Antonio Tanza, Sulla natura dell’eccezione di prescrizione delle rimesse solutorie, nota ad ordinanza Corte di Cass., sez. VI, 1, Pres. Cons. M. Dogliotti, rel. Cons. M. Cristiano n° 20933 del 7 sett. 2017, in Lexenia
Sulla natura dell’eccezione di prescrizione delle rimesse solutorie
Con l’ordinanza in commento la S. C. ha fatto chiarezza su una questione ormai molto dibattuta ed esplosa subito dopo la pubblicazione delle pronuncia a S.U. n. 24418/10: le modalità di rilevazione processuale dell’indicazione delle rimesse solutorie al fine del computo del termine di prescrizione ed il relativo onere della prova.
La portata innovativa della pronuncia in commento, non sta nella conferma del principio, ormai pacifico, secondo il quale l’azione di ripetizione dell’indebito, proposta ovviamente dal cliente di una banca, è soggetta all’ordinaria prescrizione decennale, che decorre, nel caso in cui i versamenti abbiano avuto solo natura ripristinatoria della provvista, dalla chiusura del rapporto; ma nella statuizione per cui, ai fini dell’accoglimento dell’eccezione di prescrizione delle rimesse solutorie, è necessario che detta specifica eccezione sia esclusivamente formulata dalla banca (e non dal giudice) in modo specifico e non in termini assolutamente generici.
E’ oramai storia come gli avvocati dei clienti delle banche, dopo il ponderoso lavoro portato prima dinanzi alle S.U., con la sentenza n. 24418 del 3 dicembre 2010 (che ha evitato una sorta di sanatoria tombale per una nutrita serie d’illegittimità contrattuali e relative illegittime appostazioni), e poi dinanzi alla Corte Costituzionale, con la sentenza n. 78 del 2 aprile 2012 (che ha evitato la mummificazione dei principi affermati dalle citate SU), hanno subito un duro attacco da parte della filobancaria che in tantissime cause ha ottenuto, a termini abbondantemente scaduti per una valida sollevazione dell’eccezione di prescrizione delle operazioni solutorie, riconvocazioni di CTU e quesiti sulla quantificazione delle operazioni solutorie, aprendo la strada alla possibilità di sollevare d’ufficio la prescrizione e ciò in aperto contrasto con la consolidata inserzione della prescrizione nelle eccezioni c.d. in senso stretto, ovvero sollevabili dalla sola parte che ne abbia l’interesse.
Non è difficile immaginare come prima della sentenza delle S.U.
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Vi è, anche da dire, che non sono mancate precedenti pronunce, seppur aberranti (anche della S.C.), che hanno valorizzato gli effetti di un’eccezione di prescrizione generica: le lobbies di questo paese sono maestre nell’intervenire a gamba tesa su ogni questione, seppur a farne le spese sono gli interessi del Popolo Italiano.
Il sovraffollamento delle aule giudiziarie ha incoraggiato la diffusione di una finalizzazione allo smottamento del contenzioso, anche a mezzo dello strumento improprio delle decisioni, e da altro verso l’attuale e peculiare situazione delle banche italiane, dovuta principalmente a mala gestio ed ai noti scandali, ha influito ad un evidente addolcimento delle pronunce nei confronti del ceto bancario: tutto ciò sulle spalle dei privati e piccole e medie imprese che dopo anni di causa hanno visto svaporare in un baleno la dovuta restituzione del maltolto.
Ecco perché l’ordinanza in commento si pone nella stessa linea di rigore logico-giuridico seguita dalle S.U. del 2010 e della Consulta del 2012 e costituisce una logica precisazione di alcuni punti delle stesse sentenze e, nello stesso tempo, un limite a quella vera e propria strage di principi operato dalla filobancaria negli anni successivi alla pubblicazione delle citate sentenze ed ad una legislazione visibilmente spostata verso gli interessi delle banche[1].
Nel caso esaminato dalla Suprema Corte, la Banca non aveva tempestivamente sollevato l’eccezione di prescrizione delle rimesse solutorie (né in I grado né nell’atto di appello) e la Corte d’Appello di Lecce, d’ufficio, aveva ritenuto correttamente sollevata l’eccezione di prescrizione delle rimesse solutorie, seppur assolutamente generica e tardiva, contravvenendo, in tal modo, anche ai principi generali in materia di onere probatorio.
La Suprema Corte, pertanto, riconoscendo la natura di eccezione in senso stretto dell’eccezione di prescrizione delle rimesse solutorie, sollevabile, pertanto, solo dalla parte che la eccepisce, ha lucidamente affermato che “il giudice non può supplire all’omesso assolvimento di tale onere, individuando d’ufficio i versamenti solutori” oppure, come tante volte abbiamo visto fare, ammettendo una CTU che computi l’entità di detti versamenti, scegliendo poi in sentenza questa soluzione.
La decisione della Corte di legittimità costituisce un vero e proprio monito (recentemente sanzionabile anche disciplinarmente) per tutti i giudici di merito che, per lungo tempo, hanno ammesso CTU di carattere puramente esplorativo, consentendo in tal modo che la qualificazione delle singole rimesse venisse compiuta dal perito o, ancora peggio, hanno formulato dei quesiti introducendo d’ufficio, magari nel grado di Appello, il concetto di prescrizione delle operazioni solutorie, concetto che solo la difesa della banca avrebbe avuto titolo e l’onere di farlo, a tempo debito.
La S.C. ha espresso sin dalla comunicazione della data dell’udienza non partecipata in Camera di Consiglio del 15 maggio 2017 il proprio deciso e netto convincimento: il relatore, ai sensi dell’art. 380-bis cpc, ha formulato la seguente proposta “manifesta fondatezza di entrambi i motivi del ricorso” proposto dal cliente della banca.
Il giudice non può supplire alla deficienza della difesa di una delle parti, specialmente in questo delicatissimo momento storico: sentenze e leggi manifestatamente ingiuste, seppur rispettate, non fanno bene al diritto ed al nostro paese.
Chi eccepisce la prescrizione delle rimesse solutorie (sempre la banca che è la sola parte ad averne l’interesse), infatti, è tenuto a dimostrarne pienamente il relativo fatto costitutivo, nell’ambito del quale rientra anche il profilo riguardante la prova certa e giuridicamente idonea dell’individuazione del “dies a quo” relativo alla decorrenza effettiva per la maturazione del relativo termine prescrizionale (cfr. Cass. Civ. n. 3465 del 12 febbraio 13; Cass. n. 11843 del 2007 e Cass. n. 16326 del 2009, secondo la quale, in generale, “l’ eccezione di prescrizione, in quanto eccezione in senso stretto, deve fondarsi su fatti allegati dalla parte, quand’anche suscettibili di diversa qualificazione da parte del giudice, con la conseguenza che il debitore, ove eccepisca la prescrizione del credito, ha l’onere di allegare e provare il fatto che, permettendo l’esercizio del diritto, determina l’inizio della decorrenza del termine ai sensi dell’art. 2935 c.c., restando escluso che il giudice possa accogliere l’eccezione sulla base di un fatto diverso, conosciuto attraverso un documento prodotto ad altri fini“.
Pretendere che il correntista, nella domanda, chieda, preso da un perverso raptus masochista, una somma inferiore al maltolto perché autonomamente sia tenuto a decurtare dalle indebite appostazioni bancarie le c.d. operazioni solutorie, significa voler falsare e con dolo le regole del processo e l’interesse delle parti, favorendo il ceto bancario.
La decisione in commento si inserisce, pertanto, nel solco tracciato dalla giurisprudenza 2017 con l’ordinanza della Corte di Cassazione civile, sez. sesta, 30 gennaio 2017, n. 2308: con detta pronuncia si è ritenuto valida l’eccezione di prescrizione sollevata dalla banca con riferimento ai “diritti restitutori anteriori al 3 febbraio 1992, sul punto allegando l’autonomia delle singole partite e l’orientamento della S.C. in tema di rimesse in materia fallimentare” (in tal caso, infatti, trattava di una formulazione che, pur se sommaria, non era per nulla generica ed era stata tempestivamente sollevata, esprimendo chiaramente, sin dalle prime battute, sia la volontà di distinguere tra le “singole partite” che quella di distinguere tra rimesse solutorie e ripristinatorie, facendo riferimento alle “rimesse in tema fallimentare”).
Alla luce dell’ordinanza del 7 settembre 2016, si auspica che non si verifichino in futuro situazioni come quelle lucidamente descritte dal Chiovenda, sin dagli anni ‘30[2]: “i nostri giudici sono molto corrivi ad argomentare da fatti che le parti non hanno allegati, col pretesto che (emergono dagli atti): essi temono di riuscire minori del loro alto ufficio, se non esercitano con assoluta indipendenza il loro ingegno su tutte le risultanze degli atti. Questo sfrenato esercizio è tuttavia pericoloso… Quando il giudice assume di sua testa un fatto che la parte cui giova non fece valere, egli si trova sempre nella possibilità di errare: finché una parte non fa valere un fatto che le giova, l’avversario non ha interesse a dedurre la inesistenza di quel fatto o a dedurre altri fatti che ne elidano le conseguenze: quindi il giudice non solo trae partito da un fatto non rischiarato alla luce del contraddittorio, ma assumendo la veste di difensore di una parte, offende il principio dell’uguaglianza delle parti, ch’è uno dei principi fondamentali che informano tutto il processo civile”.
Va detto, però, che, seppur con tanta sofferenza da parte degli utenti del Diritto, i principi cardine del nostro diritto e della vita democratica alla fine riescono a prevalere: tanto è stato fatto in questi ultimi trent’anni da parte degli onesti operatori del diritto per traghettare l’odioso “diritto delle banche” verso il puro Diritto bancario.
Segue il testo integrale della recentissima ordinanza.
[1] Cfr. ex pluribus unum “Le ultime riforme al processo di esecuzione forzata di cui al d.l. 59/2016. Ovvero le banche dettano e il legislatore scrive” relazione del Prof. Avv. Giuliano Scarselli, Ordinario di diritto processuale civile nell’Università di Siena, tenutasi a Portovenere, il 14 ottobre 2016, in un convegno organizzato dagli avvocati dell’Ordine di La Spezia su questioni controversie in materia di esecuzione immobiliare alla luce della recente l. 119/2016.
[2] G. Chiovenda, Istituzioni di diritto processuale civile, II ed riv. ed em., Jovene, Napoli, 1935-1936, pag. 309 e ss.