Alessio Scarcella, Conservazione delle impronte digitali degli “assolti” e violazione dell’art. 8 conv.e.d.u. in Dir. Pen. e Processo, 2013, 7, 809
Corte europea diritti dell’uomo Sez. V, 18 aprile 2013
L. 04-08-1955, n. 848, art. 8
Conservazione delle impronte digitali degli “assolti” e violazione dell’art. 8 conv.e.d.u.
Sommario: L’impronta digitale e la sua rilevanza nella scienza dell’investigazione – CEDU e protezione dei dati personali – (Il)liceità della conservazione delle impronte digitali dell’assolto: dal caso S. e Marper c. Regno Unito al caso M.K. c. Francia – Conclusioni: i riflessi sul sistema italiano
L’impronta digitale e la sua rilevanza nella scienza dell’investigazione
Un’impronta digitale è un’impronta lasciata dai dermatoglifi dell’ultima falange delle dita delle mani. Per “dermatoglifi” si intendono i disegni formati dai rilievi (creste) della cute delle dita, delle palme delle mani e delle piante dei piedi (1). Le creste variano in ampiezza da 100 ai 300 micron, mentre il periodo cresta-solco corrisponde all’incirca a 500 micron. La differenziazione delle creste cutanee inizia durante il terzo mese di vita fetale e si completa entro la fine del quarto. Perciò le linee dermiche che costituiscono i dermatoglifi sono determinate dalla crescita delle varie strutture sottostanti, compresi gli elementi scheletrici e muscolari di sostegno. Un disturbo nello sviluppo che intervenga durante la formazione delle creste può quindi produrre anormalità nei disegni cutanei. I dermatoglifi, messi in evidenza nelle impronte digitali, vengono classificati, secondo il metodo proposto da F. Galton (2), in: a) vortici; b) anse; c) archi (3). La classificazione viene fatta secondo il numero dei trirradi (4) presenti: due in un vortice, uno in un’ansa e nessuno in un arco. Le anse possono inoltre essere radiali o ulnari, a seconda che siano aperte verso la parte radiale o quella ulnare del dito. Le configurazioni dei dermatoglifi differiscono da una persona all’altra anche in piccoli particolari e sono in gran parte determinate geneticamente, per cui le mani di gemelli monozigotici somigliano l’una all’altra come le mani di uno stesso individuo. I dermatoglifi perciò costituiscono uno dei metodi per determinare la probabilità che dei gemelli siano monozigotici. Sono inoltre importanti in genetica medica, in quanto alcune sindromi cromosomiche presentano un’insolita combinazione di dermatoglifi. In particolare, come è stato dimostrato per la sindrome di Down, possono aiutare a stabilire un indice di probabilità per una particolare diagnosi. Anche le pliche di flessione palmari e plantari, pur non essendo a rigor di termini dermatoglifi, vengono incluse nell’analisi dei dermatoglifi in quanto si formano nello stesso periodo di sviluppo fetale e influiscono sull’andamento delle creste cutanee. Nell’1% circa degli individui caucasici e in una percentuale più elevata di asiatici è presente sul palmo della mano una singola plica, invece delle comuni due pliche trasverse. Questo solco viene denominato “plica scimmiesca” ed è spesso presente in individui con malformazioni congenite o aberrazioni cromosomiche. La condizione di assenza di impronte digitali in medicina prende il nome di “adermatoglifia”. Per quanto riguarda i primordi della storia delle impronte digitali, sono state trovate tavolette babilonesi risalenti al 500 a.C. (e quasi contemporaneamente anche in Cina) riguardanti transazioni commerciali e recanti impronte impresse sulla loro superficie, probabilmente utilizzate come una specie di firma personale o di sigillo del documento. Ma lo studio vero e proprio delle impronte digitali, che va sotto il nome di “dattiloscopia”, affonda le sue radici in un passato molto più recente, ma comunque sempre abbastanza lontano dai nostri giorni: le moderne tecniche si sono evolute da studi compiuti per la prima volta alla fine del XVII secolo d.C. In questo senso, uno dei primi documenti scientifici riguardante le creste cutanee è stato il De externo tactus organo anatomica observatio, redatto nel 1665 dallo scienziato Marcello Malpighi (5), seguito nel 1684 dal botanico e fisico inglese Nehemiah Grew che si occupò di uno studio sulla struttura delle creste e dei pori (6).
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Si può quindi ritenere che già nei primi anni del ventesimo secolo, la formazione e i principi generali alla base delle impronte digitali e della loro verifica fossero già ben compresi a tal punto da consentire un loro primo utilizzo, come difatti avvenne, nei tribunali di giustizia di diversi stati. Le impronte digitali sono ormai utilizzate da qualche tempo ed estensivamente per l’identificazione degli esseri umani in generale, e per poterne inoltre rilevare la presenza su oggetti collegati a eventi criminosi (14). La ragione della rilevanza investigativa della “dattiloscopia” discende principalmente dal fatto che la stessa fonda il suo potere identificativo su tre caratteristiche essenziali delle impronte papillari quali: a) l’univocità; b) l’immutabilità; c) la classificabilità.
Riguardo l’univocità, non vi sono due soggetti che presentano le stesse impronte digitali; questa affermazione è valida anche per i gemelli omozigoti (15). Alcuni individui possono, infatti, presentare un tracciato papillare di identica morfologia e proporzioni ma le minutiae in esso presenti differiscono sicuramente tra i due soggetti (16). Circa l’immutabilità, il disegno papillare comincia ad originarsi verso il terzo mese di vita intrauterina (qui si nota la presenza dei cosiddetti volar pads: una sorta di cuscinetti presenti, sia sulla zona volare della mano in formazione, sia sulle dita, che origineranno successivamente le creste cutanee) per essere completato verso il settimo mese. Il tracciato così formato è immutabile in quanto solo un trauma o un’ustione che intacchi la superficie endogena del derma può comportare una alterazione del disegno papillare, fermo restando che ciò introduce comunque un contrassegno non di poco conto ai fini identificativi. L’immutabilità delle impronte digitali trae origine dalla conformazione dermica del corpo umano e, in particolare, del palmo della mano e della pianta dei piedi dove appunto è presente il cosiddetto ridge pattern – il disegno papillare – il motivo della cui presenza risiede nella maggiore capacità prensile che esso fornisce all’uomo. La struttura dell’apparato tegumentario viene individuata da vari strati e il disegno digitale trae origine proprio nell’ultimo strato che viene proiettato – con il prosieguo dell’attività biologica – sulla superficie esterna. Ne consegue che eventuali modifiche al dermatoglifo che non interessino quest’ultimo strato vengono cicatrizzate fino al perfetto ripristino cutaneo con la generazione di nuove cellule. Come accennato in precedenza, verso il terzo mese di vita intrauterina compaiono i volar pads alla cui regressione durante il periodo gestatorio sembra potersi far risalire la figura generale dell’impronta e la stessa disposizione casuale delle minuzie – solo in parte derivante da fattori ereditari. Da ultimo, quanto alla classificabilità, le impronte digitali sono state classificate in quattro figure fondamentali in relazione alla presenza dei cosiddetti punti focali dell’impronta: il centro di figura ed il delta (17). Entrambi questi particolari sono originati dall’andamento delle creste cutanee che fondamentalmente si riferiscono a tre sistemi: a) il sistema marginale dove le creste contornano il polpastrello; b) il sistema basale con le linee papillari parallele al termine della falange; c) il sistema centrale (18). Si noti, peraltro, che l’attività dattiloscopica può interessare sia il contesto civile che quello di sicurezza. Nel primo caso troviamo un esempio nella nuova normativa che istituisce la carta d’identità elettronica – Cie – la quale presenta all’interno del suo microchip le impronte digitali dell’intestatario (19). Le difficoltà che gli uffici comunali, specie dei piccoli centri, stanno incontrando in questo contesto sono di natura logistica – presenza di armadietti metallici allarmati, ottimale suddivisione degli uffici con locali dedicati alla specifica attività – ed economica – acquisto dei macchinari idonei alla produzione on-site del nuovo documento di riconoscimento cui si aggiungono gli oneri per la ristrutturazione dei locali anzidetti cui avranno accesso il sindaco ed i funzionari delegati. Impieghi analoghi vengono riscontrati in vari Paesi esteri, specie dell’America Latina: in Cile, ad esempio, la Polizia utilizza spesso le impronte digitali presenti negli archivi comunali per la sua attività investigativa, in Perù gli atti di matrimonio vengono contrassegnati con l’apposizione dell’impronta sullo stesso documento dai coniugi (20). Sugli impieghi civili dei dati biometrici vigila il Garante per la privacy: si consideri, infatti, che varie sono le persone giuridiche che hanno necessità di garantire la sicurezza di particolari locali permettendone l’accesso solo a taluni soggetti mediante l’utilizzo di sistemi di identificazione e memorizzazione dei dati (esempi possono essere alcuni Istituti di credito ovvero semplicemente verificando l’accesso a locali o dati particolarmente sensibili, mediante l’analisi dei files di log generati dal sistema) (21). L’utilizzo della dattiloscopia nel settore della sicurezza vede il coinvolgimento di norme nazionali ed internazionali, spaziando nei campi dell’identificazione preventiva e giudiziaria. Nel primo settore rientrano le norme facenti capo alla prevenzione dei reati ed all’identificazione propria del soggetto sottoposto ai rilievi: a) art. 4 Tulps (22); b) d.lgs. 6 settembre 2011 n. 159 (23); c) art. 4, l. 22 maggio 1975, n. 152 (24); d) l. 30 luglio 2002, n. 189 (25); e) art. 349 c.p.p. (26); f) art. 294 reg. esecuz. del Tulps (27). Nel contesto internazionale, poi, l’importanza assunta dai dispositivi di identificazione biometrica viene enfatizzata dalla presenza di varie Convenzioni, specie interessanti il settore dell’immigrazione e della cooperazione tra le Forze di polizia. Tra questi, in particolare, assume una particolare importanza il sistema Eurodac (28), il quale permette ai paesi dell’Unione europea (UE) di aiutare a identificare i richiedenti asilo e le persone fermate in relazione all’attraversamento irregolare di una frontiera esterna dell’Unione. Confrontando le impronte, i paesi dell’UE possono verificare se un richiedente asilo o un cittadino straniero, che si trova illegalmente sul suo territorio, ha già presentato una domanda in un altro paese dell’UE o se un richiedente asilo è entrato irregolarmente nel territorio dell’Unione. La struttura comporta un’unità centrale gestita dalla Commissione europea, una base centrale automatizzata di dati sulle impronte digitali, e i mezzi elettronici di trasmissione tra i paesi dell’UE e la base di dati centrale. Oltre alle impronte digitali, i dati trasmessi dai paesi dell’UE includono: a) il paese dell’UE d’origine; b) il sesso della persona; c) il luogo e la data della domanda d’asilo o dell’arresto della persona; d) il numero d’identificazione; e) la data in cui sono state prese le impronte digitali; f) la data in cui sono stati trasmessi i dati all’unità centrale. Le impronte sono rilevate per le persone di età non inferiore a 14 anni e vengono inviate all’unità centrale tramite punti nazionali di accesso. Per i richiedenti asilo, i dati sono conservati per dieci anni, salvo se l’interessato ottiene la cittadinanza di uno dei paesi dell’UE; in tal caso i dati che lo riguardano devono essere immediatamente cancellati non appena ottenuta la cittadinanza. Per i cittadini stranieri fermati in relazione all’attraversamento irregolare di una frontiera esterna, i dati sono conservati per due anni a decorrere dalla data alla quale le impronte digitali sono state rilevate. Essi vengono invece cancellati immediatamente, prima dello scadere dei due anni, se lo straniero: a) ottiene un permesso di soggiorno; b) ha lasciato il territorio dell’Unione; c) ha acquisito la cittadinanza di un paese dell’UE. Per i cittadini stranieri che si trovano illegalmente sul territorio di un paese dell’UE, è possibile un confronto delle impronte con quelle contenute nella base di dati centrale per verificare se l’interessato abbia precedentemente presentato una domanda d’asilo in un altro paese dell’UE. Queste impronte, una volta trasmesse per il confronto, non vengono più conservate in Eurodac. Per quanto riguarda la protezione dei dati a carattere personale, i paesi dell’UE che inviano dati a Eurodac devono garantire che le impronte siano rilevate nel rispetto della legalità e che, sempre nel rispetto della legalità, avvengano tutte le operazioni relative al trattamento, la trasmissione, la conservazione o la cancellazione dei dati stessi. La Commissione verifica la corretta applicazione del presente regolamento da parte dell’unità centrale e adotta tutte le misure necessarie per garantire la sicurezza dell’unità centrale. Oltre a ciò, essa deve informare il Parlamento europeo e il Consiglio in merito alle misure adottate. Le attività di trattamento dei dati dei paesi dell’UE vengono monitorate da autorità nazionali di controllo, mentre quelle della Commissione vengono monitorate dal Garante europeo della protezione dei dati (GEPD). Oltre ai paesi dell’UE, il sistema Eurodac viene applicato dai paesi che (sulla base di accordi internazionali) applicano il regolamento “Dublino II”, vale a dire l’Islanda, la Norvegia e la Svizzera (29). L’implementazione dei servizi di cooperazione internazionale favorisce, poi, la velocità degli accertamenti ed il colloquio tra banche dati differenti: un esempio è rappresentato dal colloquio, seppur non diretto, tra Sirene e l’Afis.
Sirene potrebbe essere definito come un Ufficio che, mediante un servizio di messaggeria, punta a garantire il colloquio tra le banche dati nazionali delle varie Forze di polizia ed in caso di dubbio sull’identità di un soggetto fermato alla frontiera vengono trasmesse le sue impronte digitali mediante mail protetta per eventuali accertamenti (30). L’AFIS, invece, è un sistema hardware e software, che nasce dalla necessità di ridurre i normali tempi di acquisizione e catalogazione dei cartellini decadattilari e dalla necessità di effettuare una ricerca rapida ed efficace delle impronte sconosciute in una banca dati unica, informatizzata, consultabile dal centro e dalla periferia. Le impronte digitali vengono codificate attraverso un algoritmo, gestito dal sistema. Le ricerche vengono eseguite sia su set di 10 impronte, sia su frammenti d’impronta digitale sia sulle impronte palmari, rilevati dagli organi di polizia sulla scena del crimine. In concreto è un sistema costituito da terminali a disposizione delle singole unità di polizia scientifica, o dei RIS dei Carabinieri, che hanno la possibilità di connettersi, via rete telematica, alla Banca dati del Casellario Centrale d’Identità – II Divisione del Servizio Polizia Scientifica, che contiene le informazioni biometriche dei singoli soggetti per essere identificati ai fini preventivi o giudiziari (31). L’Italia ha, poi, aderito al progetto “Sirpit” per la verifica delle impronte digitali e delle fotografie. Non si tratta di impronte digitali inserite in database ma assunte al momento al soggetto la cui identità è da verificare comparandole con quelle presenti nei sistemi Afis nazionali. Le modifiche future che interesseranno il sistema dei visti e la struttura propria di Sirene favorirà maggiormente tale collaborazione; nel frattempo l’introduzione del permesso di soggiorno elettronico è stata favorevolmente accolta dalle strutture di sicurezza internazionali. Ritornando alle basi normative su cui s’incentra la dattiloscopia, non ci si può esimere dall’evidenziare come questa sia arricchita dalle sentenze espresse dalla Corte di Cassazione. Il pronunciamento per eccellenza è rappresentato dalla sentenza che indica in 16/17 le minuzie utili per l’attribuzione di un’identità dattiloscopica – punti uguali per forma, posizione ed orientamento (32); nel corso del tempo altre sono state le decisioni assunte dalla Suprema Corte (33), in alcuni casi abbassando tale limite, in altre stabilendo un giudizio qualitativo sull’accertamento effettuato. Il problema che si nota nel settore è la mancanza di univocità in tal senso: l’attribuzione dell’identità passa, infatti, da un minimo di 8 minuzie richieste in alcuni Paesi come la Bulgaria ai 14 punti richiesti a Malta, la maggior parte dei Paesi europei si attesta su 12 minuzie mentre per l’Italia, come detto in precedenza, ne vengono richieste 16/17. Da considerare infine che nel sistema anglosassone l’accertamento tecnico si rifà al libero convincimento espresso dall’esperto (34). Concludendo, si auspica che in un sistema oramai transazionale – che ha visto l’istituzione di organi quali Europol, Eurojust, gruppi di lavoro Enfsi e l’adesione al trattato di Prum (35) – vi sia una comune visione in materia d’identificazione dattiloscopica stabilendo direttrici collegialmente condivise.
CEDU e protezione dei dati personali
La questione della tutela dei dati personali ha costituito oggetto di particolare attenzione nella giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, come del resto dimostra la presa di posizione della Corte di Strasburgo nella vicenda in esame. Il tema è stato analizzato dai giudici dei diritti umani sotto diversi angoli prospettici, che, di seguito, costituiranno oggetto di approfondimento. Anzitutto, principio generale, affermato in numerose decisioni della Corte (36), è quello secondo cui la semplice archiviazione di informazioni sulla vita privata di un individuo equivale a un’ingerenza ai sensi dell’art. 8 della Convenzione che, com’è noto, tutela il diritto al rispetto della vita privata (37). La Corte prende anche in considerazione il particolare contesto in cui si ottengono le informazioni e la loro memorizzazione, la natura delle informazioni e il modo in cui le stesse vengono utilizzate (38). Con particolare riferimento al tema della lotta contro il terrorismo, la Corte ha sostenuto ad esempio che le società democratiche al giorno d’oggi si trovano minacciate da forme di spionaggio e di terrorismo molto sofisticate, con la conseguenza che lo Stato deve essere in grado di contrastare efficacemente tali minacce, con facoltà di disporre la sorveglianza segreta di elementi sovversivi operanti nell’ambito della sua giurisdizione. Tuttavia, la Corte, essendo consapevole del pericolo, insito nelle misure di sorveglianza segreta, di minare o addirittura distruggere la democrazia con l’obiettivo di difenderla, afferma che gli Stati contraenti non possono, in nome della lotta contro lo spionaggio e il terrorismo, adottare le misure che ritengono appropriate (39). Analoghe considerazioni sono state svolte dalla Corte con riferimento alle moderne tecniche scientifiche, osservandosi come la protezione di cui all’art. 8 della Convenzione, sarebbe eccessivamente indebolita se l’uso delle moderne tecniche scientifiche nel sistema di giustizia penale fossero autorizzate a ogni costo e senza accuratamente valutare i potenziali benefici del largo uso di tali tecniche nei confronti d’importanti interessi della vita privata (40). Altro settore di intervento, sul tema della protezione dei dati personali, ha riguardato i diritti dei detenuti. La Corte si è infatti più volte pronunciata sugli ostacoli alla corrispondenza dei detenuti. In una serie di casi polacchi (41), la Corte ha dichiarato che, fintanto che le autorità nazionali hanno continuato la pratica della timbratura “ocenzurowano” (ossia, “censurato”) sulla corrispondenza dei detenuti, la Corte non ha altra alternativa che presumere che le lettere erano state aperte e il loro contenuto letto, in violazione dell’art. 8. Nello stesso senso, con riferimento al tema dell’intralcio alla corrispondenza, la Corte ha riscontrato la violazione dell’art. 8 non avendo potuto discernere come la prevenzione dei disordini potesse giustificare l’impedimento della corrispondenza tra il ricorrente ed il suo avvocato al fine di scagionarlo da un’accusa mossa nei suoi confronti (42); quanto all’intercettazione della corrispondenza dei detenuti, si è ritenuta la violazione dell’art. 8 in un caso in cui le lettere erano state intercettate per l’uso di linguaggio offensivo, escludendo invece tale violazione per lettere contenenti chiare minacce (43). Analogamente, quanto alle restrizioni imposte alla corrispondenza con la Corte e.d.u., si è riconosciuta la violazione dell’art. 8 nel caso di apertura della corrispondenza del ricorrente tra il suo avvocato e la Commissione (44), o ancora – con riferimento ad un ostacolo della corrispondenza con la Corte – la violazione dell’art. 8 per il ritardo nel trasmettere le lettere del ricorrente, l’apertura della sua corrispondenza e il rifiuto delle autorità carcerarie di fornirgli i materiali necessari per poter corrispondere con la Corte e.d.u. (45). In un caso riguardante il sistema d’intercettazione delle conversazioni tra i ricorrenti ed i loro parenti nelle sale visita delle carceri di Ploemeur e Rennes, poi, la Corte ha riconosciuto la violazione dell’art. 8, per la registrazione delle conversazioni nei parlatori del carcere, non avendo la legge francese indicato con sufficiente chiarezza in che termini le autorità avevano il diritto di interferire nella vita privata dei detenuti, o il campo di applicazione e le modalità di esercizio dei loro poteri discrezionali in quella zona del carcere (46). Ma, senza dubbio, il tema più delicato, anche ratione materiae, è quello della protezione dei dati sanitari e dei file conservati dalle autorità giudiziarie. Il tema della tutela della privacy in presenza di attività d’indagine che potenzialmente violino il diritto alla vita privata (e, di conseguenza, l’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo) è, infatti, stato affrontato a più riprese dalla giurisprudenza di Strasburgo. Pur non facendo riferimento la Convenzione europea dei diritti dell’uomo alla protezione dei dati, tuttavia la Corte di Strasburgo ha affermato in diverse occasioni che “la tutela garantita dall’art. 8 al rispetto della vita privata e familiare, subirebbe un indebolimento inaccettabile se l’utilizzo delle moderne tecniche scientifiche fosse autorizzato senza alcuna limitazione” (47). Tra i precedenti più noti, in particolare, per quanto concerne dati personali custoditi dalle autorità giudiziarie, si segnalano alcuni casi. Anzitutto tre casi che hanno visto coinvolta la Francia (48), in cui la Corte, riaffermando il ruolo fondamentale della protezione dei dati personali sottoposti a trattamento automatizzato, in particolare quando tali dati vengono utilizzati per scopi di polizia, ha concluso che, nel caso dei ricorrenti, il loro ingresso nei database nazionali tra i sospettati di reati sessuali non aveva violato l’art. 8 né l’art. 7 (in particolare, la Corte europea osservava che la costituzione di un database costituisce una misura di prevenzione e non una sanzione, che come tale non soggiace alla regola della non retroattività della sanzioni penali; escludeva, anche, una violazione dell’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo in ragione delle caratteristiche del database, ossia la possibilità di chiedere la cancellazione dopo alcuni anni, la consultazione limitata ad organi giudiziari e di polizia, nel rispetto di regole a garanzia della privacy). Ancora, si segnala un caso bulgaro (49), in cui il nome del ricorrente era stato iscritto nel registro della polizia come un “delinquente”, dopo essere stato interrogato in occasione di un’indagine per stupro, anche se non era mai stato incriminato per tale reato. Questi successivamente era stato sottoposto dalla polizia ad una serie di controlli relativi a denunce di violenza o di scomparsa di giovani ragazze e per la mancanza di un rimedio giudiziario per ottenere un riesame. In quel caso la Corte aveva ritenuto violato l’art. 8 perché l’inserimento del nominativo del ricorrente nel registro elettronico della polizia non era conforme alla legge, oltre alla violazione dell’art. 13 in combinato disposto con l’art. 8. Infine, in un noto caso svizzero (50) in cui la Corte di Strasburgo ha condannato la Svizzera per la violazione dell’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, accogliendo il ricorso di una cittadina francese rispetto alla quale la polizia di Ginevra aveva inserito nei suoi data base l’indicazione della professione di “prostituta”, a seguito del ritrovamento nella sua abitazione di un annuncio alla disponibilità d’incontri. La ricorrente aveva sempre negato l’esercizio di tale professione e sosteneva che tale informazione, accessibile anche a possibili datori di lavoro, violava il suo diritto alla vita privata, rendendo oltremodo difficile la ricerca di un lavoro. I giudici di Strasburgo hanno riconosciuto che l’iniziale inserimento dell’informazione negli archivi della polizia era legittimato da previsioni di legge per assicurare la prevenzione di reati mentre la sua successiva conservazione negli archivi per altri 5 anni in relazione a procedimenti penali non connessi con tale professione non era giustificata né necessaria in una società democratica. Per quanto, invece, concerne la protezione dei dati sanitari – tema che, in particolare, si avvicina a quello oggetto della decisione in esame – gli interventi della Corte sono stati numerosi e di grande rilievo. Un primo caso riguardava un file contenente informazioni relative al ricorrente per il collocamento obbligatorio in un ospedale psichiatrico, che era stato dichiarato illegale (51); la Corte dichiarò irricevibile il ricorso per manifesta infondatezza, osservando come i file personali volti a salvaguardare la salute, i diritti e le libertà altrui erano protetti da appropriate regole di accesso che garantivano la riservatezza, essendo accessibili soltanto a categorie di persone, esterne all’istituzione psichiatrica, elencate tassativamente. In un altro caso (52), riguardante la divulgazione d’informazioni mediche del ricorrente, che aveva contratto l’HIV, nell’ambito di un procedimento relativo ad un reato di violenza sessuale, la Corte riconobbe la violazione dell’art. 8 per la pubblicazione dell’identità del ricorrente e delle sue condizioni sanitarie nella sentenza emessa dalla Corte di appello di Helsinki. Diversamente (53), in caso in cui vi era stata la trasmissione a un organismo di sicurezza sociale di documentazione medica contenente informazioni su un aborto eseguito alla ricorrente, la Corte ha escluso la violazione dell’art. 8, in quanto la clinica ove la donna era stata ricoverata aveva avuto validi e sufficienti motivi per inoltrare la documentazione medica della ricorrente, dal momento che tale ufficio era competente per l’esame della sua richiesta di risarcimento per un infortunio alla schiena. Vi è, peraltro, un dato comune a tutte le decisioni della Corte di Strasburgo sul tema in questione. La Corte europea richiede, infatti, che la conservazione dei dati di carattere personale sia proporzionata agli scopi della raccolta e che sia limitata nel tempo. Si tratta di principi ormai radicati negli ordinamenti degli Stati contraenti, in conformità non solo alla Convenzione sulla protezione delle persone rispetto al trattamento automatizzato di dati a carattere personale, 28 gennaio 1981, n. 108 (54), ma anche alle successive Raccomandazioni del Comitato dei ministri (55).
(Il)liceità della conservazione delle impronte digitali dell’assolto: dal caso S. e Marper c. Regno Unito al caso M.K. c. Francia
Venendo adesso ad esaminare più da vicino la questione affrontata dalla Corte e.d.u. nel caso in esame, non sfugge all’interprete che la stessa trova un suo illustre precedente nel già citato caso S. e Marper c. Regno Unito del 4 dicembre 2008 (56), deciso dalla Grande Sezione della Corte con una sentenza in cui venne accertata la violazione dell’art. 8 a causa della ritenzione a tempo indeterminato in una banca dati delle impronte digitali dei ricorrenti, dei campioni di cellule e dei profili di DNA dopo che i procedimenti penali conclusisi nei loro confronti si erano risolti con un proscioglimento in un caso e un’archiviazione nell’altro caso. In tal occasione, la Corte di Strasburgo ebbe ad affermare l’importante principio secondo cui la conservazione a tempo indeterminato in una banca dati di impronte digitali, campioni cellulari e profili genetici di persone sospettate di reati ma non condannate, costituisce un’ingerenza sproporzionata nell’esercizio della vita privata e familiare garantito dall’art. 8 CEDU, in quanto non assicura un giusto equilibrio tra contrastanti interessi pubblici e privati. La Corte altresì dispose l’adozione da parte dello Stato convenuto di misure generali e/o individuali per adempiere all’obbligo di garantire ai ricorrenti ed alle persone nella loro stessa posizione l’esercizio del diritto al rispetto della loro vita privata. La sentenza, com’è noto, ha rappresentato il primo intervento giurisprudenziale europeo inerente all’istituzione e alla gestione delle banche del DNA a scopo investigativo penale. Non è questa la sede per un approfondimento del tema, dovendo concentrare la nostra attenzione sul versante della tutela della privacy in caso di conservazione delle impronte digitali (57). Guardando alla categoria delle impronte digitali, infatti, la Corte sviluppa un ragionamento più elaborato, in quanto tali forme di tracce non contengono informazioni così numerose come quelle genetiche. Anche in tal caso viene effettuato un richiamo a decisioni pregresse, in particolare al caso McVeigh, O’Neill and Evans v. UK (58) che per primo affrontò la questione dell’utilizzo delle impronte in sede investigativa, ai casi Kinnunen v. Finlandia e Friedl v. Austria (59) sull’uso di fotografie in sede processuale, al caso P.G. and J.H. v. UK (60) sulle registrazioni vocali, casi menzionati al fine di concludere per una sostanziale equivalenza tra impronte digitali, fotografie e voice samples (campioni vocali, ovvero il contenuto delle intercettazioni) e per desumere come tutti questi dati, analogamente ai profili di DNA, siano di carattere estremamente personale, contengano informazioni uniche e individuali, le quali rappresentano un’interferenza con il diritto alla riservatezza e con l’autodeterminazione informativa (61).
Il tema viene ripreso, con maggior vigore, nella decisione qui esaminata, che vale la pena di sintetizzare per meglio lumeggiare il caso. Più nel dettaglio, il ricorrente è un cittadino francese (M.K.), nato nel 1972 e residente a Parigi. Il 10 febbraio 2004, era stata aperta un’inchiesta nei suoi confronti con l’accusa di furto di libri. I Servizi investigativi avevano, quindi, provveduto a rilevare le sue impronte digitali. Con una sentenza del 15 febbraio 2005, pronunciata in grado d’appello avverso la sentenza di primo grado emessa il 28 aprile 2004 dal Tribunale penale di Parigi, la Corte d’Appello di Parigi aveva assolto il ricorrente. Il 28 settembre 2005 il ricorrente era stato, però, posto in custodia cautelare in quanto colto in flagrante furto di libri. Ancora una volta gli erano state prelevate le impronte digitali. Il 2 febbraio 2006, il procedimento si era, però, chiuso senza l’esercizio dell’azione penale da parte della Procura della Repubblica di Parigi. Le impronte digitali rilevate al ricorrente erano state registrate nel sistema informatico di conservazione delle impronte digitali (“FAED”). Con un’istanza del 21 aprile 2006, il ricorrente chiedeva al Procuratore della Repubblica di Parigi, che le sue impronte digitali venissero eliminate dal FAED. Il 31 maggio 2006, il pubblico ministero disponeva però solo la cancellazione delle impronte digitali prelevate durante il primo processo penale, conclusosi con la sua assoluzione. Il pubblico ministero aveva sostenuto che la conservazione del “campione” delle impronte digitali del ricorrente era giustificato nell’interesse di quest’ultimo, al fine di escluderne il coinvolgimento nel caso di atti commessi da terzi usurpandone l’identità. Il 26 giugno 2006 il ricorrente aveva proposto ricorso al Tribunal de Grande Instance di Parigi. Con ordinanza 25 agosto 2006, il tribunale aveva respinto la sua richiesta, argomentando che la conservazione delle sue impronte digitali era nell’interesse dei servizi investigativi, in quanto consentiva loro di disporre di un fascicolo elettronico completo di tutte le possibili informazioni. Il tribunale, inoltre, aveva aggiunto che ciò non comportava alcuna conseguenza per il ricorrente, tenuto conto del carattere “privato” del file in cui era registrato il campione delle sue impronte digitali, ciò che escludeva qualsiasi effetto negativo sulla vita sociale e personale dell’interessato. Il 21 dicembre 2006, il presidente della Sezione istruttoria presso la Corte d’appello di Parigi confermava la decisione. Infine, con una sentenza del 1° ottobre 2008, la Corte di Cassazione respingeva il ricorso dell’interessato, tenuto conto di quanto emerso nel corso del procedimento, del fatto che il ricorrente era stato in grado di articolare i suoi motivi di doglianza e di aver conoscenza dell’opposizione motivata del pubblico ministero. La Cassazione, poi, aggiungeva che il procedimento seguito nella trattazione della sua istanza ne aveva assicurato la conformità con la disciplina normativa e convenzionale citata dal ricorrente, tra cui compariva anche il riferimento all’art. 8 della Convenzione (62). Basandosi principalmente sull’art. 8, però, il ricorrente denunciava davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo che la conservazione delle sue impronte digitali nella banca dati informatica aveva violato il diritto al rispetto della sua vita privata; inoltre, questi aveva anche denunciato una violazione dell’art. 6 della Convenzione. Il ricorso era stato depositato presso la Corte europea dei Diritti dell’Uomo il 28 febbraio 2009.
La Corte di Strasburgo ha riconosciuto che il diritto al rispetto della vita privata, garantito dall’art. 8 della Convenzione, è stato violato dalla decisione delle Autorità francesi di non ordinare la cancellazione delle impronte digitali del ricorrente, nei cui confronti l’autorità giudiziaria non aveva proceduto per il reato (furto di libri) in relazione al quale le sue impronte erano state rilevate. In particolare, la Corte ha ritenuto che la conservazione delle impronte digitali di M.K. da parte delle autorità nazionali era equivalente ad un’interferenza con il suo diritto al rispetto della sua vita privata. Tale ingerenza era stata conforme alla legge (63) che perseguiva il legittimo obiettivo di prevenire la criminalità. Tuttavia, la Corte ha ribadito che la protezione dei dati personali è di importanza fondamentale per assicurare ad una persona il godimento del proprio diritto al rispetto della vita privata. Questo principio – per i giudici di Strasburgo – va applicato con forza ancora maggiore quando tali dati sono stati sottoposti ad un trattamento informatico e utilizzati per fini di polizia. La legge nazionale deve pertanto garantire che tali dati siano pertinenti e non eccedano le finalità per le quali vengono memorizzati nel database. Lo stesso vale, per la Corte, per il periodo di tempo per il quale gli stessi vengono mantenuti. Nel caso in esame, il motivo di rifiuto opposto dal pubblico ministero a fronte della richiesta del ricorrente di ottenere la cancellazione dal database delle impronte digitali assunte in occasione della seconda indagine era fondato sulla necessità di proteggere il ricorrente contro il furto di identità. Secondo i giudici di Strasburgo, oltre il fatto che un tale motivo non risulta espressamente dalle disposizioni della normativa francese, accogliere l’argomento basato su una pretesa garanzia di tutela contro le manovre di terzi volte a usurpare un’identità equivarrebbe, in pratica, a giustificare la schedatura di tutta la popolazione presente sul territorio francese, il che sarebbe sicuramente eccessivo e non pertinente. Inoltre, alla prima funzione dello schedario, ossia agevolare la ricerca e l’identificazione degli autori di crimini e delitti, il testo della norma francese ne aggiunge una seconda (ossia “facilitare l’avvio, l’istruzione e il giudizio delle cause di cui sia investita l’autorità giudiziaria”), senza indicare chiaramente che tale funzione riguarderebbe solamente i crimini e i delitti. Menzionando anche le “persone, chiamate in causa in un procedimento penale, che sia necessario identificare con certezza” (art. 3, par. 2, del decreto del 1987), il testo può comprendere de facto tutti i reati, ivi comprese le semplici contravvenzioni qualora ciò permettesse di identificare gli autori di crimini e delitti secondo l’oggetto dell’art. 1 del decreto. In ogni caso le circostanze del caso di specie, relative a episodi di furto di libri archiviati, dimostrano, per la Corte, che il testo si applica per reati minori. Il caso in esame, dunque, si distingue chiaramente da quelle che riguardavano specificamente dei reati gravi come la criminalità organizzata (S. e Marper, citata) o delle aggressioni sessuali (Gardel, Bouchacourt e M.B., sopra citate). Inoltre, la Corte osserva che il decreto non opera distinzioni basate sull’esistenza o meno di una condanna da parte di un tribunale se non addirittura di un’azione penale avviata dal pubblico ministero. Nella sentenza S. e Marper la Corte ha sottolineato il rischio di stigmatizzazione, derivante dal fatto che le persone che avevano rispettivamente beneficiato di un’assoluzione e di una decisione di archiviazione – ed avevano dunque il diritto di beneficiare della presunzione di innocenza – venivano trattate allo stesso modo dei condannati. La situazione nel caso di specie presenta delle analogie su questo punto, in quanto il ricorrente ha beneficiato di un’assoluzione nell’ambito di un primo procedimento, quando i fatti ascrittigli successivamente non erano ancora archiviati. Agli occhi della Corte, infine, neppure le disposizioni del decreto del 1987, relative alle modalità di conservazione dei dati, offrono una tutela sufficiente agli interessati. Per quanto riguarda anzitutto la possibilità di cancellazione dei dati, la Corte ritiene che il diritto di presentare in qualsiasi momento una domanda in tal senso al giudice rischia di scontrarsi, con l’interesse degli uffici incaricati delle indagini che devono disporre di uno schedario avente il maggior numero possibile di riferimenti. Pertanto, poiché gli interessi presenti sono – anche se solo in parte – contraddittori, la cancellazione, che del resto non è un diritto, costituisce una garanzia “teorica ed illusoria” e non “concreta ed effettiva”. La Corte, poi, constata che, se la conservazione delle informazioni inserite nello schedario è limitata nel tempo, il periodo di archiviazione è di venticinque anni: una tale durata è in pratica assimilabile a una conservazione indefinita o almeno, equivale a una norma piuttosto che a un limite massimo. In conclusione, la Corte ritiene che la Francia sia andata oltre il margine di apprezzamento di cui dispone in materia, in quanto il regime di conservazione, nello schedario in questione, delle impronte digitali di persone sospettate di avere commesso dei reati ma non condannate, così come applicato al ricorrente nel caso di specie, non garantisce un giusto equilibrio tra gli interessi pubblici e privati concorrenti. La conservazione contestata si traduce, dunque, in una lesione sproporzionata del diritto del ricorrente al rispetto della vita privata e non può essere considerata necessaria in una società democratica, con conseguente violazione dell’art. 8 della Convenzione (64).
Conclusioni: i riflessi sul sistema italiano
La sentenza della Corte Europea dei diritti umani, al di là della soluzione della particolare questione sottoposta alla sua attenzione, è importante perché, afferma un principio di indiscutibile rilevanza, potenzialmente destinato a trovare applicazione nel sistema italiano: la conservazione di dati personali, quali le impronte digitali, di un innocente viola il diritto al rispetto della vita privata. Il tema è di estremo interesse soprattutto perché, nel nostro ordinamento, la conservazione delle impronte digitali non è soggetta ad alcun limite né soggettivo né oggettivo, né, peraltro, sono previsti limiti temporali alla loro custodia, a differenza invece di quanto avviene per i dati biologici (c.d. D.N.A.), a seguito dell’entrata in vigore della l. 30 giugno 2009, n. 85 (65). Questa legge, infatti, prevede limiti oggettivi e soggettivi al prelievo coattivo dei dati genetici (66) nonché un regime rigoroso per quanto concerne la cancellazione dei dati e la distruzione dei campioni biologici (67). Nulla, però, è previsto normativamente (salvo quanto si dirà oltre) per quanto concerne la conservazione delle impronte digitali di un individuo.
A ciò, inoltre, si aggiunga, da un lato, la circostanza che pacificamente la giurisprudenza di legittimità da sempre ritiene che la comparazione delle impronte prelevate con quelle già in possesso della polizia giudiziaria non richiede particolari cognizioni tecnico-scientifiche e si risolve in un mero accertamento di dati obiettivi, ai sensi dell’art. 354 c.p.p., sicché il suo svolgimento non postula il rispetto delle formalità previste dall’art. 360 c.p.p. per quanto concerne le garanzie difensive (sicché, qualora colui che abbia svolto attività di comparazione sia sentito in dibattimento e riferisca in ordine alla medesima, il giudice non è tenuto a disporre perizia, potendosi attenere alle emergenze esposte dal dichiarante) (68). Dall’altro, e soprattutto, tenuto conto dell’importanza probatoria che si attribuisce alle c.d. impronte digitali, si afferma solitamente in giurisprudenza che la verifica dattiloscopica è dotata di piena efficacia probatoria senza bisogno di elementi sussidiari di conferma, purché sia individuata la sussistenza di almeno 16 punti caratteristici uguali, in quanto essa fornisce la certezza che la persona con riguardo alla quale è stata effettuata si sia trovata sul luogo in cui è stato commesso il reato (pertanto, legittimamente, in mancanza di giustificazioni su tale presenza, viene utilizzata dal giudice ai fini del giudizio di colpevolezza) (69). Premesso quanto sopra, occorre valutare la compatibilità del nostro sistema con il principio espresso dalla Corte di Strasburgo. In particolare, la Corte europea richiede che la conservazione dei dati di carattere personale sia proporzionata agli scopi della raccolta e che sia limitata nel tempo. Si tratta di principio ormai radicato negli ordinamenti degli Stati contraenti, in conformità non solo alla Convenzione sulla protezione delle persone rispetto al trattamento automatizzato di dati a carattere personale, 28 gennaio 1981, n. 108 (70), ma anche alle successive Raccomandazioni del Comitato dei ministri (71).
La questione è delicata e di estremo interesse, proprio per il potenziale impatto sulla legislazione italiana. Mentre il codice di procedura penale, si limita a prevedere solo regole per l’esecuzione da parte degli organi investigativi dei rilievi dattiloscopici, fotografici, antropometrici ed altri accertamenti (72), il Codice per il trattamento dei dati personali (73), prevede infatti per il trattamento e la conservazione dei dati personali di rilevanza investigativa alcune regole importanti (74). In particolare, l’art. 57 di tale decreto, nel dettare le “Disposizioni di attuazione”, demanda ad un apposito d.P.C.M., previa deliberazione del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro della giustizia, l’individuazione delle modalità di attuazione dei principi fissati dal codice della privacy relativamente al trattamento dei dati effettuato per le finalità di cui all’art. 53 dal Centro elaborazioni dati e da organi, uffici o comandi di polizia, anche ad integrazione e modifica del d.P.R. 3 maggio 1982, n. 378 (75), e in attuazione della Raccomandazione R (87) 15 del Consiglio d’Europa del 17 settembre 1987, e successive modificazioni (76). Le modalità sono individuate con particolare riguardo: a) al principio secondo cui la raccolta dei dati è correlata alla specifica finalità perseguita, in relazione alla prevenzione di un pericolo concreto o alla repressione di reati, in particolare per quanto riguarda i trattamenti effettuati per finalità di analisi; b) all’aggiornamento periodico dei dati, anche relativi a valutazioni effettuate in base alla legge, alle diverse modalità relative ai dati trattati senza l’ausilio di strumenti elettronici e alle modalità per rendere conoscibili gli aggiornamenti da parte di altri organi e uffici cui i dati sono stati in precedenza comunicati; c) ai presupposti per effettuare trattamenti per esigenze temporanee o collegati a situazioni particolari, anche ai fini della verifica dei requisiti dei dati ai sensi dell’art. 11, dell’individuazione delle categorie di interessati e della conservazione separata da altri dati che non richiedono il loro utilizzo; d) all’individuazione di specifici termini di conservazione dei dati in relazione alla natura dei dati o agli strumenti utilizzati per il loro trattamento, nonché alla tipologia dei procedimenti nell’ambito dei quali essi sono trattati o i provvedimenti sono adottati; e) alla comunicazione ad altri soggetti, anche all’estero o per l’esercizio di un diritto o di un interesse legittimo, e alla loro diffusione, ove necessaria in conformità alla legge; f) all’uso di particolari tecniche di elaborazione e di ricerca delle informazioni, anche mediante il ricorso a sistemi di indice.
La mancata emanazione di tale decreto attuativo, a distanza di quasi dieci anni dall’entrata in vigore del codice della privacy, può tuttavia porre seri problemi di compatibilità tra la disciplina interna e quella convenzionale di cui all’art. 8, come interpretata dalla Corte di Strasburgo. V’è dunque il rischio concreto, in presenza di tale vuoto normativo, dell’insorgere di un numero (allo stato non prevedibile) di molteplici ricorsi davanti alla Corte da parte di tutti coloro che, avendo “subito” una registrazione delle proprie impronte digitali per motivi investigativi e di giustizia in generale, non seguita da giudizio di condanna, ne denuncino l’illegittima conservazione (tra l’altro, sine die) per violazione del diritto alla riservatezza, previo esaurimento ovviamente delle vie di ricorso interne (77).
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(1) V., per maggiori approfondimenti, l’interessante saggio di Giuliano, Dieci e tutte diverse. Studio sui dermatoglifi umani, Tirrenia-Stampatori 2004.
(2) Per un’illustrazione degli studi di Galton, v.: Montalenti, Genetica umana ed eugenica, in “La Ricerca Scientifica”. nn. 1-2, Milano, CNR, 1949, pp. 1 ss.; Bulmer, Francis Galton: Pioneer of Heredity and Biometry, Johns Hopkins University Press, 2003; Forrest, Francis Galton: the life and work of a Victorian Genius, Londra, 1974; Pearson, The Life, Letters, and Labours of Francis Galton, Londra, 1914-30.
(3) Tra gli studi più noti di Francis Galton, si ricordano: a) Finger Prints, Macmillan, London 1892; b) Decipherment of Blurred Finger Prints, Macmillan, London, 1893; c) Physical Index to 100 Persons Based on their Measures and Finger Prints, Privately printed, 1894; d) Finger Print Directories, Macmillan, London, 1895. Tutte le opere citate sono liberamente consultabili, in lingua inglese, su http://galton. org/fingerprinter.html.
(4) Il trirradio è quel punto dal quale tre sistemi di creste divergono in tre differenti direzioni con angoli di 120°.
(5) Malpighi, De Externo tactus organo anatomica observatio Marcelli Malpighi ad… D. Jacobum Ruffum,apud Aeg. Longum, 1665.
(6) Grew, The Anatomy of Plants, Rawlins, London 1682. Il volume è liberamente consultabile all’indirizzo http://archive.org/ stream/mobot31753000008869#page/n7/mode/2up.
(7) Mayer, Anntnmitche lietrhreihung der Blutgefasse des meruchlichen, Kofpers, Berlino 1777, 1788.
(8) Sugli studi condotti da PurkynÄ›, si veda: Cummins-Wright Kennedy, Purkinje’s observations (1823) on finger prints and other skin features, The Journal of Criminal Law and Criminology, 1940, September/October, 31(3), 343 ss.
(9) Tra le opere più note di Faulds, si segnalano: Faulds, On the Identification of Habitual Criminals by Finger-Prints, Nature, October 4, 1894, p. 548; Faulds, Finger Prints: A Chapter in the History of Their Use for Personal Identification, Scientific American Supplement, 1872, November 18, 1911, p. 326 ss.; Faulds, Was Sir E. R. Henry the Originator of the Finger Print System?, Hanley, Webberley, 1926.
(10) Herschel si preoccupò soprattutto di mettere in luce il suo contributo originario all’argomento, consistente nell’aver individuato e documentato “la rigorosa individualità e l’ostinata persistenza delle tracce sulle nostre dita” (Herschel, The Origin of Finger-Printing, Oxford University Press, 1916, p. 5). Il volume è liberamente consultabile all’indirizzo http://galton. org/fingerprints/books/herschel/herschel-1916-origins-1up.pdf.
(11) Galton dedicò svariati volumi (negli anni dal 1891al 1895) ed articoli all’esposizione dei suoi studi sulle impronte digitali. Misurò la probabilità che due individui diversi possiedano le medesime impronte, ne indagò l’ereditarietà e le caratteristiche in diversi gruppi razziali, ed ideò un sistema per la loro classificazione. Il metodo di identificazione mediante impronte digitali era stato già introdotto, come anticipato, da William James Herschel negli anni 1860, ed il suo uso in ambito criminale e giudiziario già proposto, come visto, da Henry Faulds nel 1880. Ma furono le ricerche di Galton, congiuntamente a quelle svolte da Sir Edward Henry nel medesimo periodo, ad impostare su base scientifica lo sviluppo e le applicazioni di questo metodo, favorendone quindi l’effettiva adozione nelle aule giudiziarie (sull’argomento, v. Bulmer. Francis Galton: Pioneer of Heredity and Biometry, Johns Hopkins University Press, 2003).
(12) Henry viene ricordato principalmente per la realizzazione del metodo di classificazione delle impronte digitali, il cosiddetto sistema di classificazione Galton-Henry.
(13) Nel 1897 venne pubblicata la sua opera Classificazione ed uso delle impronte digitali. Il metodo di classificazione da lui proposto fu subito recepito e utilizzato da molte altre forze di polizia e nel luglio dello stesso anno il Governatore Generale dell’India decretò che il sistema di classificazione Galton-Henry sarebbe stato quello utilizzato ufficialmente nel Raj Britannico. V., sul tema: Tewari-Ravikumar, History and development of forensic science in India, J. Postgrad Med 2000, 46, 303 ss.; Sodhi & Jasjeed Kaur, The forgotten Indian pioneers of fingerprint science, Current Science 2005, 88(1), 185 ss.
(14) Tra gli studi più importanti in materia, v.: Beavan, Fingerprints: The Origins of Crime Detection and the Murder Case That Launched Forensic Science, Hyperion, 2002; The science of fingerprints: classification and uses, United States United States Dept. of Justice, (FBI) Federal Bureau of Investigation, 1979; Block, Fingerprinting, magic weapon against crime, McKay, 1969.
(15) L’univocità è nota da tempo immemorabile, come dimostra, ad esempio, il fatto che i notai cinesi già più di duemila anni or sono siglavano i loro rogiti con l’impronta digitale del pollice, volendo così assicurarsi da possibili contraffazioni.
(16) Per minutiae o punti caratteristici s’intendono tutte le interruzioni di continuità che le creste cutanee (o dermatoglifi) componenti il disegno papillare presentano nel loro naturale decorso (v., per un interessante approfondimento: Cummins-Midlo, Fingerprints, Palms and Soles: An introduction to dermatoglyphics, Research Pub. Co., South Berlin, Mass., 1976).
(17) La classificazione italiana dell’impronta è data da quattro figure: a) Figura adelta (assenza del delta o scarsamente definito); b) Figura monodelta (presenza di un solo delta posto alla base circa del polpastrello); c) Figura bidelta (presenza di due delta); d) Figura composta (impronta caratterizzata da due delta con sistemi di linee papillari ad ansa racchiusi uno nell’altro). Il delta è così definito in quanto tale figura sui polpastrelli assume una figurazione che ricorda la lettera delta in maiuscolo dell’alfabeto greco, costituita appunto da un triangolo (v., per questi rilievi, Franza, Le impronte digitali tra fisiologia e valore giuridico, 2009, in http://www.filodiritto.com; ancora, dello stesso A., La prova dattiloscopica – Conflitti tra scienza e diritto, ivi, 2012).
(18) V., per questi rilievi: Capasso-Cordedda-De Fulvio-Hauser-Marascio, La dattiloscopia tra realtà biometrica ed indagine statistica, in Rassegna dell’Arma dei carabinieri, 2009, 1.
(19) D.M. (interno) 19 luglio 2000 “Regole tecniche e di sicurezza relative alla carta d’identità e al documento d’identità elettronici” (G.U. 21 luglio 2000, n. 169, S.O.); vedi, ora, il d.m. 8 novembre 2007, le cui disposizioni sostituiscono quelle contenute nel predetto decreto ai sensi di quanto disposto dall’art. 16 dello stesso.
(20) V., per questi rilievi: Marascio, La dattiloscopia: impiego e normativa, in http://www.poliziaedemocrazia.it/, 2009.
(21) Tra i numerosi provvedimenti del Garante sul tema, a titolo esemplificativo, ricordiamo il Provvedimento n. 127 del 29 marzo 2012 (divieto di raccogliere e utilizzare le impronte digitali degli iscritti per l’accesso ad una palestra), il Provvedimento n. 393 del 20 ottobre 2011 (divieto di trattamento dei dati biometrici dei dipendenti per finalità di rilevazione della presenza sul posto di lavoro) e, in particolare, il Provvedimento 27 ottobre 2005 (Trattamento di alcuni dati personali – immagini e impronte digitali – da parte di banche, pubblicato nella G.U. 22 marzo 2006, n. 68) ed la Delibera del 14 giugno 2007 recante le “Linee guida in materia di trattamento di dati personali di lavoratori per finalità di gestione del rapporto di lavoro in ambito pubblico” (pubblicata nella G.U. 13 luglio 2007, n. 161, S.O.).
(22) L’autorità di Pubblica sicurezza ha facoltà di ordinare che le persone pericolose o sospette e coloro che non sono in grado o si rifiutano di provare la loro identità siano sottoposti a rilievi segnaletici (art. 4, r.d. 18 giugno 1931 n. 773, recante “Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza“, pubblicato nella G.U. 26 giugno 1931, n. 146). Si ricordi, peraltro, che la Corte cost., con sent. 22-27 maggio 1962, n. 30 (G.U. 31 marzo 1962, n. 85, edizione speciale), ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di tale articolo nella parte in cui prevede rilievi segnaletici che comportino ispezioni personali ai sensi della stessa norma costituzionale.
(23) Le persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità sono soggetti che mantengono un tenore di vita ed una condotta riconducibile ad attività delittuosa ed i rilievi dattiloscopici vengono effettuati contestualmente alla notifica del provvedimento all’interessato (d.lgs. 6 settembre 2011 n. 159, recante il “Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136“, pubblicato nella G.U. 28 settembre 2011, n. 226, S.O.).
(24) La definizione di “persona sospetta” è tratta dall’art. 4 della L. 22 maggio 1975, n. 152, in relazione a soggetti “il cui atteggiamento o la cui presenza, in relazione a specifiche e concrete circostanze di luogo e di tempo non appaiono giustificabili” (L. 22 maggio 1975, n. 152 reca “Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico“, pubblicata nella G.U. 24 maggio 1975, n. 136). Vedi, anche, l’art. 7-bis, d.l. 23 maggio 2008, n. 92, aggiunto dalla relativa legge di conversione.
(25) La l. n. 189/2002 prevede all’art. 5 l’assunzione delle impronte digitali e palmari all’extracomunitario che richiede il rilascio/rinnovo del permesso di soggiorno sul territorio nazionale (l. 30 luglio 2002, n. 189, reca “Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo“, pubblicata nella G.U. 26 agosto 2002, n. 199, S.O.).
(26) L’art. 349 c.p.p. disciplina l’identificazione di persona nei cui confronti vengono svolte le indagini da concordare con il PM.
(27) L’art. 294 reg. es. Tulps, peraltro, nel disciplinare le modalità di rilascio della carta d’identità, prevede che “l’apposizione della impronta digitale è, in ogni caso, facoltativa” (R.D. 6 maggio 1940, n. 635, recante “Approvazione del regolamento per l’esecuzione del testo unico 18 giugno 1931, n. 773 delle leggi di pubblica sicurezza“, pubblicato nella G.U. 26 giugno 1940, n. 149, S.O.). Più di recente, si vedano il d.m. (interno) 28 settembre 2009, recante “Regole tecniche e di sicurezza relative al permesso ed alla carta di soggiorno” (pubblicato nella G.U. 28 gennaio 2010, n. 22), il D. Dirett. (esteri) 24 dicembre 2012, recante le “Specifiche tecniche del processo di emissione del passaporto elettronico” (pubblicato nella G.U. 4 gennaio 2013, n. 3), il d.m. (interno) 8 novembre 2007, recante “Regole tecniche della Carta d’identità elettronica” (pubblicato nella G.U. 9 novembre 2007, n. 261, S.O.) ed, infine, il d.m. (interno) 19 luglio 2000, recante “Regole tecniche e di sicurezza relative alla carta d’identità e al documento d’identità elettronici” (pubblicato nella G.U. 21 luglio 2000, n. 169, S.O.).
(28) La disciplina relativa è contenuta nel Regolamento (CE) n. 2725/2000 del Consiglio, dell’11 dicembre 2000, che istituisce l'”Eurodac” per il confronto delle impronte digitali per l’efficace applicazione della convenzione di Dublino (in G.U.U.E. l. n. 316 del 15 dicembre 2000). Si v. anche il Regolamento (CE) n. 407/2002 del Consiglio, del 28 febbraio 2002, che definisce talune modalità di applicazione del regolamento (CE) n. 2725/2000 che istituisce l'”Eurodac” per il confronto delle impronte digitali per l’efficace applicazione della convenzione di Dublino (in G.U.U.E. L 62 del 5 marzo 2002).
(29) Per maggiori approfondimenti, v. la scheda reperibile sul sito dell’UE all’indirizzo http://europa.eu/legislation_summaries/ justice_freedom_security/free_movement_of_persons_asylum_ immigration/l33081_it.htm.
(30) “SIRENE” è l’acronimo di Supplementary Information Request at the National Entry (informazioni supplementari richieste all’ingresso nazionale) e indica i compiti principali degli “uffici SIRENE” istituiti in tutti gli Stati Schengen, ossia lo scambio tra gli Stati di informazioni aggiuntive o supplementari sulle segnalazioni (v., per maggiori approfondimenti, la scheda reperibile sul sito dell’UE all’indirizzo http://www.consilium.europa.eu/ policies/council-configurations/justice-et-affaires-interieures-%28jai%29/sirene-schengen-information-system?lang=it).
(31) AFIS è l’acronimo di Automated Fingerprint Identification System, ossia “Sistema Automatizzato di Identificazione delle Impronte”.
(32) Cass., Sez. II, n. 14194 del 08/07/1977, dep. 10/11/1977, imp. C., in Giust. pen. 1978, 290; conforme, da ultimo: Cass., Sez. V, n. 12792 del 26/02/2010, dep. 01/04/2010, imp. D. S., in CED Cass., n. 246901).
(33) Cass., Sez. II, n. 9051 del 29/03/1982, dep. 13/10/1982, imp. M., in CED Cass., n. 155515 che fa riferimento a 14/15 punti corrispondenti per un giudizio d’identità; Cass., Sez. II, n. 10567 del 05/07/1985, dep. 13/11/1985, imp. S., in Giur. it. 1986, II, 313 ed in Giust. pen. 1987, III, 75, evidenzia invece la sussistenza di almeno sedici punti (v., in senso conforme: Cass., Sez. V, n. 24341 del 26/05/2005, dep. 28/06/2005, imp. D., in CED Cass., n. 232213).
(34) Sia consentito rinviare, per un approfondimento sulla questione, al contributo di Scarcella, Condizioni dell’efficacia probatoria dell’indagine dattiloscopica, in questa Rivista 2012, 68.
(35) Com’è noto, il Trattato prevede lo scambio transfrontaliero dei dati sensibili, tra questi rientrano le impronte digitali ed il Dna. La relativa disciplina è stata introdotta nel nostro ordinamento con la l. 30 giugno 2009, n. 85, recante “Adesione della Repubblica italiana al Trattato concluso il 27 maggio 2005 tra il Regno del Belgio, la Repubblica federale di Germania, il Regno di Spagna, la Repubblica francese, il Granducato di Lussemburgo, il Regno dei Paesi Bassi e la Repubblica d’Austria, relativo all’approfondimento della cooperazione transfrontaliera, in particolare allo scopo di contrastare il terrorismo, la criminalità transfrontaliera e la migrazione illegale (Trattato di Prum). Istituzione della banca dati nazionale del DNA e del laboratorio centrale per la banca dati nazionale del DNA. Delega al Governo per l’istituzione dei ruoli tecnici del Corpo di polizia penitenziaria. Modifiche al codice di procedura penale in materia di accertamenti tecnici idonei ad incidere sulla libertà personale” (G.U. n. 160 del 13 luglio 2009 – Suppl. Ordinario n. 108).
(36) Tra le più significative, si segnalano, C. eur. dir. uomo, caso Leander c. Svezia (n. 9248/81), [GC], 26 marzo 1987, che ebbe ad affermare il principio secondo cui la memorizzazione da parte di un’autorità pubblica di informazioni relative alla vita privata di un individuo equivale ad un’ingerenza ai sensi dell’art. 8 e l’uso successivo delle informazioni memorizzate non ha alcuna attinenza con tale constatazione. Nella stessa scia si pongono, ancora, C. eur. dir. uomo, caso Kopp c. Svizzera (n. 13/1997/797/1000), 25 marzo 1998 (in Diritti dell’uomo e libertà fondamentali 2006, 669, che affermò come l’intercettazione delle comunicazioni telefoniche costituisce un’ingerenza di un’autorità pubblica ai sensi dell’art. 8, par. 2, nell’esercizio di un diritto che il par. 1 garantisce al ricorrente; tale ingerenza viola l’art. 8, a meno che sia prevista dalla legge, persegua uno o più scopi legittimi elencati dal par. 2 e sia necessaria in una società democratica per raggiungerli; l’espressione prevista dalla legge, nel significato dell’art. 8, par. 2, impone anzitutto che la misura contestata abbia un fondamento nel diritto interno, ma si riferisce anche alla qualità della legge in questione: esige che la legge sia accessibile alla persona interessata, la quale oltretutto deve essere in grado di prevederne le conseguenze per sé, e sia compatibile con la preminenza del diritto; nel contesto del par. 2 dell’art. 8 della Convenzione e in altre disposizioni analoghe, la Corte ha sempre inteso il termine legge nella sua accezione materiale e non formale; vi ha incluso in modo particolare il diritto non scritto). Ancora, v. C. eur. dir. uomo, caso Amann c. Svizzera (n. 27798/95), 16 febbraio 2000, in cui era stata intercettata una telefonata ricevuta dal ricorrente da parte dell’ex-ambasciata sovietica – con cui gli veniva ordinato un apparecchio depilatorio da lui pubblicizzato – ed il Pubblico ministero aveva chiesto al servizio di intelligence di redigere un dossier sul medesimo (nella fattispecie, la Corte ritenne violato l’art. 8 a causa della registrazione della telefonata, perché la creazione e la memorizzazione del file non erano “in conformità con la legge”, in quanto non era chiaro nella legge svizzera quale fosse il potere discrezionale delle autorità in questo settore).
(37) L’art. 8, sotto la rubrica “Diritto al rispetto della vita privata e familiare”, così recita: “1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza. 2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”.
(38) V., per esempio, C. eur. dir. uomo, caso Peck c. Regno Unito (n. 44647/98), 28 gennaio 2003, in cui la Corte ha riscontrato la violazione dell’art. 8 a seguito della divulgazione ai media di riprese filmate in una strada da una televisione a circuito chiuso (CCTV) installata dal Comune, che mostrava il ricorrente nell’atto di tagliarsi i polsi.
(39) C. eur. dir. uomo, caso Klass e altri c. Germania (n. 5029/71), 6 settembre 1978. In questo caso, la Corte non ha riscontrato alcuna violazione dell’art. 8, in quanto la legge contestata dai ricorrenti (che impone restrizioni alla segretezza della corrispondenza, poste e telecomunicazioni) è stata ritenuta dalla Corte necessaria in una società democratica nell’interesse della sicurezza nazionale e per la prevenzione dei reati (art. 8, par. 2).
(40) C. eur. dir. uomo, caso S. e Marper c. Regno Unito (n. 30562/04 e 30566/04), [GC], 4 dicembre 2008, par. 112. La Corte, nel constatare la violazione dell’art. 8, afferma il principio per il quale la conservazione a tempo indeterminato in una banca dati di impronte digitali, campioni cellulari e profili genetici di persone sospettate di reati ma non condannate, costituisce un’ingerenza sproporzionata nell’esercizio della vita privata e familiare garantito dall’art. 8 CEDU, in quanto non assicura un giusto equilibrio tra contrastanti interessi pubblici e privati (fattispecie relativa a conservazione in banca dati di impronte digitali, campioni di cellule e profili del DNA di persone indagate di reati anche dopo che il procedimento penale nei loro confronti si era chiuso rispettivamente con un proscioglimento e una archiviazione. La Corte ha altresì disposto l’adozione da parte dello Stato convenuto di misure generali e/o individuali per adempiere all’obbligo di garantire ai ricorrenti ed alle persone nella loro stessa posizione l’esercizio del diritto al rispetto della loro vita privata: v., per maggiori approfondimenti, Sellaroli, Il “caso S. e Marper” e la Corte europea: il DNA e il bilanciamento tra opposte esigenze in una società democratica, in Legisl. pen. 2009, III, 639).
(41) Si vedano, a titolo esemplificativo: C. eur. dir. uomo, i casi Pisk-Piskowski c. Polonia (n. 92/03) del 14 giugno 2005; Matwiejczuk c. Polonia (n. 37641/97) del 2 dicembre 2003 e Przyjemski c. Polonia (n. 6820/07) del 5 ottobre 2010. In Corte europea dir. uomo, caso Bista c. Polonia (n. 22807/07) del 12 gennaio 2010, la Corte ha stabilito, per quanto riguarda gli sviluppi rilevanti nella prassi interna, che non c’era un rimedio efficace in Polonia per le denunce dei detenuti sulla censura della corrispondenza con la Corte e.d.u. (cfr. la successiva decisione di inammissibilità nel caso Mocny c. Polonia, n. 47672/09, del 30 novembre 2010).
(42) V., C. eur. dir. uomo, Golder c. Regno Unito (n. 4451/70), 21 febbraio 1975.
(43) C. eur. dir. uomo, Silver e altri c. Regno Unito (n. 7136/75) 25 marzo 1983.
(44) C. eur. dir. uomo, Campbell c. Regno Unito (n. 13590/88), 25 marzo 1992.
(45) C. eur. dir. uomo, Cotlet c. Romania (n. 38565/97), 3 giugno 2003.
(46) C. eur. dir. uomo, Wisse c. Francia (n 71611/01), 20 dicembre 2005.
(47) È questo il concetto che viene enunciato nella celebre sentenza della Grande Camera, già citata, S. e Marper c. Regno Unito del 4 dicembre 2008 (Requ. nn. 30562/04 e 30566/04, in Cass. pen. 2009, 4435 ss., con nota di Casasole, La conservazione di campioni biologici e di profili del DNA nella legge italiana, alla luce del dibattito europeo). Come si ricorderà, la Corte ritenne che la conservazione a tempo indeterminato in una banca dati d’impronte digitali, campioni cellulari e profili genetici di persone sospettate di reati ma non condannate, costituisce un’ingerenza sproporzionata nell’esercizio della vita privata e familiare garantito dall’art. 8 CEDU, in quanto non assicura un giusto equilibrio tra contrastanti interessi pubblici e privati (si trattava di fattispecie relativa a conservazione in banca dati di impronte digitali, campioni di cellule e profili del DNA di persone indagate di reati anche dopo che il procedimento penale nei loro confronti si era chiuso rispettivamente con un proscioglimento e una archiviazione. La Corte ha altresì disposto l’adozione da parte dello Stato convenuto di misure generali e /o individuali per adempiere all’obbligo di garantire ai ricorrenti ed alle persone nella loro stessa posizione l’esercizio del diritto al rispetto della loro vita privata).
(48) C. eur. dir. uomo, Bouchacourt c. Francia (n. 5335/06), Gardel c. Francia (n. 16428/05) e M.B. c. Francia (n. 22115/06), tutti decisi in data 17 dicembre 2009.
(49) C. eur. dir. uomo, Dimitrov-Kazakov c. Bulgaria (n. 11379/03), 10 febbraio 2011.
(50) C. eur. dir. uomo, Khelili c. Svizzera (n. 16188/07), 18 ottobre 2011.
(51) C. eur. dir. uomo, Yvonne Chave c. Francia (n. 14461/88), 9 luglio 1991.
(52) C. eur. dir. uomo, Z. c. Finlandia (n. 22009/93), 25 febbraio 1997.
(53) C. eur. dir. uomo, M.S. c. Svezia (n. 20837/92), 27 agosto 1997.
(54) Il cui art. 5 dispone che i dati a carattere personale debbano, tra l’altro, essere conservati in una forma che consenta l’identificazione delle persone e “per una durata non superiore a quella necessaria ai fini per i quali sono registrati”.
(55) V. la Raccomandazione n. 1 del 10 febbraio 1992 e, in precedenza, la Raccomandazione agli Stati membri diretta a disciplinare l’utilizzo dei dati a carattere personale nel settore di polizia, 17 settembre 1987, n. 15.
(56) C. eur. dir. uomo, Grande Camera, S. e Marper c. Regno Unito, 4 dicembre 2008 (nn. 30562/04 e 30566/04), che constatò la violazione dell’art. 8 CEDU relativo al rispetto della vita privata e familiare, in una fattispecie relativa a conservazione in banca dati di impronte digitali, campioni di cellule e profili del DNA di persone indagate di reati anche dopo che il procedimento penale nei loro confronti si era chiuso rispettivamente con un proscioglimento e una archiviazione.
(57) Tra i contributi dottrinari più significativi sul caso, v. Sellaroli, Il “caso S. e Marper” e la Corte europea: il DNA e il bilanciamento tra opposte esigenze in una società democratica, in Leg. pen. 2009, III, 639 ss.; ancora, v. Casasole, La conservazione di campioni biologici e di profili del DNA nella legge italiana, alla luce del dibattito europeo, in Cass. pen. 2009, 4435 ss.; sul punto, infine, v. Leo, Il prelievo coattivo di materiale biologico nel processo penale e l’istituzione della banca dati nazionale del DNA, in Riv. it. med. leg. 2011, 931 ss. In dottrina, sui rapporti tra impronte digitali e diritti umani, v. Conti, Impronte digitali e diritti umani. In ricordo di Rosario Livatino, in Pol. dir., 2008 (4), 606 ss.
(58) Causa McVeigh, O’Neill and Evans v. UK, 1981, n. 8022/77, 8025/77, 8027/77, Report of the Commission, 18.03.1981, DR 25.
(59) Causa Kinnunen v. Finlandia, 1996, n. 24950/94, Commission decision, e causa Friedl v. Austria 1995, n. 15225/89, in 305-B, Series A, 1995.
(60) Causa P.G. and J.H. v. UK, 2001, n. 44787/98, ECHR-IX.
(61) Di contrario avviso, però, certa dottrina secondo cui, invece, il principio che se ne ricava dipende dal complesso della situazione, per cui anche se isolatamente considerato, il prelievo e la conservazione delle impronte digitali non avrebbe determinato la violazione riscontrata, il mix aggiuntivo rispetto ai campioni cellulari e profili genetici del DNA ha fatto traboccare il vaso (De Stefano, La banca dati delle impronte digitali e degli esami sul DNA per gli imputati ritenuti innocenti, all’esame della Corte di Strasburgo, in Osservatorio sul rispetto dei diritti fondamentali in Europa – www.europeanrights.eu, 2009, Newsletter n. 15). Per maggiori approfondimenti, v. Colussi, Dati genetici e forze di polizia: intersezioni europee, in http://www.unipv-lawtech.eu/files/CONTRIBUTO-ECLT-8.pdf.
(62) La norma di riferimento, come ricordato, è rappresentata dall’art. 8 Conv. e.d.u. che, sotto la rubrica “Diritto al rispetto della vita privata e familiare”, così recita: “1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza. 2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui“.
(63) Si tratta del decreto n. 87-249 dell’8 aprile 1987 relativo allo schedario automatizzato delle impronte digitali gestito dal ministero dell’Interno e l’art. 55, par. 1, codice di procedura penale francese.
(64) Quanto, invece, alla presunta violazione dell’art. 6 della Convenzione, la Corte, tenuto conto di tutti gli elementi in suo possesso e nella misura in cui era competente per conoscere delle accuse formulate, non ha rilevato alcuna apparenza di violazione dei diritti e delle libertà sanciti dalla Convenzione o dai suoi Protocolli. Tale motivo di ricorso è stato ritenuto manifestamente infondato e rigettato in applicazione dell’art. 35 par.par. 3 (a) e 4 della Convenzione.
(65) La l. n. 85/2009 reca l'”Adesione della Repubblica italiana al Trattato concluso il 27 maggio 2005 tra il Regno del Belgio, la Repubblica federale di Germania, il Regno di Spagna, la Repubblica francese, il Granducato di Lussemburgo, il Regno dei Paesi Bassi e la Repubblica d’Austria, relativo all’approfondimento della cooperazione transfrontaliera, in particolare allo scopo di contrastare il terrorismo, la criminalità transfrontaliera e la migrazione illegale (Trattato di Prum). Istituzione della banca dati nazionale del DNA e del laboratorio centrale per la banca dati nazionale del DNA. Delega al Governo per l’istituzione dei ruoli tecnici del Corpo di polizia penitenziaria. Modifiche al codice di procedura penale in materia di accertamenti tecnici idonei ad incidere sulla libertà personale” (in G.U. n. 160 del 13 luglio 2009 – Supplemento ordinario n. 108).
(66) In particolare, l’art. 9 stabilisce, sotto il profilo soggettivo, che sono sottoposti a prelievo di campioni biologici: a) i soggetti ai quali sia applicata la misura della custodia cautelare in carcere o quella degli arresti domiciliari; b) i soggetti arrestati in flagranza di reato o sottoposti a fermo di indiziato di delitto; c) i soggetti detenuti o internati a seguito di sentenza irrevocabile, per un delitto non colposo; d) i soggetti nei confronti dei quali sia applicata una misura alternativa alla detenzione a seguito di sentenza irrevocabile, per un delitto non colposo; e) i soggetti ai quali sia applicata, in via provvisoria o definitiva, una misura di sicurezza detentiva. Sotto il profilo oggettivo, invece, il prelievo di campioni biologici può essere effettuato esclusivamente se si procede nei confronti dei soggetti di cui sopra per delitti, non colposi, per i quali è consentito l’arresto facoltativo in flagranza, con una serie di esclusioni indicate dal comma 2 della norma citata.
(67) La disciplina è contenuta nell’art. 13. La norma prevede che a seguito di assoluzione con sentenza definitiva perché il fatto non sussiste, perché l’imputato non lo ha commesso, perché il fatto non costituisce reato o perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, è disposta d’ufficio la cancellazione dei profili del DNA acquisiti ai sensi dell’art. 9 e la distruzione dei relativi campioni biologici. Analoga cancellazione d’ufficio dei profili del DNA acquisiti ai sensi dell’art. 7 e la distruzione dei relativi campioni biologici è prevista a seguito di identificazione di cadavere o di resti cadaverici, nonché del ritrovamento di persona scomparsa. Inoltre, quando le operazioni di prelievo sono state compiute in violazione delle disposizioni previste dall’art. 9, si procede d’ufficio alla cancellazione del profilo del DNA e alla distruzione del relativo campione biologico. In ogni altro caso, invece, il profilo del DNA resta inserito nella banca dati nazionale del DNA per i tempi stabiliti nel regolamento d’attuazione, d’intesa con il Garante per la protezione dei dati personali, e comunque non oltre quaranta anni dall’ultima circostanza che ne ha determinato l’inserimento, e il campione biologico è conservato per i tempi stabiliti nel regolamento di attuazione, d’intesa con il Garante per la protezione dei dati personali, e comunque non oltre venti anni dall’ultima circostanza che ne ha determinato il prelievo.
(68) V. Sez. V, 9 febbraio 2010, n. 16959, in Cass. pen. 2011, 1855; in senso conforme, fra le altre, v. Sez. I, 11 giugno 2009, n. 28848, in C.E.D. Cass., n. 244295; Sez. V, 17 marzo 2004, n. 23319, ivi, n. 228864; Sez. I, 6 giugno 1997, n. 4017, in Giur. it., 1997, II, c. 633; Sez. VI, 27 ottobre 1998, n. 5779, in Studium iuris, 1999, 888; in dottrina, Fanuele, Dati genetici e procedimento penale, Padova, 2009, 88 ss.; Gennari, Prelievo del DNA e banca dati nazionale: il processo penale tra accertamento del fatto e cooperazione internazionale (L. 30 giugno 2009, n. 85), a cura di Scarcella, Padova 2009, 43 ss.
(69) V. Sez. V, 26 maggio 2005, n. 24341, in Cass. pen. 2006, 2909; in senso conforme sulla valenza probatoria delle indagini dattiloscopiche, v. Sez. IV, 2 febbraio 1989, in questa Rivista 1990, 1553; Sez. IV, 9 novembre 1988, ivi, 1990, 902; Sez. II, 8 luglio 1987, in Riv. pen. 1988, 361; ancora, sul medesimo tema sia consentito rinviare a Scarcella, Condizioni dell’efficacia probatoria dell’indagine dattiloscopica, in questa Rivista 2012, 68 ss.
(70) Il cui art. 5 dispone che i dati a carattere personale debbano, tra l’altro, essere conservati in una forma che consenta l’identificazione delle persone e “per una durata non superiore a quella necessaria ai fini per i quali sono registrati”.
(71) V., ad esempio, la Raccomandazione n. 1 del 10 febbraio 1992 e, in precedenza, la Raccomandazione agli Stati membri diretta a disciplinare l’utilizzo dei dati a carattere personale nel settore di polizia, 17 settembre 1987, n. 15.
(72) L’art. 349, comma 2, c.p.p., in particolare, sotto la rubrica “Identificazione della persona nei cui confronti vengono svolte le indagini e di altre persone”, prevede al comma 2 che “Alla identificazione della persona nei cui confronti vengono svolte le indagini può procedersi anche eseguendo, ove occorra, rilievi dattiloscopici, fotografici e antropometrici nonché altri accertamenti”.
(73) D.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (G.U. 29 luglio 2003, n. 174 – S.O., n. 123).
(74) Si vedano, in particolare, gli art. 53 e ss., che disciplinano i “Trattamenti da parte di forze di polizia”.
(75) Recante “Approvazione del regolamento concernente le procedure di raccolta, accesso, comunicazione, correzione, cancellazione ed integrazione dei dati e delle informazioni, registrati negli archivi magnetici del centro elaborazione dati di cui all’art. 8 della legge 1° aprile 1981, n. 121” (pubblicato nella G.U. 23 giugno 1982, n. 170).
(76) Come si legge nella Relazione di accompagnamento al Codice della privacy “l’art. 57 prevede l’attuazione dei principi del codice in relazione al trattamento di dati effettuato da forze di polizia o dagli altri soggetti cui si applica il presente titolo, anche mediante l’integrazione e la modifica della normativa vigente in materia (d.P.R. n. 378/1982, di attuazione della predetta legge n. 121/1981). La norma prevede specifici “criteri” per l’individuazione delle modalità del trattamento, anche in attuazione della Raccomandazione del Consiglio d’Europa n. R(87)15 del 17 settembre 1987 sui trattamenti di dati personali effettuati per finalità di polizia e di prevenzione e repressione di reati”.
(77) Allo stato, si noti, l’unica norma di riferimento è costituita dall’art. 10, commi 3, 4 e 5, l. 1 aprile 1981, n. 121, richiamata dall’art. 56 del citato d.lgs. n. 196/2003. L’art. 10 citato, in particolare, prevede che la persona alla quale si riferiscono i dati può chiedere al Dipartimento della Pubblica Sicurezza – Direzione Centrale della polizia criminale, la conferma dell’esistenza di dati personali che lo riguardano, la loro comunicazione in forma intellegibile e, se i dati risultano trattati in violazione di vigenti disposizioni di legge o di regolamento, la loro cancellazione o trasformazione in forma anonima (comma 3). La procedura normativamente disciplinata prevede che, esperiti i necessari accertamenti, tale ufficio comunica al richiedente, non oltre trenta giorni dalla richiesta, le determinazioni adottate, salva la possibilità per l’ufficio medesimo di omettere di provvedere sulla richiesta se ciò può pregiudicare azioni od operazioni a tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica o di prevenzione e repressione della criminalità, dandone informazione al Garante per la protezione dei dati personali (comma 4). Infine, si legittima chiunque venga a conoscenza dell’esistenza di dati personali che lo riguardano, trattati anche in forma non automatizzata in violazione di disposizioni di legge o di regolamento, a chiedere al tribunale del luogo ove risiede il titolare del trattamento di compiere gli accertamenti necessari e di ordinare la rettifica, l’integrazione, la cancellazione o la trasformazione in forma anonima dei dati medesimi (comma 5).