Marco Rossetti, Responsabilità del pedone e responsabilità della P.A., in Corriere Merito, 2005, 4, p. 399
Trib. Fasano, 02 dicembre 2004
Responsabilità del pedone e responsabilità della P.A.
Sommario: La responsabilità del custode ex art. 2043 c.c. Insidia o trabocchetto. – L’insidia stradale – Invocabilità dell’art. 2051 c.c. nei confronti della pubblica amministrazione – I caratteri dell’insidia – L’affidamento in appalto della manutenzione stradale – Onere della prova
Non è esagerato affermare che l’articolo 2051 c.c. è la disposizione, tra tutte quelle che prevedono ipotesi di responsabilità c.d. “aggravata”, che più ha dato filo da torcere agli interpreti, e più ha contribuito all’insorgere di contrasti giurisprudenziali. Di questa norma è controverso praticamente tutto: quale sia la natura della responsabilità (se presunta od oggettiva); chi sia il “custode” cui fa riferimento la disposizione; quando un danno possa dirsi arrecato “dalla cosa”. Ed è, altresì, opportuno premettere che l’esame delle sole massime non aiuta a ricostruire gli orientamenti giurisprudenziali, perché massime identiche – spesso tralatizie – celano talora soluzioni diametralmente opposte per fattispecie analoghe. Nei paragrafi che seguono, tralasciando i problemi puramente teorici, si proverà a dare conto dei principali problemi che sorgono dal punto di vista pratico nelle controversie in cui si invoca una responsabilità ex articolo 2051 c.c.
Nell’interpretare l’articolo 2051 c.c., la Corte di Cassazione per lungo tempo si è posta in contrasto con la dottrina, ritenendo che quella prevista dalla norma ora citata fosse non già un’ipotesi di responsabilità oggettiva, ma una ordinaria ipotesi di colpa presunta. Da questa impostazione teorica derivavano una serie di rilevanti conseguenze pratiche, e prima fra tutte l’esatta determinazione del contenuto della prova liberatoria gravante sul custode. Infatti, ove si ritenesse che l’articolo 2051 c.c. ponga a carico di quest’ultimo una presunzione di colpa, al custode per andare esente da responsabilità basterà dimostrare non già l’esistenza del caso fortuito, ma, più semplicemente, di avere diligentemente vigilato o custodito la cosa
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In seguito, a partire gli anni ’90, la Corte di Cassazione ha aderito alle posizioni della dottrina più recente (Franzoni, Dei fatti illeciti, in Comm. Scialoia-Branca, Bologna-Roma 1993, 545; Monateri, La responsabilità civile, Torino 1998, 1033), affermando che quella prevista dall’articolo 2051 c.c. non è un’ipotesi di colpa presunta, ma una vera e propria fattispecie di responsabilità oggettiva. Da ciò, la conseguenza che al custode, per andare esente da responsabilità, non è più sufficiente dimostrare la propria assenza di colpa, ma è necessario dimostrare la concreta esistenza del caso fortuito, che peraltro può consistere anche nel fatto del terzo o nel fatto della stessa vittima. Quest’ultima ipotesi ricorre, in particolare, quando il danno sia derivato da una utilizzazione impropria la cui pericolosità sia evidente ed immediatamente apprezzabile da chiunque, e dunque tale da renderla del tutto imprevedibile per il custode (Cass. 15 ottobre 2004 n. 20324). Non costituisce, invece, caso fortuito il difetto di fabbricazione della cosa che ha prodotto il danno (Cass. 20 agosto 2003 n. 12219).
La “oggettivizzazione” della responsabilità ex art. 2051 c.c. venne affermata per la prima volta da Cass., Sez. Un., 11 novembre 1991, n. 12019;ma la vera “svolta” in tal senso, tuttavia, è stata quella rappresentata dal decisum di Cass., sez. III, 20 maggio 1998, n. 5031, in Danno e resp., 1998, 1101, con nota di Laghezza (in seguito, nello stesso senso, si vedano ancheCass. 6 aprile 2004, n. 6753;Cass. 15 marzo 2004, n. 5236;Cass. 4 febbraio 2004, n. 2062;Cass., sez. III, 17 gennaio 2001, n. 584, in Danno e resp., 2001, 722, con nota di Breda, nonché in Resp. civ., 2001, 898, con nota di Ronchi; la tesi della responsabilità oggettiva, per la giurisprudenza di merito, in precedenza, era stata già affermata da Trib. Venezia 10 dicembre 1996, in Danno e resp., 1997, 497).
Con questa sentenza, la S.C. ha svolto una specie di “trattatello” sulla responsabilità da cose in custodia, ed ha espressamente aderito alla tesi della responsabilità oggettiva. Da ciò, la conseguenza che custode convenuto nel giudizio di risarcimento, per andare esente da responsabilità, dovrà fornire non già non già la prova negativa della propria assenza di cui (circostanza irrilevante, in quanto la responsabilità e imputata a titolo un gettito), bensì la prova positiva che il danno è derivato da caso fortuito o da forza maggiore.
Con la stessa sentenza, inoltre, la S.C. ha precisato quale sia l’ambito di applicazione dell’articolo 2051 c.c., e cioè quando un danno possa ritenersi arrecato “dalla cosa”, piuttosto che “con la cosa” (su tale questione si veda il paragrafo seguente).
Il nuovo orientamento introdotto da Cass. 5031/1998, cit., può essere riassunto nel seguente schema:
I principi affermati da Cass. 5031/1998 | |
(A) | L’art. 2051 c.c. prevede una ipotesi di responsabilità oggettiva, il |
Fondamento della responsabilità | cui unico presupposto è l’esistenza di un rapporto di custodia; del tutto irrilevante, per contro, è accertare se il custode sia stato o meno diligente nell’esercizio della vigilanza sulla cosa |
(B) | Quando sia applicabile l’art. 2051 c.c., il danneggiato ha il solo |
Onere della prova | onere di provare l’esistenza di un valido nesso causale tra la cosa ed il danno, mentre il custode ha l’onere di provare che il danno non è stato causato dalla cosa, ma dal caso fortuito, ivi compreso il fatto dello stesso danneggiato o del terzo |
(C) | L’art. 2051 c,c, trova applicazione in tutti i casi in cui il danno è |
Ambito di applicazione | stato arrecato dalla cosa, direttamente o indirettamente. Non è applicabile quando la cosa ha avuto un ruolo meramente passivo nella produzione del danno. |
La responsabilità del custode ex art. 2043 c.c. Insidia o trabocchetto.
Se la cosa ha avuto un ruolo meramente passivo nella determinazione del danno, ciò non basta ad escludere qualsiasi responsabilità del custode. Esclusa, infatti, in questo caso l’applicabilità dell’art. 2051 c.c., il custode può comunque essere chiamato a rispondere del danno ai sensi dell’art. 2043 c.c. Ciò può accadere, in particolare, quando il custode abbia, colposamente o dolosamente, creato una situazione di “insidia” o “trabocchetto”: abbia, cioè, dato ai luoghi in suo potere una conformazione oggettivamente pericolosa, e soggettivamente non percepibile.
Oggettività del pericolo ed impercettilbità dello stesso costituiscono i due elementi essenziali della nozione di insidia, che debbono essere necessariamente compresenti perché insorga una responsabilità del custode ai sensi dell’art. 2043 c.c.
È dunque evidente che all’accertamento dell’esistenza d’una insidia o trabocchetto può procedersi soltanto allorché sia inapplicabile la presunzione di cui all’art. 2051 c.c. Il giudice di merito, pertanto, deve nell’ordine compiere le seguenti valutazioni:
(a) accertare la sussistenza dei presupposti per l’applicabilità dell’art. 2051 c.c. escludendo tra questi il carattere insidioso della cosa in custodia;
(b) accertare se la cosa ha determinato il danno vuoi per dinamismo proprio, vuoi per l’insorgere in essa di un processo obiettivo di produzione dell’evento dannoso, eccitando lo sviluppo di un agente, di un elemento o di un carattere sì da conferire alla cosa l’idoneità al nocumento;
(c) in caso positivo, accertare se il custode abbia fornito la prova liberatoria a suo carico, dimostrando che il danno è derivato esclusivamente dal caso fortuito nel senso già delineato;
(d) nell’eventualità della mancanza dei presupposti per l’applicabilità dell’art. 2051, e solo in tal caso, accertare la ricorrenza di una responsabilità del custode ex art. 2043 c.c., con il conseguente onere della prova della colpa del presunto autore del danno a carico del danneggiato anche in funzione della pretesa insidiosità della situazione dei luoghi, che il gestore aveva il dovere di mantenere in regime di sicurezza (per questo vademecum, si veda la motivazione di Cass. 8 aprile 1997 n. 3041).
L’insidia stradale
Allorché il danno sia arrecato dalle imperfette condizioni di una strada, o comunque di un luogo aperto al pubblico transito, si pongono di norma all’interprete tre ordini di problemi:
(a) se la presunzione di cui all’art. 2051 c.c. sia applicabile nei confronti della P.A.;
(b) quali siano le caratteristiche che debbono ricorrere perché si abbia una “insidia” stradale, con conseguente responsabilità della P.A. ex art. 2043 c.c.;
(c) chi risponda del danno nel caso in cui l’insidia sia stata creata (ovvero non sia stata tempestivamente rimossa) dall’impresa cui l’ente proprietario aveva appaltato la manutenzione o la ristrutturazione della strada.
Invocabilità dell’art. 2051 c.c. nei confronti della pubblica amministrazione
Nel caso in cui il danno sia derivato dal difetto di custodia di un bene di grandi estensioni (strade, autostrade, spiagge, ecc.), la giurisprudenza assolutamente prevalente, ritiene inapplicabile l’art. 2051 c.c.: in questo senso, Corte costit. [ord.], 6 marzo 1995, n. 82; Cass., sez. III, 4 dicembre 1998, n. 12314;per la giurisprudenza di merito, nello stesso senso, Trib. Roma, 23 marzo 2000, in Giur. r., 2000, 282, ed ivi la nota di ulteriori, ampi riferimenti; Trib. Cassino, 6 agosto 1997, in Giur. r., 1997, 425 (con riferimento all’ipotesi della caduta di un pedone inciampato su un marciapiede); Pret. Roma, 9 dicembre 1996, in Giur. r., 1997, 102 (con riferimento alla caduta di frutti da alberi comunali); Trib. Verona, 26 gennaio 1994, in Foro it., 1995, I, 692 (nella fattispecie decisa da quest’ultima decisione, peraltro, il danneggiato non era stato colpito da un albero o ramo caduto, ma era stato lui stesso ad urtare un albero già caduto al suolo).
Secondo questo orientamento, il danneggiato non potrebbe invocare nei confronti della P.A. la presunzione di responsabilità di cui all’art. 2051 c.c., in quanto tale presunzione presuppone pur sempre la possibilità, per il custode, di poter esercitare in fatto un controllo della cosa oggetto della custodia. Nel caso di beni di grande estensione, invece (come appunto le strade) le loro caratteristiche sono tali da precludere all’amministrazione un controllo completo e continuo, il che non consente una custodia in senso stretto.
L’inapplicabilità dell’articolo 2051 c.c. nei confronti della pubblica amministrazione non è, peraltro, assoluta: l’art. 2051 cod. civ. non troverà infatti applicazione nei confronti della P.A. soltanto allorché sussista l’oggettiva impossibilità di un esercizio del potere di controllo dell’ente sulla strada in custodia, in dipendenza del suo uso generale da parte dei terzi e dellanotevole estensione del bene (Cass. 23 luglio 2003, n. 11446).
Nella giurisprudenza di merito, tuttavia, è dato registrare anche un dissenziente e minoritario orientamento, il quale ha ritenuto applicabile l’art. 2051 c.c. al comune per i danni causati dalla caduta di rami di alberi (Trib. Roma, 22 settembre 1998, in Giur. r., 1999, 398).
Di recente, tuttavia, la S.C. ha mutato indirizzo, ammettendo l’applicabilità dell’art. 2051 c.c. anche al gestore autostradale. La corte, ribadito il tradizionale principio secondo cui la presunzione di cui all’articolo 2051 c.c. non può trovare applicazione con riferimento a beni di estensione tale da non consentire un’efficace e capillare controllo, ha tuttavia aggiunto che la possibilità o l’impossibilità di tale controllo “non si atteggia univocamente in relazione ad ogni tipo di strada”. Essa, infatti, dipende non solo dalla estensione della strada, ma anche dalle sue caratteristiche, dalle sue dotazioni, dai sistemi di assistenza che le connotano, dagli strumenti “che il progresso tecnologico volta a volta appresta e che, in larga misura, condizionano anche le aspettative della generalità degli utenti”. E sulla base di questi parametri, la corte ha concluso che per la autostrade, “per loro natura destinate alla percorrenza veloce in condizioni di sicurezza, l’apprezzamento relativo alla effettiva “possibilità” del controllo alla stregua degli indicati parametri non può che indurre a conclusioni in via generale affermative, e dunque a ravvisare la configurabilità di un rapporto di custodia per gli affetti di cui all’art. 2051 c.c.” (Cass. 13 gennaio 2003, n. 298;nello stesso senso, peraltro, si veda già Trib. Roma, 3 dicembre 1997, in Giur. r., 1998, 279).
Si richiama tuttavia l’attenzione del lettore su un importante distinguo operato dalla suprema corte nella sentenza viene ricordata, che emerge dalla lettura della motivazione e non è rifluito nella massima ufficiale.
Ai fini dell’applicabilità dell’articolo 2051 c.c. nei confronti della pubblica amministrazione, con riferimento ai danni derivanti da “trabocchetti” stradali, occorre distinguere due diversi tipi di insidia:
(a) le situazioni di pericolo “immanentemente connesso alla struttura o alle pertinenze dell’autostrada” (ad es., irregolarità del manto stradale, insufficienza delle protezioni laterali, segnaletica insidiosa o contraddittoria);
(b) le situazioni di pericolo “provocato dagli stessi utenti ovvero da una repentina e non specificamente prevedibile alterazione dello stato della cosa, che pongano a repentaglio l’incolumità degli utenti e l’integrità del loro patrimonio” (ad esempio, perdita di oggetti da parte di veicoli in transito, formazione di ghiaccio sul manto stradale, perdita di sostanze oleose da parte di veicoli in transito).
Mentre ricorrendo la prima ipotesi, all’articolo 2051 c.c. sarà sempre applicabile, nella seconda ipotesi la responsabilità del gestore autostradale sarà disciplinata dall’art. 2043 c.c., con la conseguenza che la vittima dell’insidia avrà l’onere di provare – secondo i criteri generali già esposti – la imprevedibilità e la inevitabilità del pericolo (ma sull’onere della prova si veda anche infra, paragrafo 6).
I caratteri dell’insidia
Come già accennato, ricorre una situazione di insidia, vero “pericolo occulto”, allorché lo stato dei luoghi sia oggettivamente pericoloso e soggettivamente non prevedibile (Cass. 18 settembre 1986, n. 5677;Cass. 30 ottobre 1980, n. 5856).
L’obbligo di attivarsi per far sì che la strada aperta al pubblico transito non presenti per gli utenti insidie o trabocchetti incombe sull’ente proprietario della strada (Cass., sez. III, 24 gennaio 1995, n. 809;Trib. Padova, 5 dicembre 1984, in Giur. merito, 1985, 431; Trib. Bergamo, 29 settembre 1984, in Arch. circolaz., 1985, 912; Pret. Catania, 13 gennaio 1989, inArch. circolaz., 1989, 413; Pret. Eboli, 11 dicembre 1989, ivi, 1990, 235; Pret. Salerno, 5 marzo 1990, in Arch. circolaz., 1991, 599; Trib. Lanciano, 23 novembre 1990, in Rass. giur. energia elettrica, 1992, 104; Trib. Arezzo, 24 luglio 1991, in Arch. circolaz., 1992, 569; Pret. Ancona, 23 dicembre 1991, ivi, 1992, 569; Pret. Macerata, 28 maggio 1992, ivi, 1993, 344; App. Perugia, 14 febbraio 1995, in Rass. giur. umbra, 1995, 353).
L’esame delle decisioni qui da ultimo indicate mostra come la giurisprudenza di norma ritiene sussistente l’ “insidia” non solo nel caso in cui il fondo stradale sia scivoloso o sdrucciolevole, ma in molti altri casi, quali ad es.:
– guard rail interrotto;
– semaforo malfunzionante, il quale emetta contemporaneamente luce verde in due opposte direzioni;
– fondo stradale sconnesso;
– banchine laterali danneggiate (mentre è stato ritenuto estraneo alla sede stradale e quindi agli obblighi di manutenzione e segnalazione il ciglio erboso eventualmente esistente al di là della banchina, con la conseguenza che l’ente proprietario della strada non risponde ai danni derivati a colui che imprudentemente lo abbia invaso: così Cass., sez. III, 16 aprile 1993, n. 4533).
Se costante, in giurisprudenza, è l’affermazione secondo cui l’ente proprietario della strada risponde del danno subìto dall’automobilista per difetto di manutenzione della strada stessa, è altrettanto costante l’affermazione secondo cui la responsabilità dell’ente proprietario resta esclusa ove l’automobilista (o comunque l’utente della strada) avesse potuto agevolmente prevedere od avvistare l’insidia con l’uso della normale diligenza. Diversamente, infatti, la condotta negligente del danneggiato si pone quale causa unica dell’evento dannoso, recidendo il legame causale tra omissione di manutenzione e danno (Cass., sez. III, 11 agosto 1995, n. 8823;Trib. Torre Annunziata, 11 febbraio 1997, in Riv. giur. circolaz. trasp., 1997, fasc. 6; Trib. Roma, 12 marzo 1996, in Giur. r., 1997, 28; Trib. Spoleto, 11 aprile 1994, in Rass. giur. umbra, 1994, 692; Pret. Terni, 25 luglio 1994, ivi, 1994, 693; Trib. Spoleto, 3 settembre 1993, in Arch. circolaz., 1994, 520).
Tuttavia è onere dell’ente che abbia la gestione della strada dimostrare che, nonostante l’obiettiva esistenza dell’insidia, l’utente fosse soggettivamente in grado di prevederla o evitarla (Cass. 28 gennaio 2004 n. 1571).
L’affidamento in appalto della manutenzione stradale
Secondo la S.C., nel caso in cui l’esecuzione di lavori stradali, in appalto o su concessione dell’ente proprietario della strada, abbia comportato insidia o trabocchetto causativi di sinistro, è configurabile la concorrente responsabilità tanto dell’appaltatore, in relazione al suo obbligo di custodire il cantiere, di apporre e mantenere efficiente la segnaletica, nonché di adottare tutte le cautele prescritte dal codice della strada, quanto dell’ente proprietario della strada, in relazione al suo dovere di vigilare sull’esecuzione delle opere date in concessione, ed altresì di emettere i provvedimenti necessari per la sicurezza del traffico (Cass., sez. III, 23 novembre 1998, n. 11855;Cass., sez. III, 25 settembre 1998, n. 9599;Cass. 25 settembre 1990, n. 9702;per la giurisprudenza di merito, Trib. Roma, 23 marzo 2000, in Giur. r.; Trib. Lanciano, 23 novembre 1990, in Rass. giur. energia elettrica, 1992, 104; Trib. Bergamo, 29 settembre 1984, in Arch. circolaz., 1985, 912).
Questo principio, tuttavia, sembra porsi in contrasto con quanto costantemente affermato dalla stessa Corte di Cassazione in tema di responsabilità del committente, e cioè che dei danni causati dall’appaltatore a terzi il committente non può mai essere chiamato a rispondere, a meno che il danno non sia derivato direttamente dall’esecuzione delle istruzioni impartite dal committente all’appaltatore (quando, cioè, quest’ultimo sia stato un nudus minister della volontà del primo: in questo senso, ex plurimis, Cass., sez. II, 26 luglio 1999, n. 8075;Cass., sez. III, 4 giugno 1999, n. 5455;Cass., sez. lav., 23 marzo 1999, n. 2745;Cass., sez. II, 12 febbraio 1997, n. 1284;Cass., sez. II, 19 aprile 1997, n. 3395;Cass., sez. III, 30 maggio 1996, n. 5007;Cass., sez. II, 19 gennaio 1995, n. 616;Cass. 11 aprile 1991, n. 3801).
Ovviamente, nell’ipotesi in esame occorre tenere distinti due ordini di rapporti: quello tra committente ed appaltatore, che ha natura contrattuale, e quello tra i primi due ed il terzo danneggiato, che ha natura aquiliana (Trib. Roma, 18 marzo 1997, in Giur. r., 1998, 91).
Di conseguenza, al terzo danneggiato non è sufficiente allegare un qualsivoglia inadempimento contrattuale dell’appaltatore per ottenerne la condanna, ma deve allegare una condotta di quest’ultimo (non importa se esecutiva o meno del contratto) che, violando il precetto del neminem laedere, gli abbia causato un danno ingiusto ex art. 2043 c.c. Questo concetto è ben sintetizzato da Trib. Roma, 23 marzo 2000, in Giur. r., là dove si afferma che “la responsabilità aquiliana sorge esclusivamente dalla violazione della fondamentale regola neminem laedere, operante erga omnes, non già dalla violazione degli obblighi contrattuali a taluno imposti. L’inadempimento contrattuale in cui l’appaltatore sia incorso nei confronti dell’appaltante, quindi, non giustifica mai l’azione aquiliana proveniente dal terzo, salvo che non si risolva in una condotta di per se stessa aquiliana”.
Deve tuttavia segnalarsi questa tesi non è condivisa da parte della dottrina, secondo cui, se la prestazione contrattuale comporta normalmente la partecipazione di terzi ai rischi di essa (come appunto nel caso di chi esegua lavori di manutenzione di una strada), sussiste a carico della parte contrattuale un “obbligo di protezione” in favore dei terzi, con la conseguenza che la violazione di tale obbligo do luogo “ad una pretesa risarcitoria che potrebbe essere fatta valere anche a titolo contrattuale” (Bianca, Diritto civile, III, 1987, 541, il quale adduce proprio l’esempio di chi, riparando un bene del creditore, arrechi un danno a terzi).
Il “diritto vivente” in tema di insidia stradale può dunque essere condensato nei seguenti princìpi:
(a) l’“insidia o trabocchetto” costituisce un pericolo oggettivamente esistente e soggettivamente imprevedibile, e perché sussista sono necessari ambedue i presupposti indicati (Cass., sez. III, 16 giugno 1998, n. 5989);
(b) nel caso di danni derivati da una insidia stradale la vittima non può invocare nei confronti dell’ente proprietario della strada la presunzione di cui all’articolo 2051 c.c.; a tale regola tuttavia si fa eccezione nei confronti del proprietario o gestore di una autostrada (Cass. 13 gennaio 2003, n. 298);
(c) nel caso di insidia rappresentata dalla presenza di sostanze o corpi estranei sul manto stradale o sul piano di calpestio, il danneggiato ha l’onere di provare che, per effetto del tempo trascorso tra l’insorgere dell’insidia ed il danno, il responsabile avrebbe avuto ogni agio di attivarsi per rimuovere l’insidia stessa (Trib. Roma, 23 marzo 2000, in Giur. r.).
Onere della prova
Come già accennato, la presunzione di cui all’articolo 2051 c.c. esonera la vittima dalla prova della colpa del responsabile, ma non la esonera dalla prova del nesso causale tra la cosa in custodia e di danno. Pertanto nel giudizio civile di risarcimento del danno prodotto da cosa in custodia l’onere della prova si distribuisce nel senso che l’attore deve provare il nesso materiale di causalità, mentre il convenuto deve provare che il danno è dipeso da caso fortuito (Cass., sez. III, 28 ottobre 1995, n. 11264, in Danno e resp., 1996, 74).
Più delicato è il problema del riparto dell’onere della prova nel caso di danni da insidia stradale. Su tale questione è dato riscontrare negli ultimi tempi una certa disparità di vedute in giuripsrudenza. L’orientamento tradizionale, infatti, addossava comunque alla P.A. le conseguenze dell’insidia (una volta, ovviamente, dimostratane l’effettiva esistenza), ove l’amministrazione non dimostrasse di non avere potuto, nonostante la massima diligenza, evitare la situazione di pericolo (a causa, della contiguità temporale tra insorgenza del pericolo e verificarsi del danno). Secondo questo orientamento, la pubblica amministrazione è sempre tenuta a far sì che il bene demaniale non presenti perl’utente una situazione di pericolo occulto che dia luogo al cosiddetto trabocchetto o insidia stradale; di conseguenza, ai fini dell’accertamento della responsabilità ex art. 2043 cod. civ. dell’amministrazione e dell’ente concessionario per i danni subiti dall’utente stradale, incombe su quest’ultimo l’onere di provare l’esistenzadell’insidia non visibile e non prevedibile, ma non anche il comportamento omissivo dell’ente concessionario per non avere tempestivamente rimosso osegnalato l’insidia pur avendone avuto notizia (Cass. 4 giugno 2004, n. 10654).
Più di recente, invece, in non poche decisioni si è osservato che, in tema di responsabilità aquiliana, spetta al danneggiato l’onere di provare la colpa dell’offensore: di conseguenza, spetta alla vittima dell’insidia dimostrare che la situazione di pericolo, insorta da tempo, era stata colpevolmente lasciata in situ, per negligenza della P.A. (Trib. Roma, 25 novembre 2002, L. c. Anas, inedita; Trib. Roma, 23 marzo 2000, in Giur. r., 2000, 282).
Questo secondo orientamento, in verità, appare preferibile. Infatti, perché possa essere ritenuta “colposa”, la condotta del responsabile deve collegarsi ad un evento dannoso non soltanto prevedibile, alla stregua di criteri di normalità media, ma anche evitabile mediante l’adozione della doverosa cura del bene. Sicché non è certamente esigibile dalla P.A. una condotta vòlta a presidiare giorno e notte ogni metro delle pubbliche strade, onde eliminare illico et immediate ogni pericolo che dovesse insorgere (rami caduti, buche causate dalla circolazione, spargimento di sostanze sdrucciolevoli). Di conseguenza, in linea di principio, non potrebbe essere posto a carico della p.a. il danno causato dall’insidia che, per essere insorta pochissimo tempo prima del sinistro, non poteva ragionevolmente essere eliminata dall’ente, neppure con l’uso della massima diligenza.