Marco Rossetti, Risarcimento Iure Haereditario del danno non patrimoniale, in Danno e Resp., 2008, 5, p. 571
Trib. Palermo Sez. I, 04 luglio 2007
Risarcimento Iure Haereditario del danno non patrimoniale
Sommario: 1. Premessa – 2. La natura del fatto illecito ed il rilievo del dolo – 3. Una questione data per scontata: il c.d. “danno esistenziale” – 4. Il danno iure haereditario – 5. La preesistenza di un danno biologico in capo alla vittima secondaria – 6. Gli interessi e la rivalutazione
1. Premessa
Non era certo facile il compito che il Tribunale di Palermo si è trovato dinanzi, allorché ha dovuto pronunciare la sentenza qui in rassegna. La fattispecie concreta presentava infatti molte particolarità che la rendevano forse non unica (1), ma comunque particolarissima. Tra le tante peculiarità, tre mi pare rivestissero speciale importanza sul piano del risarcimento, e cioè:
– la eccezionalità della natura del fatto illecito (l’assassinio del Procuratore della Repubblica Paolo Borsellino), ovvero un delitto doloso di natura tanto vigliacca quanto efferata, dall’impatto emotivo e mediatico devastante per l’intero Paese;
– la circostanza che la vittima già qualche tempo prima di morire aveva intuito che la propria vita era in pericolo, ed aveva conseguentemente mutato il proprio stile di vita ed i rapporti con i familiari;
– la circostanza che uno dei congiunti della vittima, già prima dell’evento luttuoso, soffrisse di una malattia psichica (anoressia).
A queste difficoltà per così dire “specifiche”, altre se ne aggiungevano di tipo “generico”: quelle, cioè, solitamente ricorrenti allorché si tratta di individuare in fatto, inquadrare in diritto e liquidare in moneta i pregiudizi scaturenti dalla morte di un prossimo congiunto.
Tali difficoltà riterrei che siano state sostanzialmente aggirate dalla sentenza qui in rassegna sul piano della motivazione (sia detto ben chiaro, non si intende ovviamente qui entrare nel merito della decisione), e ciò sotto due profili: la sentenza infatti sembra talora dare per scontate questioni tutt’altro che pacifiche, e talaltra problematizzare questioni apparentemente lineari.
Proverò ora a spiegare il perché, iniziando dalle questioni (che a me paiono essere state) pretermesse.
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2. La natura del fatto illecito ed il rilievo del dolo
Nella liquidazione del danno non patrimoniale da morte del prossimo congiunto, il primo e più importante parametro di cui tenere conto non può non essere la natura del fatto illecito. Come è stato commesso, da chi, per quali fini, con quale atteggiamento soggettivo (dolo o colpa). E ciò, si badi, non già perché il danno causato dal delitto doloso debba essere risarcito in misura maggiore rispetto al delitto colposo – come si dirà meglio tra breve – ma perché l’intensità del dolo od il grado della colpa sono in grado di arrecare maggiore o minore dolore alla vittima secondaria. Altro è infatti vedere scomparire la persona cara in conseguenza di un evento accidentale, sia pure causato dall’altrui leggerezza o negligenza, altro è apprendere che la morte della persona cara è stata voluta, pianificata ed eseguita con feroce determinazione da una organizzazione criminale. Il primo fatto è meno dannoso del secondo, giacché il danno morale dipende dall’intensità della sofferenza, e la sofferenza prodotta da un evento accidentale non può non essere minore di quella scaturente dalla consapevolezza che non il fato, ma altri uomini hanno deliberatamente voluto porre fine alla vota della persona amata.
Il secondo elemento da tenere in considerazione nella liquidazione del danno morale nel caso di specie mi pare sarebbe dovuto essere l’enorme rilievo mediatico, politico e sociale che la morte di Paolo Borsellino ha avuto. È notorio infatti che il tempo può attenuare la sofferenza causata dal lutto, ed in ogni caso consente di “organizzarla”: chi l’ha provata inizia a ricostruire la propria esistenza e cerca di abituarsi alla nuova situazione. Da ciò consegue che tanto maggiore sarà il persistere della sofferenza, quanto più a lungo e più intensamente viene alimentato il ricordo dell’evento luttuoso. Nel caso di specie la circostanza che ancora oggi, a distanza di 15 anni da quel tragico evento, si continui a parlarne ed anzi si voglia parlarne, e si commemorino ogni anno le vittime, a mio modo di vedere costituiva un elemento di capitale importanza per una adeguata liquidazione del danno, in quanto costringe i parenti dell’ucciso a rievocare periodicamente la sofferenza ed il lutto. Detto altrimenti, per i danneggiati nel caso di specie appare assai arduo ritenere che potranno, un giorno, “farsi una ragione” di quanto è accaduto, mentre per contro allo scoccare del 19 luglio di ogni si vedranno costretti a rivolgere a curiosi, giornalisti ed autorità il grido di Ugolino a Dante: «tu vuo’ch’i rinnovelli disperato dolor che «l cor mi preme »
Or bene, la sentenza qui in esame nel procedere alla aestimatio del danno morale ai congiunti della vittima ha liquidato a ciascuno di essi (quindi senza distinzione per età o grado di parentela) la somma di euro 300.000. Questo importo è pari al 22,77% in più della somma massima che il Tribunale, per sua stessa ammissione, avrebbe liquidato in un caso “ordinario” (e cioè euro 244.350).
Io non saprei dire se le particolarità del fatto illecito sopra ricordate fossero idonee a giustificare un aumento del 10, del 20 o del 100% della somma che si sarebbe altrimenti liquidata a titolo di risarcimento del danno morale ai congiunti. Quel che è certo è che quale che fosse stata la decisione adottata, la motivazione avrebbe dovuto dar conto dell’iter logico seguito, indicando a quali circostanze in fatto si è dato rilievo e perché.
Per contro la sentenza del tribunale siciliano omette del tutto qualsiasi cenno alla natura del fatto illecito, ed evidenzia una mancanza totale di indicazioni circa il percorso logico che ha condotto alla suddetta liquidazione. Questa prassi, peraltro non rara nelle decisioni di merito chiamate a liquidare il danno morale da lutto, dimostra due cose.
A livello teorico, essa dimostra come davvero la liquidazione dei danni non patrimoniali, se disgiunta da una certosina analisi della fattispecie finisce per ridursi ad una lotteria (2). Sollevate il giudice dall’onere di mettere in chiaro il ragionamento che ha fatto per pervenire a monetizzare la perdita di un affetto, ed avrete dato la stura a decisioni imperscrutabili, con la conseguenza che da un lato non saranno mai prevedibili, e dall’altro saranno sempre impugnabili, nella speranza di una nuova “lotteria” in sede di gravame. Nell’uno come nell’altro caso con un evidente effetto deterrente sulla eventuale propensione delle parti alla transazione stragiudiziaria.
A livello pratico, la prassi in esame rivela come il danno morale tenda talora a divenire di fatto una liquidazione quasi automatica, nella cui personalizzazione la giurisprudenza di merito si mostra riluttante ad adottare motivazioni particolarmente personalizzate od approfondite.
Certo, con l’attuale formulazione degli artt. 1226 e 2056 c.c. non è possibile fare molto sul piano della predeterminazione dei criteri di liquidazione e della prevedibilità delle decisioni giudiziarie. Non molto, ma qualcosa comunque è pur sempre possibile fare, come dimostra la recente iniziativa di taluni uffici giudiziari, consistita nell’avere provato a sperimentare un sistema “a punto” anche per la liquidazione del danno da morte (3).
Corretta per contro appare la scelta del tribunale di non aver tenuto in considerazione il fatto che l’illecito fosse stato di natura dolosa. Il dolo dell’offensore può rilevare sul piano del risarcimento se da esso sia possibile desumere una maggiore sofferenza della vittima secondaria, ma non ha rilievo di per se stesso.
Una scelta di questo tipo infatti finirebbe per attribuire al risarcimento del danno una valenza risarcitoria che non ha e non può, nell’attuale ordinamento, avere (4).
È in applicazione di questo principio, tra l’altro, che è stata affermata la irrilevanza della capacità patrimoniale dell’obbligato ai fini della aestimatio del danno non patrimoniale (5).
Ancorché prevalente, l’orientamento appena ricordato non è tuttavia unanime: infatti, chiamata a valutare la decisione con la quale un giudice di merito aveva contenuto entro valori modesti la liquidazione del danno morale, sul rilievo che il grado di colpa del responsabile era minimo, la Corte di cassazione confermò la decisione, osservando che «ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale l’accertamento della responsabilità esclusiva non è inconciliabile con la valutazione del grado di colpa, nel senso (inteso dall’art. 133 n. 3 c.p.) di gravità della stessa, e quindi, non preclude al giudice di determinare, anche in rapporto alla gravità della colpa, l’equivalente pecuniario di questa specie di danno » (6). Ed anche in altre decisioni il risarcimento del danno morale è stato espressamente qualificato una “sanzione civile” (7). Ma è nella giurisprudenza di merito che le aperture più o meno motivate verso i “danni punitivi” hanno trovato maggiori consensi, con l’aggravante – tipica di chi scimmiotta istituti stranieri senza averne ben compreso il significato – che mentre nei Paesi di Common law la liquidazione dei punitive damages è consentita solo per i casi gravi di danni causati con dolo o colpa grave, e lesivi di diritti fondamentali della persona, da noi si è invocato a sproposito l’istituto dei “danni punitivi” per pregiudizi patrimoniali od anche di lieve entità (8).
3. Una questione data per scontata: il c.d. “danno esistenziale”
La sentenza qui in rassegna afferma forse troppo sbrigativamente che esiste ed è risarcibile un danno definibile “esistenziale”. Lo spazio consentito dalla presente sede non permette purtroppo di riprendere le fila di una questione che si trascina ormai da circa dieci anni, e che si sarebbe dovuta liquidare in due battute: il c.d. “danno esistenziale” non è nulla di più, e nulla di meno, della sofferenza causata da una privazione, sofferenza che in presenza di reato ci ostiniamo a chiamare “danno morale”. Con quest’ultimo condivide natura, presupposti ed effetti, nonché – dopo l’intervento di Corte cost. 11 luglio 2003, n. 233 (9) – l’area di risarcibilità, in ambedue i casi non più limitata ai soli casi “previsti dalla legge” di cui all’art. 2059 c.c.. Di conseguenza, trattandosi di fattispecie simili, non solo non potrebbero dare vita ad un duplice risarcimento, ma della nuova e bislacca categoria nemmeno vi sarebbe (mai stato) bisogno, come bene dimostrato da un recente saggio di Giulio Ponzanelli (10).
La sentenza qui in rassegna aderisce invece all’orientamento che condivide la pensabilità della nuova categoria di danno, e nel far ciò si richiama al decisum di Cass., sez. un., 24 marzo 2006, n. 6572 (11). Tale richiamo non è tuttavia appagante, perché:
(a) la decisione appena ricordata non si era affatto chiamata ad occuparsi di “danno esistenziale”, e tutto quel che in essa si dice su tale figura è un enorme obiter dictum, come tale privo di diretta efficacia decisoria;
(b) l’ambito di applicabilità della medesima decisione è stato successivamente circoscritto dalla Corte di cassazione, la quale ha tenuto a precisare che quanto in essa affermato è valido solo con riferimento ai danni scaturenti dal rapporto di lavoro, nel quale la presenza dell’art. 2087 c.c. ed il riferimento ivi contenuto alla personalità “morale” del lavoratore consentono conclusioni diverse da quelle sostenibili nell’ambito della responsabilità aquiliana in genere (12).
A tali rilievi v’è solo da aggiungere che proprio la sentenza qui in rassegna dimostra la assoluta inutilità, ed anzi la dannosità, della sciancata categoria di danno qui in contestazione. Ed infatti:
(a) l’illecito integrava gli estremi di un reato, e dunque non v’era ostacolo alcuno alla risarcibilità del danno non patrimoniale;
(b) l’art. 2056 c.c. consentiva al giudice la liquidazione del danno sub (a) in qualsiasi misura, e dunque era del tutto inutile creare categorie di danno ad hoc. Più concretamente: nel caso di specie il tribunale ha liquidato alla vedova della vittima 300.000 euro a titolo di danno morale, e 305.000 euro a titolo di ristoro del danno c.d. esistenziale. Bene, cosa gli avrebbe impedito di liquidare 605.000 euro a titolo di “danno non patrimoniale”, come recita la rubrica dell’art. 2059 c.c.? Perché creare categorie concettuali di cui non v’è bisogno? Qual vantaggio ne trarrebbe la vittima? Nessuno: anzi ne trarrebbe il serio svantaggio rappresentato dal dovere allegare e provare “il mutamento della qualità della vita”, là dove il pregiudizio usualmente definito “morale” viene per lo più liquidato sulla base di presunzioni semplici ex art. 2727 c.c..
Ma anche a voler condividere per un attimo – per assurdo – la risarcibilità di quel malcreato che è il “danno esistenziale”, quel che della sentenza qui in rassegna più sconcerta – e fa sorgere serissime preoccupazioni, là dove questa bizzarra tesi dovesse prendere piede – è lo spessore della motivazione con la quale il danno in questione (mai definito) è stato accertato e liquidato. Leggiamola insieme, questa motivazione: «il danno esistenziale, di cui è stata data ampia prova nel corso del giudizio, come si è avuto già modo di dire, va differenziato secondo le caratteristiche di ogni persona. In particolare va tenuto conto della relazione, in virtù della quale i figli hanno diritto ad una somma maggiore per lo specifico dovere costituzionale dei genitori di provvedere alle loro esigenze, dell’età stessa dei figli, tutti maggiorenni al momento del fatto, anche se da poco tempo, infine delle particolari condizioni di salute di [uno dei figli] preesistenti all’evento. In base a tali coordinate il danno esistenziale della moglie deve stimarsi in euro 305.000, quello per [la figlia] in euro 479.000, quello per [il figlio] in euro 365.000, quello per [altro figlio] in euro 411.000 ».
Ora, pur col rispetto dovuto a qualsiasi decisione giurisdizionale, quella che precede è una motivazione solo apparente. In essa non si dice in che cosa sia consistito il pregiudizio che il giudice sta liquidando; perché lo si è ritenuto permanente; quale sia stato il criterio di individuazione della somma base; in che misura sia stata applicata la “maggiorazione”.
4. Il danno iure haereditario
Nel caso di specie, per quanto risulta dalla stessa sentenza, gli attori avevano domandato il ristoro iure haereditario di un duplice ordine di danni patiti dal proprio dante causa:
– sia il danno “da morte”, il cui diritto al risarcimento era sorto in capo alla vittima primaria al momento dell’exitus;
– sia il danno consistito nell’allontanamento della vittima dal proprio nucleo familiare, nel periodo precedente il delitto, in quanto presago del suo destino funesto dopo l’omicidio del collega ed amico Giovanni falcone.
La domanda di risarcimento del primo tipo di danno è stata correttamente rigettata, in sintonia con l’ormai consolidatissimi orientamento del giudice di legittimità secondo cui chi perde la vita per mano altrui non acquista, e quindi non trasferisce agli eredi, alcun diritto al risarcimento del danno rappresentato da tale perdita (13). Resta salva ovviamente l’ipotesi in cui la morte della vittima di lesioni non sia immediata, ma sopraggiunga dopo un certo periodo di tempo (c.d. sopravvivenza quodam tempore).
In questo caso, infatti, secondo il giudice di legittimità la vittima subisce una effettiva lesione della salute, giuridicamente rilevante, nell’arco di tempo che va dall’infortunio alla morte. Il diritto al risarcimento di tale lesione, di conseguenza, viene acquisito dalla vittima e trasmesso agli eredi, poiché questo caso il leso è ben in grado di avvertire la “perdita” (biologica) subita, e quindi patisce un danno biologico risarcibile (14).
La domanda di risarcimento del secondo tipo di danno acquisito iure haereditario è stata del pari rigettata, sul presupposto che il pregiudizio patito dalla vittima per l’allontanamento dal nucleo familiare non fosse scindibile da quello patito dai suoi familiari per la stessa ragione, e liquidato separatamente: dunque se fosse stato liquidato anche il primo di tali pregiudizi vi sarebbe stata una duplicazione.
Anche da tale motivazione mi permetterei garbatamente di dissentire, per due ragioni.
Il forzoso distacco di una persona dal suo nucleo familiare, in conseguenza del fatto illecito altrui, costituisce un pregiudizio tanto per chi si allontana, quanto per chi resta. In tema di danni non patrimoniali, qualsiasi pregiudizio sussiste tante volte quante sono le persone che lo patiscono, a nulla rilevando l’unicità della causa. Così ad esempio, si è ammessa da tempo la risarcibilità del danno morale patito dai prossimi congiunti della vittima di lesioni personali, a nulla rilevando che sia quest’ultima a patire per prima e (verosimilmente) in misura maggiore (15). La tesi del tribunale, secondo cui non si potrebbe «disarticolare il danno alla relazione nella parte relativa al danno di un membro della [famiglia] (che si trasmette iure haereditario) e il danno relativo agli altri membri ». Qui in realtà non c’è nulla da disarticolare, perché due sono i pregiudizi, due le persone che li patiscono, e due i diritti di credito scaturenti ex art. 1173 c.c. da tali pregiudizi. Per avvedersi di ciò basterà un semplice esempio: si immagini che in conseguenza di un sinistro stradale due fratelli subiscano gravissime lesioni personali, che comportano la perdita per ambedue della possibilità di frequentare l’altro, parlare con lui ed assisterlo. Non v’è dubbio che ciascuno di essi patirà un danno non patrimoniale rappresentato dalla soppressione pressoché totale di una relazione affettiva fondata sull’amore fraterno. Ciascuno di essi, detto altrimenti, soffre per non avere l’altro accanto a sé. Potrebbero questi due fratelli convenire in giudizio separatamente il responsabile e chiederne la condanna al risarcimento dei danni rispettivamente patiti? Non ve ne può essere dubbio. Or bene, si immagini che uno di questi due fratelli venga a mancare prima di avere iniziato la lite, e che l’altro ne sia l’unico erede. A seguire la tesi della sentenza qui in rassegna, si perverrebbe alla assurda conclusione che i danni sopra descritti darebbero luogo a due risarcimenti se la pretesa è azionata prima della morte di uno dei creditori, e ad uno solo la medesima pretesa è azionata dopo la confusione dei patrimoni dei danneggiati avvenuta iure successionis. Ma trattandosi di conclusione assurda, essa palesa la assurdità della premessa sulla quale si fonda.
Sul danno in questione sia consentita infine un’ultima considerazione: si legge nello “svolgimento del processo” che gli attori avevano domandato la condanna dei convenuti al risarcimento dei danni patiti in conseguenza “dell’uccisione del proprio congiunto”. Ebbene, il danno rappresentato dall’allontanamento del magistrato dalla famiglia nell’ultimo periodo della sua vita non è un danno conseguenza all’omicidio, per la semplice ragione che fu ad esso anteriore. Dunque, prima di stabilire se tale danno sussistesse o meno, fosse risarcibile, o meno, si fosse trasferito iure haereditario o meno, si sarebbe dovuto stabilire se la relativa domanda era ammissibile o meno, e cioè tempestivamente formulata, e soprattutto correttamente rivolta nei confronti dei convenuti, posto che il fatto illecito (l’allontanamento del magistrato dalla famiglia) era stato causato da un fatto illecito (l’omicidio di Giovanni Falcone) i cui responsabili coincidevano solo parzialmente con gli autori dell’omicidio di Paolo Borsellino.
5. La preesistenza di un danno biologico in capo alla vittima secondaria
Come accennato, ulteriore peculiarità del caso di specie era la preesistenza, in capo ad una delle vittime secondarie, di una sindrome di tipo psichico (anoressia). Il tribunale, muovendo da tale preesistenza, ha negato alla persona in questione il risarcimento del danno alla salute, ma ha tenuto conto della “maggior sofferenza” nella liquidazione del danno esistenziale.
Anche questa conclusione può destare qualche perplessità.
Il tribunale infatti ha ammesso che la figlia della vittima abbia provato una “maggiore sofferenza” in considerazione della propria pregressa condizione psicologica. Ora, mi sembra contraddittorio affermare da un lato che una preesistente malattia psichica abbia acuito i propri effetti in conseguenza del fatto illecito, e dall’altro che non esiste un danno biologico. Si sarebbe potuto, al limite, discutere sulla preesistenza o meno dell’aggravamento, ovvero della sua derivazione causale dal sinistro, ma una volta ammesso che l’aggravamento c’è e che esso è derivato dall’illecito non è consentito sottrarsi alla univoca conclusione della esistenza in corpore d’un peggioramento della complessiva integrità psicofisica dell’individuo, e cioè d’un danno biologico.
La preesistenza della malattia in questo caso avrebbe riverberato effetti sul piano della liquidazione (noto essendo che in caso di lesioni policrone concorrenti va applicato un coefficiente di minorazione nella determinazione del grado di invalidità), ma non poteva ritenersi sufficiente ad escludere il danno. Se Tizio è privo di un occhio, ed in conseguenza di un sinistro si abbassa il visus residuo dell’altro, nessuno oserebbe sostenere che tale pregiudizio rilevi solo sul piano del danno c.d. “morale”. Certamente la vittima patirà un danno di quest’ultimo tipo, ma l’aggravamento della salute comporta, prima ed a prescindere dal pregiudizio morale, un pregiudizio biologico.
6. Gli interessi e la rivalutazione
Piuttosto sorprendente ed atipico, infine, appare il criterio adottato dal tribunale per tenere conto del pregiudizio patito dal creditore in conseguenza del ritardato adempimento.
Ricordiamo brevemente quale sia, ad oggi, il diritto vivente su tale questione.
Il risarcimento del danno è una obbligazione di valore: ed alle obbligazioni di valore sono inapplicabili sia l’art. 1277 c.c., sia l’art. 1224 c.c., ai fini del computo del danno da ritardato adempimento (16).
Naturalmente, ciò non vuol dire che il ritardo nell’adempimento di un’obbligazione di valore sia senza conseguenze per il debitore, ma semplicemente che cambia il criterio di liquidazione del danno da ritardo.
Quando l’obbligazione ha natura di valore, la prima operazione da compiere è quella di trasformare in valore monetario attuale l’importo accertato con riferimento alla data dell’illecito (a meno che, ovviamente, non si ritenga di liquidare il danno direttamente in moneta attuale o, come si suole dire, “all’attualità”) (17).
Questa operazione avviene rivalutando la somma dovuta, cioè moltiplicando il credito relativo al momento in cui è sorta l’obbligazione per un coefficiente di rivalutazione (normalmente quello elaborato mensilmente dall’Istat, attualmente denominato “FOI”, acronimo che sta per “famiglie di operai ed impiegati”; tale indice è aggiornato mensilmente sul sito web dell’Istat (18).
Una volta attualizzato l’importo dovuto dal debitore moroso, tuttavia, non è detto che il creditore non abbia null’altro da pretendere. Infatti, qualora il debitore di un’obbligazione di valore ritardi l’adempimento, il creditore può subire un nocumento ulteriore rispetto a quello rappresentato dal deprezzamento della moneta. Il creditore infatti, non disponendo tempestivamente della somma dovutagli, perde la possibilità di effettuare investimenti e di ricavare così un lucro finanziario.
La liquidazione di questo tipo di danno aveva dato vita ad un acceso contrasto giurisprudenziale, oggi sanato dall’intervento delle Sezioni Unite, le quali hanno stabilito che:
(a) al creditore di un’obbligazione di valore spetta il risarcimento del danno ulteriore causato dal ritardo nell’adempimento;
(b) tale danno può essere liquidato in via equitativa e presuntiva, anche facendo ricorso al metodo degli interessi;
(c) gli interessi sub (b), tuttavia, non possono essere computati sulla somma rivalutata;
(d) il saggio degli interessi da applicare non deve necessariamente essere quello legale (19).
Successivamente all’intervento delle Sezioni Unite, i principi appena esposti sono divenuti jus receptum nella giurisprudenza di legittimità (20).
Per effetto di tale alluvionale giurisprudenza, è oggi divenuta ius receptum la massima secondo cui “la presunzione di danno da lucro cessante per ritardato pagamento nei debiti di valore è correlata esclusivamente all’impiego mediamente remunerativo del denaro, in ipotesi suscettibile di offrire una “utilitas” superiore, in termini percentuali, al tasso di rivalutazione. Il riconoscimento di interessi costituisce in tale ipotesi una mera modalità liquidatoria, cui è consentito al giudice di far ricorso col limite costituito dall’impossibilità di calcolare gli interessi sulle somme integralmente rivalutate dalla data dell’illecito. Non è invece inibito al giudice di riconoscere interessi anche al tasso legale su somme progressivamente rivalutate; ovvero, sempre sulla somma rivalutata e con decorrenza dalla data del fatto, ma con un tasso medio di interesse, in modo da tener conto che essi decorrono su una somma che inizialmente non era di quell’entità e che si è solo progressivamente adeguata a quel risultato finale (21).
Per liquidare il danno da ritardato adempimento di una obbligazione di valore, quale l’obbligo di pagare l’indennizzo nell’assicurazione contro i danni, occorre dunque:
(a) determinare la base di calcolo su cui computare gli “interessi”, base di calcolo che non può mai essere pari alla somma originaria rivalutata all’attualità, ma che deve essere pari al coacervo del credito originario via via rivalutato anno per anno, oppure in base ad un indice di rivalutazione medio (criterio equivalente è quello di applicare gli interessi sulla media tra l’importo rivalutato e l’importo originario);
(b) applicare sulla somma così determinata un saggio di interessi equitativamente scelto dal giudice, in funzione dell’entità e della vetustà del credito. Tale saggio può anche consistere nel rendimenti mediamente ricavabili dai depositi bancari, saggio che secondo la S.C. costituisce un “fatto notorio” ex art. 115 c.p.c., con la conseguenza che è onere del creditore, il quale intenda contestare la misura del danno da ritardato adempimento, dimostrare che nel caso specifico il pregiudizio patito è stato superiore alla misura comunemente riconosciuta dalle banche (22).
Nel caso di specie, invece, il tribunale ha seguito nella liquidazione del danno da ritardato adempimento criteri piuttosto diversi da quelli appena ricordati.
Con riferimento al danno morale, leggiamo in sentenza che dopo avere stimato tale danno in euro 300.000 per ogni attore, tale importo è stato elevato ad euro 450.000 «in via equitativa» al fine di tenere conto del «danno da ritardo (rivalutazione ed interessi legali sulla somma progressivamente rivalutata) ». Deve dunque desumersi che con la somma di euro 150.000 il tribunale abbia inteso sia attualizzare il credito risarcitorio, sia liquidare il danno da ritardato adempimento: altrimenti non si spiegherebbe il richiamo alla “rivalutazione” sopra trascritto. E tuttavia 300.000 euro del 1992 (il delitto Borsellino, come noto, avvenne il 19 luglio 1992), rivalutati in base al coefficiente FOI dell’Istat, ammontano a 444.415,76 euro attuali, e se a tale somma aggiungiamo gli interessi legali – come indicato in sentenza – sull’importo rivalutato per anno per anno otteniamo il risultato di euro 722.167,35, pari a quasi il doppio di quanto liquidato dal tribunale.
Potrebbe tuttavia anche ritenersi che con la non del tutto chiara formula sopra ricordata il tribunale abbia inteso dire che la somma di euro 300.000 fosse già rivalutata, e che quindi la somma di euro 150.000 abbia coperto il solo danno da ritardo, non la rivalutazione. Anche in questo caso tuttavia il calcolo è approssimato per difetto in danno degli attori, posto che interessi calcolati al saggio legale su 300.000 euro attuali, previa devalutazione al 1992 e rivalutazione anno per anno, ammontano ad euro 188.152,47, e dunque il credito totale sarebbe stato di euro 488.152,47 per ciascun attore (dunque gli eredi Borsellino hanno ottenuto circa 40.000 euro in meno pro capite rispetto a quanto sarebbe loro spettato se il tribunale avesse effettuato i calcoli ad nummum).
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(1) Si veda il caso deciso da Trib. Palermo 25 giugno 2001, in Foro it., 2001, I, 3198, avente ad oggetto il risarcimento del danno patito dai congiunti di Manuela Setti Carraro, moglie del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, anch’egli come tanti – troppi – freddato dal piombo mafioso nelle strade di Palermo.
(2) Secondo la felice espressione di Atiyah, The damages lottery, Oxford, 1997, 156 e ss., nonché la Parte VI, passim.
(3) Trib. Roma 8 gennaio 2008, Sorbi c. Assitalia, inedita. Si veda al riguardo altresì Paone e Rossetti, Tabelle di riferimento del tribunale di Roma per la liquidazione del danno biologico da lesione, del danno morale e del danno da morte, Roma, 2008, 91 e ss.
(4) Così, di recente, Cass., sez. III, 19 gennaio 2007, n. 1183, in Foro it., 2007, I, 1460, la quale ha negato la delibabilità in Italia di sentenza straniera che abbia liquidato danni “punitivi”, per contrarietà all’ordine pubblico.
(5) Cass. 14 ottobre 1997, n. 10024, in Arch. circolaz., 1998, 149; Cass., sez. III, 14 febbraio 2000, n. 1633, in Riv. giur. circolaz. e trasp., 2000, 927; per la giurisprudenza di merito, nello stesso senso, Trib. Napoli 22 marzo 1996, in Dir. inform., 1996, 583; Trib. Milano 6 maggio 1985, ibidem, 1985, 670; tutti e due i casi avevano ad oggetto il risarcimento del danno da lesione dell’onore e della reputazione.
(6) Cass. 29 novembre 1999, n. 13336, in Riv. giur. circolaz. trasp., 2000, 314.
(7) Cass. 20 novembre 1998, n. 11741, in Foro it., Rep. 1998, Danni civili, 142.
(8) Si vedano al riguardo Trib. Torre Annunziata 24 febbraio 2000, in questa Rivista, 2000, 1121; Trib. Torre Annunziata 14 marzo 2000, in questa Rivista, 2000, 1123; Trib. Roma 24 novembre 1992, in Dir. inform., 1993, 403; sui danni punitivi sia consentito il rinvio a Rossetti, Parce sepulto, ovvero come porre fine all’industria del lutto, in Assicurazioni, 2007, II, 2, 74.
(9) In Foro it., 2003, I, 2201.
(10) (A cura di), Il risarcimento integrale senza il danno esistenziale, Padova, 2007, passim.
(11) In Foro it., 2006, I, 1344.
(12) Cass., sez. III, 9 novembre 2006, n. 23918, in Foro it., 2007, I, 71.
(13) Ex multis, Cass. 23 febbraio 2004, n. 3549, in Dir. e giust., 2004, fasc. 21, 35; Cass. 16 maggio 2003, n. 7632, in Dir. e giust., 2003, fasc. 23, 66.
(14) Cass. 28 aprile 2006, n. 9959;Cass. 10 agosto 2004, n. 15408;Cass. 27 dicembre 1994, n. 11169, in Foro it., 1995, I, 1852; Cass. 10 febbraio 1999, n. 1131;Cass. 10 settembre 1998, n. 8970, in Riv. giur. circ. e trasp., 1998, 951; Cass. 24 aprile 1997, n. 3592, in Arch. circolaz., 1997, 899; Cass. 29 maggio 1996, n. 4991, in Foro it., 1996, I, 3107; in Arch. circolaz., 1996, 726; in Giust. civ., 1996, I, 2889; Cass. 29 settembre 1995, n. 10271, in Arch. circolaz., 1996, 292.
(15) Ex multis, da ultimo, Cass., sez. III, 3 ottobre 2005, n. 19316, in Arch. circolaz., 2006, 624.
(16) Ex plurimis, Cass. 12 giugno 1998, n. 5908, in Foro it., Rep. 1998, Danni civili, 335; Cass. 26 novembre 1997, n. 11857, in Foro it., Rep. 1997, Danni civili, 304; Cass. 7 dicembre 1994, n. 10493, FP, 1995, I, 161; Cass. 19 luglio 1982, n. 4214, in Giust. civ., 1983, I, 531; Cass. 11 aprile 1981, n. 2164, in Foro it., Rep. 1981, Danni civili, 130.
(17) Cfr. Cass. 8 aprile 2003, n. 5503.
(18) L’indirizzo è: www.istat.it/prezzi/precon/rivalutazioni/coefficienti.html.
(19) Per tutti e quattro questi princìpi, si veda Cass. 17 febbraio 1995, n. 1712, in Corr. giur., 1995, 462.
(20) Cass. 25 agosto 2006, n. 18490;Cass. 10 marzo 2006, n. 5234;Cass. 26 febbraio 2004, n. 3871;Cass. 8 aprile 2003, n. 5503;Cass. 26 aprile 1999, n. 4156, in Resp. civ., 1999, 1274;Cass. 18 febbraio 1999, n. 1372, inedita; Cass. 20 gennaio 1999, n. 490, in Foro it., Rep. 1999, Danni civili, n. 331; Cass. 20 gennaio 1999, n. 489, inedita; Cass. 12 gennaio 1999, n. 256, in Foro it., Rep. 1999, Danni civili, n. 332; Cass. 22 dicembre 1998, n. 12788, in Foro it., 1999, I, 1935; Cass. 28 novembre 1998, n. 12089, in Arch. circolaz., 1999, 208; Cass. 23 novembre 1998, n. 11860, inedita; Cass. 24 luglio 1998, n. 7298, in Assicurazioni, 1998, II, 2, 150.
(21) Cass. civ., sez. I, 17 maggio 2005, n. 10354.
(22) Cass. 2 agosto 2005, n. 16132;ma si veda anche Cass. 21 aprile 2006, n. 9410, ove si afferma sia pure obiter dictum che il danno da ritardato adempimento «deve essere provato dal creditore ».