2010 (nel caso di specie era stato notificato il 25 marzo 2011).
Analogamente, per Trib. Lamezia Terme, ordinanza del 1° agosto 2011, le norme sulla condizione di procedibilità si applicano ai processi instaurati dopo 18 mesi dall’entrata in vigore del d.lgs. 28/2010, instaurazione che non può che coincidere con il perfezionamento della notifica dell’atto introduttivo del giudizio e non anche, quindi, con la data di spedizione della citazione (così anche Trib. Vasto, 9 ottobre 2011, che afferma che tale conclusione trova conforto negli approdi della giurisprudenza di legittimità in tema di litispendenza e continenza di cause, per cui “ai fini dell’applicazione del criterio della prevenzione, ai sensi dell’art. 39, ultimo comma, in tema di litispendenza e continenza di cause, deve aversi riguardo al momento in cui la notifica della citazione si è perfezionata, con la ricezione dell’atto da parte del destinatario o con il compimento delle formalità surrogatorie di essa, e non a quello in cui la notifica è stata richiesta dall’attore all’ufficiale giudiziario, momento, quest’ultimo, rilevante – cfr. Corte cost. sent. n. 477 del 2002 – ai soli fini dell’esclusione di eventuali decadenze per il notificante” – cfr., in tal senso, Cass., ord. 20/04/2006, n. 9181; Cass., ord. 16/12/2005, n. 27710).
Ecco, pertanto, che può concludersi che viene generalmente ritenuto che quando la citazione è stata consegnata all’ufficiale giudiziario entro il 20 marzo 2011, ma la notifica si è perfezionata nei confronti del convenuto dopo il 20 marzo 2011, allora le parti vanno in questi casi mandate in mediazione e la causa va rinviata ad oltre quattro mesi (con in più i 15 giorni per il deposito della domanda), considerato peraltro che tale soluzione pare poi fornire alle parti maggiore tutela al fine di dotare di sicura procedibilità la domanda (non da parte di tutti, infatti, si ritiene che la questione della procedibilità o meno della domanda non sia più discutibile dopo la prima udienza del giudizio di primo grado; nel senso, invece, che qualora l’improcedibilità dell’azione non venga rilevata dal giudice entro la prima udienza, la questione non possa comunque più essere riproposta nei successivi gradi di giudizio v. invece Cass., sez. lav., 21797/09; 7871/08 e 15956/04).
Sul tema in considerazione è poi interessante quanto affermato da Trib. Vasto 9 ottobre 2011, secondo il quale, nel caso di più notificazioni della citazione eseguite in tempi diversi nei confronti di più litisconsorti necessari, è la prima di esse a determinare la data della formale instaurazione della lite, segnando, nel contempo, il momento decisivo per la determinazione della pendenza del giudizio (cfr., Cass., 09/09/1998, n. 8913), con la conseguenza che se la prima notifica si è perfezionata precedentemente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 28/10, allora la mediazione non può essere considerata come condizione di procedibilità della domanda.
Mette infine conto rilevare che la questione appena trattata assumerà nuovamente rilievo in relazione alle domande giudiziali relative alla materia condominiale ed a quella dei sinistri stradali, considerato che dal 21.3.2012 anche tali domande saranno soggette alla condizione di procedibilità del previo esperimento del procedimento di mediazione.
Mediazione giudizialmente sollecitata
Non molto diffusa nelle aule di giustizia è ancora la mediazione giudizialmente sollecitata, che, come è noto, ricorre (secondo quanto previsto dal terzo comma dell’art. 5 del d.lgs. 28/2010) quando è il giudice (dopo aver valutato, anche eventualmente nel giudizio di appello, la natura della causa, lo stato dell’istruzione ed il comportamento delle parti) ad invitare (e non una previsione legislativa ad imporre, come nella mediazione obbligatoria, o la libera scelta delle parti a consigliare, come nella mediazione facoltativa) le parti ad intraprendere un percorso di mediazione. In questo caso l’invito (che potrebbe pure essere stato chiesto da uno dei contendenti) deve essere rivolto alle parti prima dell’udienza di precisazione delle conclusioni ovvero, quando tale udienza non è prevista, prima della discussione della causa. Se le parti (tutte) aderiscono all’invito, il giudice fissa (senza sospendere il processo, trattandosi di mero differimento) la successiva udienza dopo la scadenza del termine di 4 mesi dal deposito della domanda di mediazione previsto dall’art. 6 del d.lgs. 28/2010 come termine massimo di durata del procedimento di mediazione e, quando la mediazione non è già stata avviata, assegna contestualmente alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione.
Non pare quindi condivisibile l’impostazione del Trib. Roma, sezione distaccata di Ostia, 6 dicembre 2010, che, in un caso relativo ad un sinistro stradale mortale in cui secondo il giudicante si poteva raggiungere un accordo, a scioglimento di una riserva ha invitato le parti a tentare la mediazione senza però fissare un’udienza finalizzata alla verifica dell’accettazione del detto invito, ma direttamente assegnando il termine di giorni 30 (decorrente dalla comunicazione dell’ordinanza riservata) per il deposito della domanda di mediazione e rinviando la causa ad oltre quattro mesi. Lo stesso tipo di ordinanza è stato emesso sempre da Trib. Roma, sezione distaccata di Ostia, in data 22 novembre 2010 (con riferimento ad una buca) ed in data 9 dicembre 2010 (in relazione ad una finita locazione).
Sempre in relazione alla mediazione giudizialmente sollecitata Trib. Varese 6 luglio 2011 ha affermato che il giudice può invitare le parti (chiaramente di una causa non rientrante nelle materie già soggette a mediazione obbligatoria, cfr. sul punto Trib. Prato 16 gennaio 2012) a valutare la possibilità di un tentativo stragiudiziale di mediazione quando taluni elementi della causa siano indicativi di concrete chances di conciliazione, come accade, ad esempio, nel caso in cui la causa interessi due litiganti legati da un pregresso rapporto di origine familiare, destinato a proiettarsi nel tempo in modo durevole e, quindi, allorché meriti di essere salvaguardata la possibilità di conservazione del vincolo affettivo in essere, posto che la mediazione, diversamente dalla statuizione giurisdizionale, può guardare anche all’interesse (pubblico) alla “pace sociale”.
Nel provvedimento del Tribunale di Varese si precisa che la legge non specifica quale sia la parte che debba pronunciarsi sull’invito: se quella in senso sostanziale o il rappresentante legale. Tuttavia, l’adesione all’invito non costituisce un atto dispositivo del diritto, ma solo una precisa scelta in ordine alla strategia di tutela, azione o difesa. Il decidente ha quindi ritenuto che le “parti” del procedimento di “invito” siano gli avvocati. In altri termini, l”adesione all’invito costituisce un’estrinsecazione del potere di cui all’art. 84, comma 1, c.p.c.: in tal senso, quando la parte sta in giudizio col ministero del difensore, questi può compiere e ricevere, nell’interesse della parte stessa, tutti gli atti del processo che dalla legge non sono ad essa espressamente riservati. Depone verso tale soluzione anche il dato normativo che “contestualizza” invito e rinvio per l’adesione, non agevolmente immaginabile ove il giudice dovesse, invece, rivolgere l’invito alla parte sostanziale, in genere assente dalle udienze civili se non richiesta di comparire (v. artt. 117, 185 c.p.c., etc.).
È, però, ovvio che, di fronte all’invito, pur se muniti di procura e pur se dotati del relativo potere, gli avvocati abbiano diritto di conferire con il cliente per fare in modo che la loro decisione sia rispettosa dell’attuale desiderio/bisogno del loro assistito. Ciò non può essere trascurato in quanto la mediazione, nel profilo pratico, comporta un esborso economico e un rinvio del processo nel tempo di almeno quattro mesi, elementi che il difensore potrebbe ritenere necessario discutere con la parte dove non l’abbia preventivamente fatto. Gli avvocati, pertanto, sono liberi di richiedere un rinvio breve del procedimento per raccogliere il consenso o il dissenso del proprio assistito al percorso di mediazione.
Secondo il giudice varesino, poi, la legge non ricollega alcuna conseguenza al rifiuto dell’invito del giudice (coerentemente con l’istituto della Court Annexed Mediation, di fatto recepito nell’art. 5 comma 3) e tale omissione non può essere colmata né con l’art. 116, comma 2, c.p.c., né con l’art. 88 c.p.c., in quanto il legislatore ha voluto che la scelta dei litiganti fosse libera e genuina, non influenzata dal timore di ricadute sfavorevoli nella futura decisione giurisdizionale (è una mediazione su invito, e non su comando, del giudice). Le parti vengono quindi avvisate che del loro eventuale rifiuto il giudice non terrà conto nella decisione conclusiva del processo.
Il principio affermato dal Tribunale di Varese è, quindi, quello per cui l’avvocato può pronunciarsi in merito all”adesione all’invito del giudice a valutare la possibilità di un tentativo stragiudiziale di mediazione, ferma restando la possibilità, per lo stesso, di ottenere un breve rinvio della causa per conferire con il proprio cliente ai fini di un’adesione all’invito più consapevole e rimanendo privo di conseguenze l’eventuale rifiuto dell’invito formulato dal giudice a valutare la possibilità di un tentativo stragiudiziale di mediazione.
Per il Tribunale di Varese, ancora, il foro di mediazione – in caso di adesione all’invito – deve essere scelto dai litiganti mediante presentazione di un’istanza comune; in difetto, la mediazione dovrà tenersi presso l’organismo adito per primo (così anche Trib. Roma, sez. Ostia, ordinanza 6 e 9 dicembre 2010). Il giudice varesino precisa, però, che laddove la mediazione sia su invito del giudice e non si arrivi ad un’istanza presentata in modo congiunto (e quindi con completa libertà di scelta proprio poiché condivisa dai litiganti), è conclusione logica quella per cui il tentativo debba tenersi nell’ambito del circondario, anche perché, altrimenti, già gli stretti tempi a disposizione (4 mesi) vanificherebbero il procedimento conciliativo. Vi è, anche, per il Tribunale di Varese, che se una delle parti è un consumatore rispetto al convenuto, l’attività interpretativa può essere orientata dalla Raccomandazione della Commissione del 30 marzo 1998 riguardante i principi applicabili agli organi responsabili per la risoluzione extragiudiziale delle controversie in materia di consumo. Nell’alveo di tale provvedimento europeo, “il principio di legalità” (quivi scolpito nell’art. 7) vuole che “l’organo extragiudiziale non può adottare una decisione che avrebbe come risultato di privare il consumatore della protezione che gli garantiscono le disposizioni imperative della legge dello Stato sul territorio del quale l’organo è stabilito”. Ebbene, il cd. foro inderogabile del consumatore è proprio una di quelle regole di favore finalizzate ad evitare che il soggetto debole nel mercato venga “dissuaso” dal ricorso alla giustizia, ragion per cui le parti vanno inviate a rivolgersi presso un organismo che abbia sede nel circondario del Tribunale.
Gli effetti rischiano di essere altrimenti distorsivi in quanto l’invito del magistrato (accolto dai litiganti) verrebbe vanificato poi in concreto se una delle parti, interessata all’allungamento dei tempi del processo, presentasse un’istanza in un luogo parecchio distante dal tribunale, così ottenendo, come risultato, quello di avere sicuramente dilatato la decisione del giudice e al contempo evitato la mediazione.
Vi è, quindi, per il Tribunale di Varese, che un’interpretazione orientata alla salvaguardia della funzionalità dell’istituto impone, almeno per i Fori inderogabili e almeno per il caso della mediazione su invito del giudice, che il magistrato possa indicare l’ambito territoriale entro cui svolgere la mediazione.
Mediazione e cause connesse
Molto interessante, e fortemente connesso all’appena esaminato istituto della mediazione su invito del giudice, è poi il caso della mediazione che risulti obbligatoria soltanto in relazione ad una delle cause connesse. È quanto accaduto presso il Tribunale di Verona, (ordinanza 18 gennaio 2012) dove pendevano due giudizi di opposizione a decreto ingiuntivo. Nel primo era stato ingiunto il pagamento di una somma di denaro a titolo di corrispettivo per forniture di autovetture e parti di ricambio che la ricorrente aveva assunto di aver effettuato a favore dell’ingiunta in esecuzione del contratto di concessione di vendita che, sempre a detta della ricorrente, doveva intendersi risolto per inadempimento della resistente seguito di invio di diffida ad adempiere rimasta priva di riscontro. In questo giudizio la resistente aveva proposto opposizione avverso il decreto ingiuntivo evidenziando il grave inadempimento contrattuale della controparte e chiedendo in via riconvenzionale la condanna di quest’ultima al risarcimento dei danni contrattuali.
Nel secondo giudizio era stata ingiunta – con decreto provvisoriamente esecutivo chiesto sempre dalla medesima ricorrente di cui sopra (concedente in relazione al contratto di concessione di vendita) – la consegna delle insegne che identificavano l’ingiunta come concessionaria-auto e officina autorizzata della ricorrente. Nel ricorso la ricorrente aveva dedotto che l’obbligo di restituzione delle insegne era previsto, oltre che nel medesimo contratto di concessione di vendita succitato, in un contratto di comodato, avente ad oggetto proprio tali insegne, contratto del quale le parti avevano previsto l’automatica risoluzione quale conseguenza della cessazione degli effetti del contratto di concessione di vendita. Dopo la costituzione dell’opponente, che aveva fatto valere le medesime argomentazioni già svolte nel primo giudizio, l’opposta, nel costituirsi, eccepiva che la controversia, riguardando anche il contratto di comodato sopra menzionato, avrebbe dovuto essere preceduta dal tentativo di conciliazione avanti al mediatore ai sensi dell’art. 5, comma 1, del d.lgs. 28/2010.
Alla prima udienza, su concorde richiesta delle parti, i due giudizi venivano riuniti.
Ecco che – poiché il primo giudizio verteva sulla risoluzione o meno del contratto di concessione di vendita e solo il secondo giudizio verteva anche sul contratto di comodato – era con esclusivo riferimento alla seconda causa, riunita però alla prima, che poteva porsi un problema di condizione di procedibilità per mancato esperimento del tentativo di conciliazione.
Per dar modo alle parti di esperire, nel caso di specie, il procedimento di mediazione, sarebbe stato necessario separare la controversia riguardante il contratto di comodato da quella concernente il contratto di concessione di vendita e revocare il decreto ingiuntivo opposto (anche se un simile effetto avrebbe richiesto l’emissione di una sentenza, il che avrebbe complicato l’iter del giudizio in quanto, in caso di esito negativo del procedimento di mediazione, si sarebbe dovuto promuovere un nuovo giudizio relativo al contratto di comodato).
Proprio per evitare una tale eventualità e, al contempo, per favorire appieno la prospettiva conciliativa propria del procedimento di mediazione, il Tribunale di Verona ha ritenuto opportuno che al procedimento di mediazione le parti devolvessero tutte le controversie di cui si è detto, giovandosi del disposto dell’art. 5 comma 2° d.lgs. 28/2010 e, quindi, della mediazione su invito del giudice. Stante la stretta connessione, non solo giuridica ma anche fattuale, esistente tra la controversia relativa al contratto di concessione di vendita e quella relativa al contratto di comodato, il decidente ha considerato opportuno, al fine di rendere utilmente esperibile il procedimento di mediazione, demandare ad esso entrambe le controversie.
Ciò che risulta di particolare interesse è che in questo caso il Tribunale di Verona non ha chiesto esplicitamente alle parti se volessero accettare l’invito del giudice, ma, a scioglimento della riserva, invece di fissare l’udienza per la verifica dell’accettazione dell’invito ad opera delle parti, ha direttamente rinviato la causa ad un’udienza successiva di oltre quattro mesi per consentire alle parti di esperire il procedimento di mediazione su tutti i rapporti dedotti in causa ed ha assegnato alle stesse il termine di quindici giorni dalla comunicazione del provvedimento per presentare la domanda di mediazione.
Ciò ha fatto in quanto ha ritenuto che il consenso delle parti all’avvio della mediazione giudizialmente sollecitata (con riferimento, quindi, al contratto di concessione di vendita), consenso richiesto dal citato comma 2 dell’art. 5 del d.lgs. 28/2010, potesse presumersi sulla base del loro contegno processuale, estrinsecatosi, per quanto riguarda l’opposta, nel richiedere espressamente l’avvio della mediazione e, con riferimento all’opponente, nel non aver sollevato obiezioni di sorta in relazione a tale eventualità.
Obblighi di informativa dell’avvocato
Per Trib. Varese 6 maggio 2011, (in Guida al diritto 2011, 27, 8, 11 ed in Resp. civ. e prev. 2011, 9, 1876) all’atto del conferimento dell’incarico l’avvocato è tenuto, ai sensi dell’art. 4, comma 3, d.lgs. n. 28 del 2010, a informare chiaramente ed in forma scritta l’assistito della possibilità di avvalersi del procedimento di mediazione e delle agevolazioni fiscali di cui agli art. 17 e 20 (oltre che dei casi di mediazione cosiddetta obbligatoria). Tale obbligo non può ritenersi soddisfatto se tale informativa consista in una mera dichiarazione generica della parte annessa al mandato alle liti, come quando nella procura posta a margine della citazione il difensore inserisca una clausola di stile (ricorrente, ad esempio, quando il cliente firmi la seguente dichiarazione: “dichiaro di essere stato informato, ai sensi dell’art. 4 comma 3, d.lgs. 28/2010, della possibilità di ricorrere al procedimento di mediazione ivi previsto e dei benefici fiscali di cui agli art. 17 e 20 del medesimo decreto”). L’informativa, infatti, deve essere chiara, esplicita, contenuta in atto separato e non meramente di stile.
Inoltre, il giudice varesino osserva che nel caso di omessa informativa il d.lgs. 28/2010 prevede che “il giudice (…) se non provvede ai sensi dell’art. 5, comma 1, informa la parte della facoltà di chiedere la mediazione”. La norma sembrerebbe imporre al giudice di dover convocare il rappresentato onde fornirgli adeguata informazione ai sensi dell’art. 4, comma 2, del d.lgs. 28/2010. Vi è, però, per il Tribunale di Varese, che un obbligo in tal senso, oltre a rischiare di danneggiare la parte stessa, imponendo un rallentamento del processo, apparirebbe anche irrazionale posto che, quando ad esempio vi è un difetto di procura (che involge pur sempre il rapporto tra cliente e avvocato), è comunque consentito al difensore di svolgere un’attività salvifica o, se si vuole, di sanatoria. E, allora, nel caso di omessa informativa, ben può il giudice subordinare la comparizione personale della parte alla mancata spontanea allegazione dell’informativa (sottoscritta dalla parte) ad opera del difensore, onde evitare un rallentamento del processo e un danno indiretto a tutte le altre cause pendenti sul ruolo, considerato che l’incombente in questione, inevitabilmente, può “appesantire” il calendario dei processi del giudice.
Sempre in merito agli obblighi informativi dell’avvocato va poi osservato che per Trib. Palermo (sezione II, 24 marzo 2011, in Guida al diritto 2011, 44, 8) l”annullabilità del contratto tra l’avvocato e l’assistito per violazione degli obblighi di informazione può essere fatta valere solamente dall’assistito che non ha ricevuto l’informativa.
Ed anche per Trib. Varese, sez. I, 1° marzo 2011 (in Guida al diritto 2011, 44, 8), in caso di violazione degli obblighi di informazione, il contratto tra l’avvocato e l’assistito è annullabile, in virtù dell’applicazione dell’art. 1441 comma 1 c.c., solo dall’assistito che non ha ricevuto l’informativa. Un’interpretazione di diverso segno – la quale consentisse anche alla controparte di demolire il contratto di patrocinio del partner litigante – difficilmente sfuggirebbe, secondo il bravo giudice varesino, alle maglie dell’incostituzionalità.
Resta comunque fermo che l”obbligo informativo di cui all’art. 4, comma 3, d.lgs. n. 28 del 2010, deve ritenersi sussistente solo se la lite insorta tra le parti rientri nel novero di controversie per le quali sia possibile (in concreto, perché prevista) l’attività (facoltativa, obbligatoria o su impulso giudiziale) dei mediatori (Trib. Varese, sez. I, 9 aprile 2010, in Giur. merito 2010, 9, 2154, ed in Foro it. 2010, 7-8, I, 2225). Ecco che nella controversia avente ad oggetto le modifiche delle condizioni di separazione, ai sensi dell’art. 710 c.p.c., poiché involgente una lite giudiziaria per la quale non è previsto accesso (anche facoltativo) al procedimento di mediazione di cui al d.lgs. n. 28 del 2010, non sussiste obbligo per i difensori di rendere l’informativa di cui al citato art. 4, comma 3, e, conseguentemente, nessun obbligo del giudice, in caso di omessa informativa, di provvedere in supplenza.
Di contro, il cliente va avvisato dall’avvocato del procedimento di mediazione, ex art. 4, comma III, d.lgs. 28/2010, all’atto di conferimento di incarico per ottenere una ingiunzione di pagamento ex art. 633 c.p.c., posto che in materia di procedimento per decreto ingiuntivo (e quindi prima dell’instaurazione del giudizio di opposizione, nel corso del quale sorge l’obbligo della mediazione dopo che il giudice si pronuncia sulla concessione o sulla sospensione della provvisoria esecuzione del decreto), pur essendo esclusa la mediazione obbligatoria e quella su impulso giudiziale, è però possibile il ricorso alla mediazione cd. facoltativa e la parte deve esserne messa a conoscenza (così Trib. Varese, sez. I, ordinanza 30 giugno 2010).
Mediazione e domande riconvenzionali
Il primo provvedimento emesso con riferimento ai rapporti tra procedimento di mediazione e domande riconvenzionali è l’ordinanza del Trib. Palermo, sezione distaccata di Bagheria 11 luglio 2011.
In questo provvedimento si chiarisce, in primo luogo, che sicuramente non occorre il previo espletamento del procedimento di mediazione se la riconvenzionale amplia solo il petitum ma non anche l’oggetto della controversia (v. Cass. 27255/08; 23816/07; 2388/02, 1897/02 e 4982/01).
In ipotesi di confronto effettivo e completo tra i litiganti, la procedura di mediazione poteva già conseguire la finalità deflattiva cui è preordinata. E se le parti non si sono conciliate sulla domanda dell’attore pur avendo trattato dei fatti e delle questioni posti dal convenuto a base della domanda riconvenzionale poi proposta in sede di giudizio, allora è evidente che non si concilieranno se il giudice invia in mediazione la sola domanda riconvenzionale. Venuto meno lo scopo compositivo della lite e deflattivo del contenzioso giudiziario, resta solo l’interesse al celere e sollecito esaurimento della fase processuale.
Ed anche in assenza di una specifica richiesta in fase di mediazione, certamente basta pure (non rilevando il petitum ma l’oggetto del procedimento di mediazione) che la questione specifica, oggetto di quella pretesa poi formulata in sede giudiziaria in via riconvenzionale, sia stata trattata nel contraddittorio di tutte le parti interessate alla controversia in occasione del procedimento di mediazione, ancorché questo si sia svolto su istanza della parte attrice (v. Cass. 27255/08; 19436/08; 23816/07; 10993/03; 2388/02; 593/01; 5613/99; 8685/95; 10447/95; 4651/95). Se in sede di procedimento di mediazione la questione posta dal convenuto è stata dibattuta tra le parti, allora è sicuramente procedibile la domanda riconvenzionale.
Il Tribunale di Palermo chiarisce pure che va escluso che l’onere del preventivo esperimento del procedimento di mediazione possa gravare sulla parte che, convenuta in giudizio, ed al fine di resistere alle altrui pretese, si limiti a spiegare, in sede difensiva, delle mere eccezioni in senso proprio, negando fondamento alla pretesa di controparte. È infatti certamente da escludere l’onere del previo esperimento del procedimento di mediazione quando il giudice accerti che le difese svolte dal convenuto non integrano una domanda riconvenzionale.
Meno semplice è il caso in cui la mediazione non sia stata svolta anche sui fatti posti dal convenuto a base delle pretese (qualificabili in termini di domanda riconvenzionale) del convenuto. Questa è, quindi, la fattispecie delle c.d. domande riconvenzionali inedite, emerse, cioè, solo nella fase giudiziale della lite ma non anche dinanzi ai soggetti preposti alla mediazione.
In questi casi la domanda riconvenzionale viene ad ampliare l’ambito della controversia rispetto a quelli che sono stati i confini della stessa in sede di procedimento di mediazione, investendo aspetti nuovi della lite. Si pensi al caso della domanda riconvenzionale di usucapione a fronte di una domanda principale di rivendica quando in sede di mediazione non si era mai affrontato il tema del possesso ultraventennale del chiamato ma solo quello del titolo di proprietà dell’istante. Si pensi, ancora, al caso della domanda di condanna al pagamento dei miglioramenti avanzata dal conduttore convenuto per la risoluzione del contratto di locazione e per il rilascio del bene quando nel procedimento di mediazione non si era mai fatto cenno a tali miglioramenti. Si considerino, infine, tutte le ipotesi di domanda riconvenzionale avanzata da chi era stato contumace in mediazione ovvero tutti quei casi in cui l’attore non è tenuto al previo esperimento del procedimento di mediazione (ratione temporis o perché la sua domanda non verte in materia rientrante tra quelle soggette alla mediazione obbligatoria) mentre potrebbe rientrare in mediazione la domanda riconvenzionale del convenuto.
In relazione al tema delle c.d. riconvenzionali inedite il Tribunale di Palermo ritiene che queste non debbano farsi rientrare nella mediazione obbligatoria e ciò per varie ragioni, le più importanti delle quali sono: 1) che altrimenti si allungherebbero notevolmente i tempi di definizione del processo (in contrasto con l’art. 111 della Costituzione; 2) che se, invece, il giudice, per non ritardare l’iter processuale sulla domanda principale, ritenesse di dovere separare, ex art. 103 comma 2 c.p.c., la domanda riconvenzionale da quella principale, tale operazione di sdoppiamento delle cause (effettuata tutte le volte in cui c’è una domanda riconvenzionale) comporterebbe un enorme incremento del numero dei fascicoli processuali; 3) che le disposizioni che prevedono condizioni di procedibilità, costituendo deroga all’esercizio del diritto di agire in giudizio, garantito dall’art. 24 Cost., non possono essere interpretate in senso estensivo (v. Cass. 967/04); 4) che l’art. 5 d.lgs. 28/10 prevede che l’improcedibilità vada eccepita dal “convenuto”, in tal modo evidenziando che l’improcedibilità si riferisce solo alle domande dell’attore; 5) che occorre evitare che vengano formulate domande riconvenzionali al solo fine di costringere il giudice a mandare le parti di nuovo in mediazione, allungando così i tempi del giudizio; 6) che un’interpretazione conforme alla normativa europea (interpretazione che è imposta, a pena di responsabilità dello Stato per violazione del diritto europeo, dalla costante e granitica giurisprudenza della Corte di giustizia; v. la famosa sentenza Traghetti del Mediterraneo del 13 giugno 2006) dovrebbe essere nel senso di garantire “un’equilibrata relazione tra mediazione e procedimento giudiziario” (direttiva 2008/52/CEE), mentre inviare le parti in mediazione ogni qual volta in un giudizio, già normalmente preceduto da un procedimento di mediazione sulla domanda principale, venga formulata una domanda riconvenzionale non realizza quella “equilibrata relazione tra mediazione e procedimento giudiziario” indicata dalla direttiva come suo obiettivo; 7) che, ritenendo di assoggettare la domanda riconvenzionale al previo espletamento del procedimento di mediazione, il giudice potrebbe essere costretto ad inviare le parti in mediazione più volte nel corso dello stesso giudizio, ed in particolare ogni volta che c’è una domanda riconvenzionale o un intervento di terzo innovativo.
Ecco che sarebbe quindi preferibile, per il Tribunale di Palermo, intendere la locuzione “chi intende esercitare in giudizio un’azione” (art. 5, comma 1, d.lgs. 28/10) come “chi intende instaurare un giudizio”. In caso di proposizione di domanda riconvenzionale non preceduta dal procedimento di mediazione, il giudice non dovrebbe effettuare alcun rinvio e non dovrebbe concedere alcun termine per la mediazione sulla domanda riconvenzionale, la quale andrebbe considerata procedibile. Il giudizio dovrebbe andare avanti normalmente, in modo da potere avere una durata ragionevole.
In conclusione, per il giudice palermitano vanno escluse dall’ambito della mediazione obbligatoria tutte le domande (riconvenzionale inedita, domanda trasversale, reconventio reconventionis) che siano diverse da quella dell’attore proposta con l’atto introduttivo del giudizio, essendo lo scopo del legislatore che ha introdotto la mediazione obbligatoria quello di aumentare i casi di composizione extragiudiziale della lite e di introdurre una ridotta limitazione del principio della ragionevole durata del processo e considerato che la soluzione giurisprudenziale da adottare deve poi essere costituzionalmente ed eurounitariamente conforme.
A soluzione diversa è invece pervenuto, con riferimento alla sola ipotesi delle riconvenzionali inedite, il Trib. Firenze 14 febbraio 2012, che – in relazione ad un caso in cui la domanda principale non rientrava, ratione temporis, nelle previsioni dell’art. 5 d.lgs. n. 28/2010, mentre la domanda riconvenzionale era stata proposta il 13.2.2012, quando cioè il primo comma dell’art. 5 in questione era già entrato in vigore relativamente alla materia oggetto del giudizio, ossia quella locatizia – ha affermato che la domanda riconvenzionale c.d. inedita, cioè non inserita prima in sede di mediazione (ad esempio, nella procedura di mediazione iniziata per la domanda principale), deve reputarsi soggetta al tentativo obbligatorio di conciliazione.
Il giudice fiorentino ha valorizzato il favor per le soluzioni alternative delle controversie che emerge dalla direttiva europea in tema di mediazione (2008/52/CE), dalla “magna charta of judges” approvata il 17 novembre del 2010 dal Consiglio consultivo dei giudici europei in seno al consiglio d’Europa e dalla Raccomandazione sui giudici approvata dal Comitato dei Ministri degli Stati europei.
Affermando, poi, che il principio della ragionevole durata del processo andava valutato insieme al principio della ragionevole durata della risoluzione della lite, che la mediazione poteva fare venire meno del tutto, e precisando che non andava disposta la separazione delle domande tenuto conto delle finalità compositive della procedura di mediazione e del fatto che la mediazione deve, per sua natura, riguardare il rapporto nella sua interezza, il Tribunale di Firenze ha quindi non soltanto differito l’udienza ex art. 418 c.p.c. in relazione alla domanda riconvenzionale inedita, ma ha anche assegnato il termine per la proposizione della domanda di mediazione relativamente alla medesima riconvenzionale, rinviando la causa ad epoca successiva al periodo previsto dall’art. 6 del d.lgs. n. 28/10 per il procedimento di mediazione.
Molto simile era il caso che si è posto davanti al Trib. Como, sez. distaccata di Cantù, ordinanza 2 febbraio 2012. Si trattava di una domanda principale non soggetta alla mediazione obbligatoria (non ratione temporis, però, ma perché afferente materia diversa da quelle indicate al primo comma dell’art. 5 d.lgs. 28/10) e di una domanda riconvenzionale (di usucapione) ritenuta dal giudice rientrante nella mediazione obbligatoria. Il Tribunale di Como ha affermato che anche le domande riconvenzionali inedite vanno in mediazione obbligatoria (anche per evitare un’ingiustificata disparità di trattamento tra attore, onerato di proporre la domanda di mediazione, e convenuto) e che sulle domande principali, che dovrebbero essere separate per evitare l’irragionevole durata del processo, è bene dare luogo alla mediazione giudizialmente sollecitata ex art. 5, comma 2, d.lgs. 28/10.
Mediazione e soggetti incapaci
Le questioni che si sono poste in giurisprudenza con riferimento alla mediazione non hanno riguardato soltanto i rapporti tra il procedimento di mediazione ed il processo, ma anche alcune problematiche interne al procedimento di mediazione o relative al verbale di accordo.
Con riferimento al procedimento di mediazione ci si è interrogati, ad esempio, sulle modalità di partecipazione al tavolo della mediazione dei soggetti incapaci. In proposito Trib. Varese (decreto Giudice tutelare) 13 febbraio 2012 ha autorizzato il tutore a partecipare a tutti gli incontri dei mediatori, in sostituzione dell’interdetto e ciò in considerazione del fatto che la valida trattazione del procedimento di mediazione richiede la piena capacità di colui che vi partecipa. Il giudice varesino ha poi anche precisato sia che è compito dei mediatori quello di accertare che, al tavolo di mediazione, si presentino soggetti con la piena capacità di disporre del diritto conteso, tenuto conto delle pubblicità ex lege sottese alle misure di protezione degli adulti incapaci e della diligenza professionale cui deve godere il mediatore, sia che, in caso di possibile ipotesi transattiva, il tutore deve comunque munirsi, per l’adesione e la sottoscrizione, dell’autorizzazione di cui all’art. 375, comma 1, n. 4 c.c.
Omologazione del verbale di accordo
Altra questione di particolare interesse è quella relativa ai requisiti essenziali ai fini dell’omologazione del verbale di accordo. Sul punto va ricordato il provvedimento del Tribunale di Modica del 9 dicembre 2011, secondo il quale il controllo che il Presidente del Tribunale deve effettuare per le prime; attribuzione di efficacia esecutiva al verbale di conciliazione deve avere ad oggetto (data la congiunzione “anche” contenuta nel comma 1 dell’art. 12 del d.lgs. 28/10) sia i profili di carattere formale sia le eventuali violazioni dell’ordine pubblico e delle norme imperative. Con riferimento alla “regolarità formale” del verbale si è affermato che questa deve avere ad oggetto: 1) la sottoscrizione delle parti e del mediatore; 2) la dichiarata titolarità del sottoscrittore mediatore del suo legittimo status quale soggetto incluso nei ruoli di un organismo di conciliazione regolarmente registrato presso il Ministero della Giustizia; 3) la provenienza del verbale da un organismo iscritto nel registro ex artt. 3 e 4 D.M. n. 180/2010; 4) l’inserimento nel verbale degli estremi di tale iscrizione al registro; 5) la riconducibilità dell’accordo all’ambito della mediazione ex art. 2, e cioè l’appartenenza dell’accordo alla materia civile e commerciale. Nel caso di specie il decidente ha ritenuto che il processo verbale non potesse essere omologato per avere omesso il sottoscrittore mediatore di indicare il suo legittimo status quale soggetto incluso nei ruoli di un organismo di conciliazione regolarmente registrato presso il Ministero della Giustizia e vista anche la mancata indicazione degli estremi dell’iscrizione dell’organismo di mediazione nel registro ministeriale. Conseguentemente, è stata considerata superflua ogni indagine circa ipotetiche violazioni di norme imperative o contro l’ordine pubblico.