Alessio Scarcella, Regola del B.a.r.d. nel giudizio d’Appello e riforma «contra reum» della sentenza assolutoria, in Dir. Pen. e Processo, 2013, 2, p. 205
Cass. pen. Sez. VI, 26 ottobre 2011, n. 4996
Regola del B.a.r.d. nel giudizio d’Appello e riforma «contra reum» della sentenza assolutoria
Sommario: La regola del B.A.R.D. nel giudizio penale: evoluzione storico-normativa – La regola del B.A.R.D. nel giudizio penale: evoluzione giurisprudenziale – La regola del B.A.R.D. e l’ipotesi alternativa: possibile contrasto giurisprudenziale? – La regola del B.A.R.D. e l’appello: l’ipotesi alternativa dev’essere “anche” persuasiva
La regola del B.A.R.D. nel giudizio penale: evoluzione storico-normativa
Secondo una corrente di pensiero – che attraversa classici e moderni – gli esiti di colpevolezza del processo penale sono affetti da insanabile relatività, come tali meritevoli di tendenziale sfiducia e predisposti ad essere oggetto di critica e di revisione. Sfiducia che, secondo questa lettura, dipenderebbe dal quantum probatorio occorrente per una pronuncia di condanna, ovvero dalla previsione di criteri razionali deboli per la sua giustificazione. In particolare gli artt. 530, comma 2, c.p.p. (che stabilisce l’assoluzione «quando la prova è insufficiente o contraddittoria», facendo dunque intendere che basti una prova meramente sufficiente e non contraddittoria a condannare) e 546, lett. e) c.p.p. (da cui si evince che il giudice può condannare anche in presenza di prove contrarie ritenute inattendibili) starebbero a testimoniare l’ontologica fallibilità delle decisioni processuali, affidate al libero convincimento del giudice (art. 192 c.p.p.). In tempi più recenti un argine a tale rischio sarebbe stato posto dalla espansione della c.d. prova scientifica, che nella prassi, però, piuttosto che risolvere l’incertezza la alimenta, per il cattivo uso che ne viene fatto. Peraltro la prova scientifica è la tecnica dell’accertamento penale, mentre ad essere in discussione è il modello epistemologico. L’impostazione relativista sconta lo stesso equivoco da cui intende prendere le distanze: che la conoscenza delle azioni umane sia connotata dalla certezza. In tal senso il vigente codice di procedura penale smantella la finzione, delineando il percorso più accettabile per risolvere il dilemma della colpevolezza. Già sul finire del novecento la dottrina più attenta si richiamava all’ordinamento statunitense (dove, come è noto, taluni ordinamenti federati prevedono la pena di morte e, dunque, la parola fine al dilemma) (1). In quel sistema, da almeno due secoli, il giudizio sulla responsabilità penale è espresso in maniera assai efficace nella formula «colpevole oltre ogni ragionevole dubbio»; dunque, può essere ritenuto colpevole (e finanche subire la pena di morte) colui a carico del quale residuino dubbi, purché si tratti di dubbi non ragionevoli (2). Il dubbio, oltre ad essere insito in ogni procedura psicologica di decisione, è nel processo penale un quid di inevitabile ed anzi imposto: ogniqualvolta il decidente non partecipa al fatto che deve giudicare non potrà esibire certezza; tuttavia, se vi partecipasse, non potrebbe giudicarlo. Egli, proprio perché giudice, deve essere in una posizione di dubbio razionale. Tutto quello che occorre capire è, allora, quando il dubbio che accompagnerà o potrebbe accompagnare il giudice alla fine del processo sia non ragionevole. L’art. 5 della l. n. 46 del 2006 ha sostituito il comma 1 dell’art. 533 c.p.p., il quale oggi recita: «Il giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole del
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Sotto la prima angolazione, rapidamente superate le opinioni che pretendevano di fissarla in una scala da zero a dieci su livelli di probabilità algebrica, la giurisprudenza delle Corti inferiori ha ritenuto di poter fissare lo standard richiesto dal B.A.R.D. in una probabilità convenzionale prossima al 100%, ma la Corte Suprema ha respinto questo criterio, sulla base dei rilievi di un matematico, Laurence Tribe, in particolare di quello per cui il rischio di condanna di un innocente non può essere accettabile a nessun livello di quantificazione statistica (una percentuale apparentemente molto elevata di prova, come il 95%, implicherebbe che in un caso su venti venga condannato un innocente) (8). Sotto la seconda angolazione possono dirsi falliti i tentativi di identificare il concetto di “dubbio ragionevole” in quello di «grave», «serio», «sostanziale», tutte espressioni che alterano il significato razionale della formula, il cui senso è quello di dover prosciogliere l’imputato quando il giudizio sulla prova lasci aperta una plausibile alternativa alla tesi dell’accusa. La definizione comunemente accolta nel sistema U.S.A. è efficacemente descritta nel caso Simpson (che si rifà al paragrafo 1096 del Codice penale della California), laddove nelle istruzioni alla giuria si dice che «il ragionevole dubbio non è un mero dubbio possibile, perché qualsiasi cosa si riferisca agli affari umani è aperta a qualche dubbio possibile o immaginario. È quella situazione che, dopo tutte le considerazioni, dopo tutti i rapporti sulle prove, lascia la mente dei giurati nella condizione in cui non possono dire di provare una convinzione incrollabile sulla verità dell’accusa». Tuttavia, chi abbia l’ambizione di studiare il sistema penale anche alla luce del principio b.a.r.d. quale regola di implementazione delle categorie logico-scientifiche nel diritto sostanziale non può accontentarsi di tale definizione. Il problema sarà pertanto ripreso dopo aver delineato il cammino che il b.a.r.d. ha percorso nel nostro ordinamento. Tale principio, infatti, non è estraneo alla nostra tradizione giuridica. Carrara, massimo esponente della Scuola classica, si proponeva, attraverso una visione ideale, che la presunzione di innocenza fosse implicita nella scienza penale. La tesi di Carrara fu seguita da altri autori della Scuola classica, in particolare Lucchini (9), il quale richiama esplicitamente il principio in dubio pro reo come regola di giudizio. Il pensiero liberale venne preservato anche durante il periodo autoritario (10) e, con il passaggio alla Repubblica democratica, fu cristallizzato nell’enunciazione di cui all’art. 27, comma 2, Cost. («L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva») (11). C’è chi ha tratto dal testo – che fissa la presunzione di non colpevolezza – un segno di prudenza del Costituente nell’affermare il primato della libertà sulle esigenze della repressione, come sarebbe dimostrato dalla diversa locuzione impiegata nell’art. 6, comma 2, Conv. eur. dir. umani («Ogni persona accusata di un reato è presunta innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata»). La tesi non persuade, perché sul piano concettuale non colpevolezza equivale ad innocenza. Anzi, per il contesto in cui il principio si inserisce, che è quello dell’imputato sottoposto a giudizio, cioè ad un’accusa di reità rispetto alla quale deve essere stabilito se è colpevole o meno, la disposizione costituzionale appare più precisa. D’altra parte la stessa formula «oltre ogni ragionevole dubbio» è logicamente strutturata sulla colpevolezza, non già sull’innocenza. L’elaborazione dottrinale del principio di non colpevolezza inizia tardi, ma approda ben presto a coglierne non solo e non tanto la valenza di regola del trattamento della libertà dell’imputato, quanto quella di regola probatoria e di giudizio (12). A partire dall’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale in dottrina si consolida (13) l’idea che la presunzione di non colpevolezza si traduca nella regola secondo cui la responsabilità dell’imputato debba essere provata «al di là di ogni ragionevole dubbio», benché tale regola non sia esplicata nel codice. A tale momento storico appartiene la ratifica, avvenuta con la l. n. 232 del 1999, dello Statuto istitutivo della Corte penale internazionale, il cui art. 66, oltre a fissare la presunzione di innocenza e porre l’onere della prova a carico dell’accusa, stabilisce che «per condannare l’imputato la Corte deve accertarne la colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio» (14). Al B.A.R.D. non possono dirsi estranei neppure i principi sul giusto processo, pure enunciati nel predetto Statuto, in particolare all’art. 67, secondo cui l’imputato ha, fra l’altro, diritto a «non essere costretto a testimoniare contro se stesso o a confessare la propria colpevolezza, e a rimanere in silenzio, senza che il silenzio venga valutato nel determinare la colpevolezza o l’innocenza», nonché il diritto a «non subire l’imposizione dell’inversione dell’onere della prova o dell’onere della confutazione della prova». A tale riguardo ancora più significativi i dettami introdotti nell’art. 111 Cost. ad opera della l. cost. n. 2 del 1999, ed i corollari applicativi che la stessa disposizione esplicita, con particolare riferimento al principio del contraddittorio (15). La norma accredita l’equazione giustizia = verità, sia sul piano testuale (16), sia su quello sistematico (17). È proprio sul piano del rapporto con il concetto di verità che si coglie l’essenza del principio B.A.R.D., come regola di giudizio del sistema penale (18). Premesso che tale concetto è diversamente articolato con riferimento al diritto e al fatto, non appare sostenibile che il processo possa prescinderne, accontentandosi di quella che è denominata “verità formale” (19). La certezza del diritto, in specie quella del diritto penale, non è compatibile con una dimensione puramente estetica della verità, quale è la verosimiglianza, o con una visione meramente formale, quale è la conformità alle regole. Ciò che il processo ricerca non è la verosimiglianza, ma è la verità. Solo che tra il fatto e la sua conoscenza c’è sempre uno scarto. Il processo intende eliminare quello scarto, riducendolo alla pura differenza di nozione tra la realtà e la sua conoscenza (20).
La regola del B.A.R.D. nel giudizio penale: evoluzione giurisprudenziale
Già nel 2000 la Suprema Corte, nell’affrontare il tema della prova del nesso di causalità nei reati omissivi aveva sancito la regola in base a cui le leggi di copertura della relazione causale devono possedere un valore percentuale vicino a cento (21), rafforzando poi tale intendimento con l’affermazione che un margine di dubbio anche minimo, nella percentuale del dieci per cento, implica giocoforza l’assoluzione dell’imputato (22). Pietra miliare nella giurisprudenza di legittimità sul tema è, però, senza alcun dubbio, la celeberrima sentenza delle Sezioni Unite Franzese (23) secondo cui l’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza del nesso causale tra condotta ed evento (e cioè il ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante dell’omissione dell’agente rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo) comportano l’esito assolutorio del giudizio. Sempre secondo tale decisione, il giudice ha tuttavia la possibilità di accertare l’esistenza del rapporto di causalità anche in presenza di una legge scientifica a medio-bassa frequenza, quando le risultanze processuali consentono di affermare, mediante il ricorso al procedimento per esclusione, la colpevolezza “al di la di ogni ragionevole dubbio” (24).
Se questo è il retroterra giurisprudenziale (e culturale) su cui affonda le proprie radici la regola del B.A.R.D., si comprendono quindi le ragioni per le quali fossero maturati i tempi per la codificazione di tale principio nel nostro diritto positivo, codificazione avvenuta con la nota modifica dell’art. 533, comma 1, c.p.p. La norma, nella nuova formulazione successiva alla modifica normativa apportata dalla l. 20 febbraio 2006, n. 46, codifica infatti la regola dell’al di là di ogni ragionevole dubbio (beyond a reasonable doubt), favorevolmente valutata da parte della dottrina che qualifica la scelta del legislatore come un scelta di civiltà dell’ordinamento italiano (25), una sorta di “rivoluzione copernicana nell’accertamento del fatto” (26), in particolare ravvisando nella sua introduzione un quid pluris rispetto a quanto già nell’ordinamento, così apprezzandone gli elementi di novità (27). Contra, tuttavia, autorevole dottrina (28), che invece si esprime criticamente, parlando di “verità ovvia”, ritenendo enfatica la formula, non potendo essere codificabile il grado di probabilità sufficiente alla condanna né tanto meno riducibile ad entità numeriche, sottolineando altresì come sia velleitaria l’illusione di una regola legale che predetermini ogni passo dell’iter decisorio. Altri, invece, sostiene che compito estremamente arduo per l’interprete è quello di riempire di contenuti tale criterio, ossia definire con maggiore precisione lo standard probatorio coincidente con la probabilità “molto elevata” della colpevolezza dell’imputato: a renderlo tale, si precisa, è l’indeterminatezza del parametro normativo di riferimento (il carattere “ragionevole” o “irragionevole” dei dubbi coltivati dal giudice), talmente ambiguo ed evanescente da accreditare l’opinione che non esistano, di fatto, strumenti razionali in grado di decodificarlo (29). Detta regola fa da pendant alla presunzione di non colpevolezza, costituzionalmente sancita dall’art. 27, comma 2, Cost., con l’intento di circoscrivere l’intime conviction dell’organo giudicante (30).
La giurisprudenza successiva si è orientata in maniera sostanzialmente univoca sulla questione, affermando il principio secondo cui la modifica dell’art. 533 c.p.p., ad opera dell’art. 5, l. n. 46 del 2006, con la previsione che il giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio, ha carattere meramente descrittivo, più che sostanziale, dato che anche in precedenza il “ragionevole dubbio” sulla colpevolezza dell’imputato ne comportava il proscioglimento a norma dell’art. 530, comma 2, c.p.p. (31) Le prime pronunce della Corte sono, infatti, orientate nel senso di ritenere che con la previsione della regola di giudizio dell’oltre ogni ragionevole dubbio, il legislatore non avrebbe introdotto un diverso e più rigoroso criterio di valutazione della prova rispetto a quello precedentemente adottato dal codice, ma avrebbe semplicemente formalizzato un principio già acquisito dalla giurisprudenza, secondo cui la condanna è possibile soltanto quando vi sia la certezza processuale della responsabilità dell’imputato (32).
L’attenzione della giurisprudenza si è, poi, spostata sul versante della “nuova” metodologia valutativa imposta dalla novella del 2006. Ed invero, quanto all’oggetto della prova «al di là di ogni ragionevole dubbio», si è affermato che essa deve riguardare l’accertamento del fatto, delle eventuali circostanze e della responsabilità dell’imputato, realizzato attraverso il metodo popperiano della verificazione-falsificazione dell’ipotesi. Trattasi, ad ogni modo, di un parametro che necessita indubbiamente di un’attività interpretativa di specificazione, tesa all’adeguamento alle differenti fattispecie di natura sostanziale (33), che solo il diritto vivente può realizzare, consapevoli del carattere ambiguo e sfuggente di detta formula (34), ricorrendo (o comunque ispirandosi) ai frutti della consolidata esperienza applicativa della regola nel sistema processuale nordamericano, dove il parametro non viene utilizzato in maniera univoca bensì calibrato in ragione della gravità del reato e dei singoli elementi della fattispecie da provare. Si comprende quindi la ragione per la quale, in presenza di un quadro probatorio incompleto, non si può addivenire ad una sentenza di condanna, dovendo la condotta addebitata all’imputato essere provata per intero senza che si possa fondare la pronuncia sull’assunto che i fatti provati consentano di immaginare con sufficiente approssimazione i fatti non provati, poiché in questo caso si impone una sentenza di assoluzione ex art. 530, comma 2, c.p.p. (35). Diversamente, l’accertamento della responsabilità «al di là di ogni ragionevole dubbio» potrà dirsi realizzato quando il dato probatorio acquisito lascia fuori solo eventualità remote, pur astrattamente formulabili e prospettabili come possibili in rerum natura ma la cui realizzazione nella fattispecie concreta non trova il benché minimo riscontro nelle emergenze processuali, ponendosi al di fuori dell’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana (36).
La regola del B.A.R.D. e l’ipotesi alternativa: possibile contrasto giurisprudenziale?
Nello sviluppo esegetico dell’applicazione giurisprudenziale della regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio, deve tuttavia registrarsi un possibile contrasto nella giurisprudenza di legittimità che, a nostro sommesso avviso, merita un seppur breve approfondimento. Il tema è delicato ed investe non solo il procedimento valutativo ma la stessa natura giuridica del vizio che, in astratto, può inficiare la decisione giudiziale che non tenga conto dell’ipotesi alternativa, dotata di razionalità e plausibilità pratica, che ricostruisca diversamente i fatti, così insinuando nel giudice il “dubbio” sulla colpevolezza dell’imputato. Sulla questione, secondo una parte della giurisprudenza, si afferma che il giudice, per dichiarare colpevole «al di là di ogni ragionevole dubbio» l’imputato che sia rimasto contumace o si sia avvalso del diritto al silenzio, rinunciando così a prospettare una sua versione dei fatti, non avrebbe l’obbligo di verificare le ipotesi alternative alla ricostruzione dei fatti quale emergente dalle risultanze probatorie (37). Secondo altro orientamento giurisprudenziale, invece, la regola dell’«al di là di ogni ragionevole dubbio» introdotta dalla l. n. 46 del 2006, imporrebbe al giudice un metodo dialettico di verifica dell’ipotesi accusatoria secondo il criterio del «dubbio», con la conseguenza che il giudicante è chiamato ad effettuare detta verifica in maniera da scongiurare la sussistenza di dubbi interni (ovvero la autocontraddittorietà o la sua incapacità esplicativa) o esterni alla stessa (ovvero l’esistenza di una ipotesi alternativa dotata di razionalità e plausibilità pratica) (38). La differenza tra i due orientamenti è evidente. L’innovazione normativa operata dall’art. 533, comma 1, c.p.p. si salda infatti con la modifica operata dalla l. n. 46/2006 all’art. 606, comma 1, lett. e) c.p.p. in ordine ai confini del controllo sulla motivazione, la cui presenza negli ordinamenti di civil law consente di soppesare la consistenza del «ragionevole dubbio’ impedendo ogni elusione della presunzione non colpevolezza derivante da una inappropriata applicazione della regola probatoria e di giudizio dettata per la condanna (39). Deve tuttavia escludersi, a nostro avviso, che la violazione del metodo dialettico di verifica dell’ipotesi accusatoria, ossia del cosiddetto criterio del dubbio, possa essere idonea a trasformare il vizio di motivazione della sentenza (art. 606, lett. e), c.p.p.) in vizio di violazione di legge processuale (art. 606, comma 1, lett. c), c.p.p. in relazione al disposto dell’art. 125, comma 3, prima parte, stesso codice) o, addirittura, in vizio di violazione della legge sostanziale ai sensi della lett. b) dell’art. 606 c.p.p. (40). Sul punto si richiama il tradizionale orientamento giurisprudenziale di legittimità che ritiene che le ipotesi contemplate dalla lett. b) dell’art. 606 c.p.p. «inosservanza o erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche» configurano tipici errores in iudicando in iure, nel senso che l’inosservanza va intesa come mancata applicazione, mentre l’erronea applicazione va riferita all’applicazione inficiata da errore (41). Sotto tale profilo, infatti, si è sempre discusso se sia possibile censurare, ai sensi della lett. b) dell’art. 606 c.p.p., l’inosservanza o l’erronea applicazione della norma processuale. In senso favorevole, parte della dottrina ritiene che dovrebbero ritenersi deducibili in Cassazione anche gli errores in iudicando che si riferiscono a una norma processuale, posto che l’interesse all’uniforme interpretazione giurisprudenziale sussiste anche per il diritto processuale (42). Purtuttavia si ritiene che il tenore letterale della disposizione in commento sembrerebbe escludere alla radice tale soluzione ermeneutica: la norma si riferisce infatti alla «inosservanza o falsa applicazione di legge penale e di norme giuridiche di cui si deve tener conto nell’applicazione della legge penale». L’esegesi letterale della norma induce a ritenere, quindi, deducibile in cassazione il solo errore di diritto caduto su una norma sostanziale. In questo senso è orientata pacificamente la giurisprudenza della Corte di cassazione (v. infra), anche se, in un remoto precedente rimasto sostanzialmente isolato, la Cassazione ha affermato che anche la violazione di una norma processuale può realizzare un vero e proprio error in iudicando, deducibile ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b), c.p.p., quando la stessa venga ad incidere sulla valutazione del merito del giudizio, per la qualificazione giuridica del reato e per la ricostruzione del fatto (43). Parte della dottrina aveva inoltre suggerito di ricondurre alla fattispecie in esame anche la violazione dell’art. 192, comma 2, c.p.p. (nella parte in cui richiede che l’esistenza di un fatto sia desunta da indizi gravi, precisi e concordanti) (44). Tale lettura “estensiva” è stata però avversata dalla dottrina dominante, secondo cui non solo – almeno in ambito penale – essa riposa su una forzatura letterale, ma condurrebbe a vanificare il limite della denunciabilità in cassazione della violazione di norme processuali nei soli casi in cui ne sia derivata l’invalidità (45). La tesi dell’estensibilità alla norma processuale del vizio indicato dalla lett. b) dell’art. 606 c.p.p., è avversata dalla giurisprudenza di legittimità maggioritaria che, infatti, afferma che il vizio contemplato nella lett. b) dell’art. 606 c.p.p. attiene a disposizioni di diritto sostanziale e non processuale, anche laddove menziona le “altre norme giuridiche” (46). Per quanto qui d’interesse, inoltre, con riferimento alla questione della violazione del “criterio del dubbio“, si tratterebbe apparentemente di violazione dei criteri di valutazione della prova, donde sembrerebbe scontata la soluzione del dilemma esegetico alla luce dell’unanime giurisprudenza che esclude che la stessa possa essere fatta valere ai sensi della lett. b) dell’art. 606 c.p.p., in quanto norma processuale, concludendo dunque che essa possa essere denunciata in Cassazione unicamente come vizio della motivazione ai sensi della lett. e) dell’art. 606 c.p.p. (47). Tale soluzione, sicuramente agevole e, per dipiù, fondata su un orientamento giurisprudenziale consolidato, non può essere sottoposta a rivisitazione, nemmeno se riferita al “vizio” che può inficiare la decisione assunta da un giudice, ormai obbligato, a norma dell’art. 533, comma 1, c.p.p., ad adottare un metodo dialettico di verifica dell’ipotesi accusatoria, secondo il richiamato “criterio del dubbio“. In particolare, non potrebbe legittimamente sostenersi che l’errore compiuto dal giudice nella predetta operazione di verifica sia idoneo a trasformare il vizio della decisione da vizio di motivazione in vizio di violazione di legge, quantomeno sotto il profilo dell’art. 606, lett. c), c.p.p., inteso come inosservanza di norma processuale (appunto, l’art. 533, comma 1, c.p.p.) stabilita a pena di nullità, espressamente prevista, com’è noto, dall’art. 125, comma 3, prima parte, c.p.p. («le sentenze…sono motivate a pena di nullità»). Già in passato, invero, si era prospettata la possibilità di ricondurre al motivo di cui alla lett. c) dell’art. 606 c.p.p. la mancanza della motivazione, giacché siffatto error in procedendo determina la nullità ai sensi degli artt. 125 e 546 c.p.p. La soluzione, com’è noto, era stata suggerita, da un lato, con riferimento alle ipotesi di mancanza in senso grafico e materiale (48) e, dall’altro, con riguardo alle lacune della motivazione e, più specificamente, all’omessa valutazione di una prova (49). Sul punto, però, fatta qualche debita (e remota) eccezione (50), la giurisprudenza prevalente è orientata in senso opposto, poiché ritiene che tutti i vizi attinenti alla motivazione vadano dedotti esclusivamente a norma dell’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., atteso il carattere di specificità di tale previsione rispetto a quella della lett. c) del predetto art. 606 (51). Ciò, del resto, appare confortato anche dallo stesso orientamento delle Sezioni Unite della Cassazione circa i limiti di sindacabilità del vizio di motivazione nel giudizio di legittimità (52). Ed allora, ricondotta l’eventuale violazione della regola dell’«al di là di ogni ragionevole dubbio» alla categoria dei vizi della motivazione (art. 606, lett. e), c.p.p.), può legittimamente affermarsi che la verifica dell’ipotesi accusatoria debba essere svolta dal giudice in maniera da scongiurare la sussistenza di dubbi interni (intendendo per tali la autocontraddittorietà o la sua incapacità esplicativa) ovvero esterni alla stessa (ossia l’esistenza di un’ipotesi alternativa dotata di razionalità e plausibilità pratica) (53). Il criterio del dubbio, in quanto tale, deve infatti guidare il giudice nell’opera di interpretazione degli elementi probatori e, per definizione, l’esegesi della prova non è sindacabile in sede di legittimità, salvo il controllo sulla congruità e logicità della motivazione (54). Di fronte, dunque, ad una possibile ipotesi alternativa alla ricostruzione dei fatti, quale emergente dalle risultanze probatorie, il giudice ha l’obbligo di individuare gli elementi di conferma dell’ipotesi ricostruttiva accolta, in modo da far risultare la non razionalità del dubbio derivante dalla stessa ipotesi alternativa, non potendo detto dubbio fondarsi su un’ipotesi del tutto congetturale, seppure plausibile (55).
La regola del B.A.R.D. e l’appello: l’ipotesi alternativa dev’essere “anche” persuasiva
Operate, dunque, le riflessioni che precedono sul tema della metodologia applicativa della regola del b.a.r.d., può quindi agevolmente individuarsi la soluzione alla questione dell’approccio logico che dev’essere seguito dal giudice d’appello quando, a fronte di una sentenza assolutoria, rivaluti i medesimi elementi probatori del primo giudice, sovvertendo l’esito del giudizio di prime cure con l’affermazione della condanna dell’imputato. La questione, che costituisce l’oggetto centrale del presente lavoro, è ben riassunta dalla decisione in commento, di cui va richiamato, seppure sommariamente, il procedimento di valutazione impiegato dai giudici d’appello per sovvertire l’esito assolutorio del giudizio di primo grado. Nel caso in esame, i giudici d’appello, a fronte di un’imputazione di cessione di stupefacenti, avevano considerato che il cedente avesse consegnato, seppur gratuitamente, un quantitativo di sostanza stupefacente di tipo hashish al cessionario e che quest’ultimo lo avesse voluto aiutare ad eludere le indagini a suo carico, negando che vi fosse stata la cessione. Invero, la Corte di merito aveva rilevato una contraddizione nelle giustificazioni dei due imputati, in quanto mentre il cessionario aveva dichiarato ai Carabinieri, che avevano assistito al passaggio dello stupefacente, che l’hashish era il suo e che lo aveva solo mostrato al cedente per fargli constatare la qualità, quest’ultimo aveva, invece, riferito che la droga era stata acquistata per il consumo personale di entrambi. La rilevata contraddizione delle dichiarazioni e il rinvenimento presso l’abitazione del cedente di altro quantitativo di stupefacente aveva convinto i giudici che la sostanza appartenesse unicamente al cedente e che vi fosse stata la cessione riferita dai verbalizzanti. A base della sentenza di riforma risultavano, però, addotte semplici valutazioni alternative, fondate sulla presunta contraddittorietà delle dichiarazioni rese dagli imputati, valutazioni corroborate da elementi di natura congetturale, che – per il giudice di legittimità – si rivelano inadeguate a superare la ricostruzione dei fatti come contenuti nella prima decisione. Inoltre, i giudici di appello avrebbero omesso di valutare la circostanza del “doppio passaggio” di “qualcosa” tra i due imputati, circostanza ritenuta rilevante per escludere la responsabilità in ordine allo spaccio. Alla luce delle considerazioni che precedono, dunque, ben si spiega (e si condivide) l’esegesi fornita dalla Corte del principio introdotto nell’art. 533, comma 1, c.p.p. secondo cui la sentenza di condanna deve essere pronunciata solo se l’imputato «risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio». Tale regola, invero, presuppone per la Corte di legittimità che, in mancanza di elementi sopravvenuti, l’eventuale rivisitazione in senso peggiorativo da parte del giudice d’appello sullo stesso materiale probatorio acquisito in primo grado e ritenuto inidoneo a giustificare una pronuncia di colpevolezza, «sia sorretta da argomenti dirimenti e tali da evidenziare oggettive carenze o insufficienza della decisione assolutoria, che deve, quindi, rivelarsi, a fronte di quella riformatrice, non più sostenibile, neppure nel senso di lasciare in piedi residui ragionevoli dubbi sull’affermazione di colpevolezza» (56). Ciò, dunque, significa che, per la riforma di una decisione assolutoria, non è sufficiente una diversa valutazione caratterizzata da pari o addirittura minore plausibilità rispetto a quella operata dal primo giudice, ma occorre che la sentenza di appello abbia «una forza persuasiva superiore, tale da far cadere ogni ragionevole dubbio, in qualche modo intrinseco alla stessa situazione di contrasto». La regola del b.a.r.d., dunque, nel caso del giudizio d’appello, impone al giudice uno sforzo valutativo superiore rispetto a quello sostenuto dal giudice di primo grado proprio perché, ove l’esegesi sia condotta – come di regola, salve le ipotesi di rinnovazione dibattimentale ex art. 603 c.p.p. – sulla scorta del medesimo materiale probatorio, oggetto di valutazione da parte del giudice di prime cure, l’eventuale sovvertimento dell’esito assolutorio di tale giudizio non potrà fondarsi, per il giudice d’appello, solo sull’impiego del richiamato metodo dialettico di verifica dell’ipotesi alternativa in virtù del cosiddetto “criterio del dubbio”, in quanto la sussistenza di un dubbio “esterno” circa l’esistenza dell’ipotesi alternativa dotata di razionalità e plausibilità pratica – di per sé, sufficiente, per il giudice, ad escludere la colpevolezza dell’imputato ai sensi del comma 1 dell’art. 533 c.p.p. – imporrà al giudice d’appello, al fine dell’eventuale riforma «contra reum» della sentenza assolutoria, l’obbligo di una più penetrante esegesi del compendio probatorio apparentemente idoneo, in chiave valutativa, a ribaltare l’esito assolutorio del giudizio già svoltosi. In mancanza di elementi sopravvenuti, quindi, l’eventuale rivisitazione in senso peggiorativo compiuta in appello sullo stesso materiale probatorio già acquisito in primo grado (e ivi ritenuto inidoneo a giustificare una pronuncia di colpevolezza), dovrà essere sorretta da argomenti dirimenti e tali da evidenziare oggettive carenze o insufficienze della decisione assolutoria, che deve, quindi, rivelarsi, a fronte di quella riformatrice, non più sostenibile, neppure nel senso di lasciare in piedi residui ragionevoli dubbi sull’affermazione di colpevolezza. Inutile dire che, ove la verifica dell’interpretazione alternativa del medesimo materiale probatorio si risolva in giudizio valutativo di “maggiore persuasività”, potrà senza alcun “dubbio” ritenersi pienamente rispettato l’obbligo motivazionale del giudice d’appello, atteso che la maggiore persuasività si tradurrà in migliore coerenza interna dell’apparato argomentativo, ponendo al riparo la decisione dal vizio motivazionale deducibile, sub specie d’illogicità o contraddittorietà della motivazione, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p.
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(1) Nella dottrina anglosassone: cfr. L.J. Cohen, The probable and the provable, Oxford 1977, 83, 272; D.A. Schum, Evidential foundations of probabilistic reasoning, New York 1994, p. 131; Whitman, The Origins of Reasonable Doubt, Yale University Press New Haven & London, Orwigsburg 2008; B.J. Shapiro, Beyond reasonable doubt and probable cause: historical perspectives on the anglo-american law of evidence, Berkeley 1991, 7.
(2) I più significativi riferimenti giurisprudenziali e normativi nel sistema processuale nordamericano sono, da un lato, la storica sentenza della Corte Suprema in re Winship del 1970 (397 U.S. 358) e, dall’altro, l’art. 1096 del codice penale della California, che definisce ragionevole dubbio «quella situazione che, dopo tutte le comparazioni e considerazioni delle prove, lascia le menti dei giudici nella condizione in cui non possono dire di provare una incrollabile convinzione nella verità dell’accusa» (v. Dershowitz, Dubbi ragionevoli. Il sistema della giustizia penale e il caso O.J. Simpson, ed. it., Milano 2007, 63). La regola presenta in quel sistema una duplice valenza, oggettiva (tesa a favorire la legittimazione del potere giudiziario innanzi alla collettività, la quale in tal modo riconosce come “giuste” le sentenze penali di condanna) e soggettiva (in quanto si salda con la presunzione d’innocenza, ritenuta conseguenza automatica e ineludibile del due process of law) (Conti, Al di là del ragionevole dubbio, in Scalfati, Novità su impugnazioni penali e regole di giudizio, Milano 2006, 88).
(3) Sentenza Winship, 1970. Il processo penale costituisce di per sé un’aggressione dei diritti individuali (il nome, la reputazione, la libertà, la serenità dell’esistenza quotidiana), che una società civile accetta solo se esso garantisce che nessun innocente possa essere condannato, il che implica la possibilità che un colpevole possa essere assolto. In questa prospettiva la regola b.a.r.d. costituisce un contrappeso al potere statuale di dare attuazione al precetto penale, accusando un soggetto di averlo trasgredito. L’origine della frase risale quanto meno all’epoca romana. Nelle fonti di common law, peraltro, la proporzione è variabile (ora cinque, ora, dieci, ora venti colpevoli).
(4) Diversamente dal processo civile, dove vale la regola del “più probabile che non”. La ragione della differenza è scolpita nell’interpretazione, ormai consolidata della giurisprudenza, secondo cui «in una causa civile tra due parti, per motivi di risarcimento monetario del danno, una sentenza errata a favore del convenuto non ci sembra che sia più grave di una sentenza errata a favore dell’attore, perciò la formula della preponderanza dell’evidenza sembra particolarmente adatta perché […] richiede semplicemente che il giudice sia convinto che l’esistenza di un fatto sia più probabile della sua non esistenza. In un caso penale, invece, la regola della prova “al di là del ragionevole dubbio” è radicata nel profondo di una determinazione fondamentale di valore della nostra società, per la quale è molto peggio condannare un innocente che lasciare libero il colpevole». Ancor più chiaramente: «lo standard della prova influenza la frequenza relativa dei due tipi di risultato erroneo: se, per esempio, lo standard della prova in un processo penale fosse la preponderanza dell’evidenza, invece della prova “al di là del ragionevole dubbio”, ci sarebbe un rischio minore di errori nell’assoluzione del colpevole, ma un rischio molto più elevato di condanna degli innocenti. Poiché lo standard della prova incide sulla frequenza con cui si verificano queste due possibilità di errore, la scelta del tipo di prova da applicare, in un particolare tipo di causa, dovrebbe, in un mondo razionale, riflettere una valutazione di disutilità sociale comparata di ognuna delle due erronee possibilità. La verità è che il giusto processo richiede, per le cause penali, come espressione di una fondamentale equità, uno standard di prova più rigoroso di quello delle cause civili» (v., per tutte: Cass. civ., Sez. III, 16 ottobre 2007, n. 21619, C. c/ P. ed altri, in Corr. Giur. 2008, 35 con nota di Bona Causalità civile: il decalogo della Cassazione a due “dimensioni di analisi” ed in Danno e resp. 2008, 43; v., nella giurisprudenza più recente: Cass. civ., Sez. III, 26 luglio 2012, n. 13214, T. ed altro c. B. S.p.a., in Ced Cass. 623565).
(5) È il caso della teoria di Rawls delle decisioni in condizioni d’incertezza (Introvigne, I due principi di giustizia nella teoria di Rawls, Milano 1983), che ha elaborato il principio maximin (detto del maximum minimorum o miglioramento della situazione peggiore), per il quale le decisioni che riguardano la collettività devono sempre tener conto della gravità delle conseguenze: se la probabilità del verificarsi di un evento è molto bassa, ma le conseguenze sono gravi, la decisione deve essere di rifiuto del rischio del verificarsi dell’evento. Più precisamente si deve seguire «la regola che ci dice di classificare le alternative secondo il peggior risultato possibile, e decidere sulla base dell’alternativa il cui peggior risultato è superiore ai peggiori risultati delle altre».
(6) Tra le tante Albright v. Oliver, 1994; Victor v. Nebraska, 1994; Spencer v. Kemna, 1998 con riferimento ai valori in gioco nel processo penale (identificati anche nella libertà di pianificazione delle scelte future e di condurre l’esistenza più confacente, nonché, soprattutto, nella dignità di essere umano); Hankerson v. North Carolina, 1977; Addington v. Texas, 1979; Arizona v. Fulminante, 1991 con riferimento alla gravità del rischio di errore nel processo penale.
(7) Pacifico che la regola concerne tutti gli elementi essenziali del reato, la Corte Suprema l’ha applicata anche alla scriminanti (Moran v. Ohio, 1984) ed agli elementi che influiscono sulla pena (Almendarez-Torres v. U.S, 1998; Jones v. United States, 1999), superando la distinzione tra responsabilità e pena, altrimenti una scelta discrezionale del legislatore nella qualificazione dei fatti che incidono sulla punibilità rischierebbe di eludere l’applicazione del principio. Tale evoluzione ha portato sotto la regola b.a.r.d. anche le circostanze (Apprendi v. New Jersey, 530 U.S. 466 2000).
(8) I saperi del giudice: la causalità e il ragionevole dubbio, a cura di F. Stella, saggi di F. Stella, R. W. Wright, L. H. Tribe, Milano 2004.
(9) Ad avviso del quale un ordinamento che non consideri prioritario l’obiettivo della protezione dell’innocente è antigiuridico, nonché antisociale e incivile. Questo pensiero forte, come viene denominato, permette di definire la protezione dell’innocente «fondamento granitico, elementare ed assiomatico» di una società di uomini liberi, perché fa tornare alla ragion d’essere del processo: privando una società della protezione dell’innocente vengono a mancare rispetto e fiducia della comunità nella legge penale, perdendosi quindi le funzioni di uno stato liberale (Lucchini, Elementi di procedura penale, 2ª ed., G. Barbera, 1899, 15).
(10) Carnelutti riprende il principio in dubio pro reo, esaltandone non solo la valenza garantistica, ma anche la funzione ordinatrice della società. L’Autore considera inevitabile l’errore giudiziario, e ciò anche quando il processo si concluda con l’assoluzione, giacché è nel suo stesso sorgere che si materializza un’accusa nei confronti dell’innocente: «in altre parole l’accertamento negativo del reato è la constatazione ufficiale della fallibilità del processo penale e perciò lo scarto tra il suo risultato ed il suo scopo» (Carnelutti, Prove civili e prove penali, in Studi di diritto processuale, Cedam, 1925, p. 212). Saraceno vede nella presunzione di innocenza il riflesso processuale del principio nullum crimen sine culpa, e in taluni passaggi le sue riflessioni anticipano la regola b.a.r.d.: «fra le due possibilità di errore giudiziario – assoluzione di un reo, condanna di un innocente – lo Stato preferisce la prima. E questa preferenza è tale che prevale anche se fra le due ipotesi, reità e innocenza, la prima appare più probabile della seconda»; «la protezione degli interessi dell’innocente trova un limite nella certezza del giudicante sulla reità dell’imputato. Ciò non significa che entro questo limite il rischio della condanna di un innocente sia completamente evitato; ma che al di là di questo limite il prezzo per evitarlo sarebbe sproporzionato e insopportabile per il bene della società. […] Lo Stato fa tutto quanto può fare per restringere il rischio, allorché pone come presupposto della condanna non già una semplice opinione di probabilità, ma la certezza sulla reità» (Saraceno, La decisione sul fatto incerto nel processo penale, Cedam, 1940, 332).
(11) Sull’evoluzione storica del principio dell’ogni oltre ragionevole dubbio nell’esperienza italiana, si rinvia al contributo di Pisani Riflessioni sul tema del “ragionevole dubbio”, in Riv. it. dir. e proc. pen. 2007, 1243. Nel senso che l’art. 27, comma 2, Cost. assegna all’imputato una posizione di vantaggio, in quanto mentre al pubblico ministero spetta l’onere di provare con elevata probabilità logica gli elementi costitutivi del reato, alla persona accusata basta insinuare il dubbio circa l’effettiva esistenza degli stessi per andare assolto, sicché dal principio costituzionale si giunge alle regole processuali coniate negli artt. 530, comma 2, e 533 c.p.p., imponendo, per la condanna, una ricostruzione “fermamente credibile” dell’ipotesi accusatoria: V. Garofoli, Dalla non considerazione di colpevolezza alla regola dell’oltre il ragionevole dubbio, in questa Rivista 2010, 1029.
(12) Così Pisani (Sulla presunzione di non colpevolezza, in Foro pen. 1965), secondo cui «per giungere alla condanna occorre provare, al di là di ogni ragionevole dubbio, il contrario di quanto è garantito dalla presunzione costituzionale, la quale pertanto impone, anzi sollecita, un bisogno di certezza»; ancora, Illuminati (La presunzione d’innocenza dell’imputato, Bologna, 1979, 80), secondo cui «la presunzione d’innocenza come regola di giudizio va […] collegata alla struttura del processo e, in particolare, alla tecnica di accertamento del fatto. La sua completa realizzazione imporrebbe un sistema di tipo accusatorio, nel quale sia escluso che l’imputato debba dimostrare la propria innocenza, essendo l’organo dell’accusa tenuto a fornire la piena prova della colpevolezza. In caso di dubbio il giudice potrà solo prosciogliere, senza che a carico del prosciolto residuino conseguenze negative di alcun genere».
(13) V., tra le più autorevoli voci dottrinarie: Amodio, Commentario del nuovo codice di procedura penale, Milano, 1989; Malinverni, Il nuovo processo penale, in Giust. Pen. 1992; Paulesu, Presunzione di non colpevolezza, in Digesto disc. pen., vol. IX, Torino 1995.
(14) L. 12 luglio 1999, n. 232, recante Ratifica ed esecuzione dello statuto istitutivo della Corte penale internazionale, con atto finale ed allegati, adottato dalla Conferenza diplomatica delle Nazioni Unite a Roma il 17 luglio 1998 (G.U. n. 167 del 19 luglio 1999, S.O. n. 135).
(15) L. cost. 23 novembre 1999, n. 2, recante Inserimento dei principi del giusto processo nell’articolo 111 della Costituzione (in G.U. n. 300 del 23 dicembre 1999).
(16) “Giusto” è, per comune accezione, ciò che risponde a verità In tal senso la scelta lessicale del legislatore costituzionale nazionale appare più avanzata della fonte europea, dove il processo viene denominato “equo”.
(17) Le disposizioni concernenti il processo penale sono volte a favorire l’emersione della verità attraverso un meccanismo virtuoso: il rafforzamento delle garanzie – formali e sostanziali – della difesa, da un lato, impedisce all’accusa di scaricare il costo della propria inefficienza sull’imputato, dall’altro la obbliga (assai più della generica norma relativa alla fase delle indagini preliminari) a valutare anche le alternative favorevoli alla difesa, essendo altrimenti la sua tesi destinata a franare nel giudizio. In altre parole, colmando la disparità delle posizioni tra le parti si ottiene che la ricerca processuale sia la migliore possibile. In tale prospettiva la regola b.a.r.d. costituisce un logico corollario dell’idea che se l’accusa è fondata potrà essere provata oltre ogni ragionevole dubbio, altrimenti andrà abbandonata o respinta.
(18) Interessanti, a tale proposito, le riflessioni di D. Chinnici L’«oltre ogni ragionevole dubbio»: nuovo criterio del giudizio di condanna?, in questa Rivista 2006, 1553, la quale si interroga sulla reale portata applicativa della formula di nuovo conio inserita nel corpo dell’art. 533 c.p.p. dalla l. n. 46 del 2006.
(19) Identificata nella mera conformità alle regole della giurisdizione, ovvero – in uno sforzo di bilanciamento con l’opposta concezione della verità reale – nella verosimiglianza della decisione giurisdizionale (v., sul punto: Cass., Sez. Un., 17 ottobre 2006, n. 10251/07, Michaeler, in Gdir 2007, 19, 79 – con nota di V. Santoro. È prevalsa una sostanziale mediazione fra i tre diversi indirizzi interpretativi – in cui si afferma che «Nella valutazione probatoria – così come, secondo la più moderna epistemologia, in ogni procedimento di accertamento (scientifico, storico etc.) – è corretto e legittimo fare ricorso alla verosimiglianza ed alle massime di esperienza, ma, affinché il giudizio di verosimiglianza conferisca al dato preso in esame valore di prova, è necessario che si possa escludere plausibilmente ogni alternativa spiegazione che invalidi l’ipotesi all’apparenza più verosimile; ove così non sia, il suddetto dato si pone semplicemente come indizio da valutare insieme a tutti gli altri elementi risultanti dagli atti (Sez. I penale, 21 ottobre 2004, Sala)».
(20) Fortemente critica sull’operazione legislativa condotta dalla novella del 2006 sul comma 1 dell’art. 533 c.p.p. è Catalano Il concetto di ragionevolezza tra lessico e cultura del processo penale, in questa Rivista 2011, 85, secondo cui suscita non poche perplessità l’inserimento, nel testo del codice, del criterio, di matrice nordamericana, dell'”oltre ogni ragionevole dubbio”, la quale ritiene che un criterio risolutore del fatto incerto nel sistema della legge processuale penale italiana esiste da tempo ed è contenuto nell’art. 530 c.p.p., che ben potrebbe trovare una specifica base normativa in un principio che consacrasse il canone del ragionevole dubbio. La stessa A. ritiene dunque incongruo l’inserimento di una disposizione di principio – il canone del ragionevole dubbio – nello stesso contesto in cui già esiste una norma operativa: il testo novellato dell’art. 533 c.p.p., dunque, non varrebbe a costituire in capo al giudice doveri decisori diversi o ulteriori rispetto all’assetto previgente.
(21) In tal senso: Cass., sez. IV, 29 novembre 2000, n. 9793/01, M., in Riv. it. dir. proc. pen. 2001, 277; Id., Sez. IV, 28 novembre 2000, n. 14006, D.C., in Ced Cass. 218727; Id., Sez. IV, 28 settembre 2000, n. 9780/01, B., in Ced Cass. 218777.
(22) Cass., Sez. IV, 25 settembre 2001, C., in Riv. it. dir. proc. pen. 2002, 737, con nota di D’Alessandro, La certezza del nesso causale: la lezione “antica” di Carrara e la lezione “moderna” della Corte di cassazione sull'”oltre ogni ragionevole dubbio”; Id., Sez. IV, 25 settembre 2001, n. 1585/02, S. e altro, in Riv. it. dir. proc. pen. 2002, 737.
(23) Cass., Sez. Un., 10 luglio 2002, n. 30328, Franzese, in questa Rivista 2003, 50 con nota di Di Martino Il nesso causale attivato da condotte omissive tra probabilità, certezza e accertamento.
(24) La decisione è stata, peraltro, aspramente criticata in relazione a tale ultimo approccio. In particolare, si è manifestato il timore (Stella, Fallacie e anarchia metodologica in tema di causalità. La sentenza Orlando, la sentenza Loi, la sentenza Ubbiali (Cass. sez. IV pen. ), in Riv. it. dir. proc. pen. 2004, 27; v., anche, dello stesso Autore, L’allergia alle prove della causalità individuale. Le sentenze sull’amianto successive alla sentenza Franzese (Cass. IV sez. pen. ), ivi, 2004, 429), che, in tal modo, si realizzi un ritorno all’intime conviction del giudice, in una prospettiva intuizionistica che è proprio quella che si è inteso storicamente superare con il ricorso al parametro della verità scientifica. A sostegno, invece, di tale approccio, si è affermato che un adeguato baluardo contro il rischio temuto di un ritorno al primato della intima convinzione è rappresentato dalla motivazione razionale della decisione (Conti, Al di là del ragionevole dubbio, Scalfati (a cura di), Novità su impugnazioni penali e regole di giudizio: Legge 20 febbraio 2006, n. 46 Legge Pecorella, Milano 2006, 96), secondo cui il sistema vigente deve tener conto del modello normativo delineato dagli artt. 192, 546, comma 1, lett. e) e 606, comma 1, lett. e), c.p.p.), v., anche, nello stesso senso, Canzio, Prova scientifica, ricerca della “verità” e decisione giudiziaria nel processo penale, in Aa.Vv., Decisione giudiziaria e verità scientifica, Milano 2005, 68.
(25) Così, D’Alessandro, La certezza del nesso causale: la lezione “antica” di Carrara e la lezione “moderna” della Corte di cassazione sull'”oltre ogni ragionevole dubbio”, in Riv. it. dir. proc. pen. 2002, 743; in senso conforme, Lorusso, La regola “del ragionevole dubbio” e la riforma delle impugnazioni, in La sentenza della Corte costituzionale 6 febbraio 2007 n. 26: un energico richiamo al metodo della giurisdizione, a cura di Garofoli, Atti del Convegno, Trani, 2-3 febbraio 2007, Milano 2007, 95.
(26) L’espressione è di Paliero, Il “ragionevole dubbio” diventa criterio, in Gdir 2006, 10, 73.
(27) In quest’ottica, per tutti, Tonini, Manuale di procedura penale, Milano 2009, 232, il quale, peraltro, acutamente rileva la duplice valenza della regola del b.a.r.d. quale “regola probatoria e di giudizio“, in particolare, precisando come «Sotto il primo profilo, il ragionevole dubbio nella sua veste di regola probatoria disciplina nel quantum l’onere della prova che è a carico del pubblico ministero (art. 533, comma 1). Sotto il secondo profilo, il ragionevole dubbio prescrive la regola di giudizio che il giudice deve applicare: egli deve ritenere come non provata la reità e, conseguentemente, assolvere l’imputato (art. 530, comma 2)».
(28) Cordero, Procedura penale, 8^ ed., Milano 2006, 1001.
(29) Così, Caprioli, L’accertamento della responsabilità penale “oltre ogni ragionevole dubbio”, in Riv. it. dir. e proc. pen. 2009, 51.
(30) Nel senso che, con la novella del 2006, si sarebbe così creata una curiosa e incomprensibile sovrapposizione tra la norma che disciplina la regola di giudizio e vieta di condannare in caso di dubbio (art. 530 c.p.p.) e la disposizione di principio mutuata dal common law (art. 533, comma 1, c.p.p.) che esprime l’identico precetto ma in forma generica e indefinita: Amodio, Vitalità della codificazione nell’esperienza penale postmoderna, in Cass. pen. 2011, 1976.
(31) Cass., Sez. II, 21 aprile 2006, n. 19575, S. ed altro, in Ced Cass. 233785.
(32) Cass., Sez. I, 11 maggio 2006, n. 20371, G. e altro, in Ced Cass. 234111; Id., Sez. I, 28 giugno 2006, n. 30402, V., in questa Rivista 2007, 927 con nota di Eramo Il divieto di perizie psicologiche nel processo penale: una nuova conferma dalla Cassazione; Id., Sez. II, 2 aprile 2008, n. 16357, C., in Ced Cass. 239795.
(33) Lorusso, La regola “del ragionevole dubbio” e la riforma delle impugnazioni, cit., 98.
(34) Daniele, Regole di esclusione e regole di valutazione della prova, Torino 2009, 168; si veda anche, dello stesso A., Una prima applicazione giurisprudenziale della regola dell’al di là di ogni ragionevole dubbio, in questa Rivista 2007, 253.
(35) Cass., Sez. VI, 21 aprile 1997, n. 9006, A., in Ced Cass. 209112.
(36) Così, Cass., Sez. I, 21 maggio 2008, n. 31456, F. in Gdir 2008, 33, 97 con nota di Beltrani Imputabilità della Franzoni desunta anche da filmati Tv, in Giust. pen. 2009, III, 459, con nota di Ventura Prove penali e leggi scientifiche ed in Cass. pen. 2009, II, 1840, con nota di Caprioli Scientific evidence e logiche del probabile nel processo per il “delitto di Cogne”. In senso conforme a tale decisione: Cass., Sez. I, 8 maggio 2009, n. 23813, P.G. in proc. M., in Ced Cass. 243801; Id., Sez. I, 3 marzo 2010, n. 17921, G., ivi, 247449 (secondo cui, inoltre, il procedimento logico deve condurre alla conclusione caratterizzata da un alto grado di credibilità razionale, quindi alla “certezza processuale” che, esclusa l’interferenza di decorsi alternativi, la condotta sia attribuibile all’agente come fatto proprio); Id., Sez. IV, 17 giugno 2011, n. 30862, G. e altri, in Ced Cass. 250903.
(37) Così: Cass., Sez. III, 15 luglio 2011, n. 30251, A., in Ced Cass. 251313 (in motivazione la Corte ha precisato che il giudice non è tenuto a tale verifica in quanto l’imputato, con tale condotta processuale, non ha offerto al contraddittorio dibattimentale, dichiarandola, la sua verità dei fatti stessi).
(38) Cass., Sez. I, 24 ottobre 2011, n. 41110, Pg in proc. J., in Ced Cass. 251507; in senso conforme, in precedenza: Cass., Sez. IV, 12 novembre 2009, n. 48320, D., in Ced Cass. 245879.
(39) Lorusso, La regola “del ragionevole dubbio” e la riforma delle impugnazioni, cit., 102.
(40) Ed invero, v’è chi, in dottrina, sostiene che la regola b.a.r.d., pur formalmente inserita nel contesto di una regola di natura processuale (art. 533 c.p.p.) e carica del suo significato di limite al principio del libero convincimento del giudice, mostra chiaramente la sua «valenza sostanziale, in quanto contribuisce – sul piano metodologico – alla tipizzazione della regola sostanziale» (Regina, La regola b.a.r.d. nel diritto penale sostanziale. Interferenze con la struttura del reato, in Giur. merito 2008, 3032).
(41) Bargi, Il ricorso per cassazione, in Gaito (a cura di), Le impugnazioni penali, II, Torino 1998, 495.
(42) Calamandrei-Furno,voce Cassazione civile, NsD, II, Torino 1974, 1076.
(43) Cass., Sez. VI, 16 giugno 1992, n. 9373, P.M. in proc. H., in Ced Cass. 191706, relativa ad un caso in cui, essendo stati proposti avverso la stessa sentenza, appello da una delle parti e ricorso per cassazione dall’altra, e non essendosi fatto luogo a conversione del ricorso in appello ai sensi dell’art. 580 c.p.p., si sia giudicato del solo appello proposto. La Corte ha ritenuto che l’esame parziale della “res iudicanda” da parte del giudice di appello, per aver trascurato del tutto l’esame di una delle impugnazioni proposte, realizzi non solo e non tanto un “error in procedendo“, deducibile ai sensi dell’art. 606, lett. c), c.p.p., quanto un vero e proprio “error in iudicando“, deducibile ai sensi dell’art. 606, lett. b) e lett. e), c.p.p.
(44) Aricò, Impugnazioni, in Dalia (a cura di), Gli altri gradi di giurisdizione, Padova 1991, 22.
(45) In tal senso, v. Nappi, Il sindacato di legittimità nei giudizi civili e penali di cassazione, Torino 2006, 54, secondo cui non avrebbe ragione la previsione che la violazione delle norme processuali può essere denunciata solo quando ne derivi un’invalidità, se poi se ne ammettesse comunque la censura come errores in iudicando; v. anche, in senso conforme, Canzio, Il ricorso per cassazione, in Aimonetto, Le impugnazioni, Torino 2005, 316.
(46) Cass., Sez. III, 20 novembre 1998, n. 215/99, F., in Ced Cass. 212091; Id., Sez. III, 3 luglio 1997, n. 8962, R., in Ced Cass. 208446.
(47) Cass., Sez. I, 21 maggio 1993, n. 9392, G., in Ced Cass. 195306; Id., Sez. I, 26 novembre 1998, n. 1088, C. e altri, in Ced Cass. 212248; Id., Sez. VI, 8 gennaio 2004, n. 7336, M. ed altro, in Ced Cass. 229159; in dottrina, Dubolino-Baglione-Bartolini, Il nuovo Codice di procedura penale: illustrato per articolo con il commento, la relazione ministeriale e la giurisprudenza, vigente nel nuovo, del vecchio rito: le leggi complementari, 2^ ed., Piacenza, 1990, 417; Iacoviello, Motivazione della sentenza penale (controllo della), in EdD, IV Agg, Milano 2000, 799; Marandola, Sulla deducibilità in cassazione della violazione dell’art. 192, c. 2, in Cass. pen. 1995, 661; ancora, sull’applicazione della regola del b.a.r.d. nel processo indiziario, v. Salimbeni Ragionevole dubbio e motivazione sulla prova indiziaria, in questa Rivista 2011, 203; Nappi, Il sindacato di legittimità nei giudizi civili e penali di cassazione, cit., 170, secondo il quale la lett. b) dell’art. 606 c.p.p. si riferisce unicamente a errori di decisione, mentre l’inosservanza dei criteri di valutazione della prova si traduce in un errore di giustificazione.
(48) In particolare sulla scia della Rel. prog. prel., 200; in tal senso, in dottrina, Carcano, Funzioni di legittimità e sindacato sulla motivazione, in Cass. pen. 1992, 3013; Lattanzi, Il controllo del diritto e del fatto da parte della Cassazione nel giudizio penale, in Mannuzzu-Sestini (a cura di), Il giudizio di cassazione nel sistema delle impugnazioni, Tritone 1992, 79; Scella, Prove penali e inutilizzabilità, Torino 2000, 201; Voena, Atti, in Commentario breve al codice di procedura penale, Conso-Grevi (a cura di), Padova 1994, 190.
(49) In dottrina, v.: Bargi, Il ricorso per cassazione, cit., 533; Capone, Diritto alla prova e obbligo di motivazione, in Ind. pen. 2002, 45; Cordero, Codice di procedura penale, Torino 1992, 650; Galati-Zappalà, Le impugnazioni, in Diritto processuale penale di Siracusano-Galati-Tranchina-Zappalà, Milano 2004, 525; Sgromo, Sulla deducibilità del travisamento del fatto nei motivi di cassazione, in Giur. it. 1994, II, 174; Zucconi Galli Fonseca, Le nuove norme sul giudizio penale di cassazione e la crisi della Corte Suprema, in Cass. pen. 1990, 526.
(50) Cass., Sez. I, 28 aprile 1998, n. 2383, M. ed altro, in Ced Cass. 210670; Id., Sez. II, 23 ottobre 1996, n. 4064/97, P.M. in proc. E. ed altri, in Ced Cass. 207314; Id., Sez. II, 2 giugno 1994, n. 7266, P.M. in proc. L. ed altri, in Ced Cass. 198324; Id., Sez. I, 19 marzo 1991, n. 1351, C., in Ced Cass. 186905.
(51) V., per tutte: Cass., Sez. Un., 25 ottobre 1994, n. 19, De Lorenzo, in Ced Cass. 199391, che si richiama anche ad un argomento di natura sistematica fondato sull’art. 569 c.p.p.; Id., Sez. Un., 26 febbraio 1991, n. 5, Bruno e altri, in Ced Cass. 186998. V., nella dottrina, Ceccaroni, Travisamento del fatto ed error in procedendo, in questa Rivista 2001, 996; Di Benedetto, Considerazioni in merito alle innovazioni introdotte dal nuovo codice di procedura penale in materia di impugnazioni, in Cass. pen. 1989, 2316; Ferrua, Il sindacato di legittimità sul vizio di motivazione nel nuovo codice di procedura penale, in Id., Studi sul processo penale, Torino 1990, 126; Lozzi, Carenza o manifesta illogicità della motivazione e sindacato del giudice di legittimità, in Riv. it. dir. proc. pen. 1992, 767; Morgigni, La cassazione nel nuovo codice di procedura penale, in Cass. pen. 1989, 2316; Renon, Spunti per una riconsiderazione del travisamento del fatto come motivo di ricorso in cassazione, ivi, 1996, 559; Smeriglio, In tema di sindacato della Corte di cassazione sulla motivazione, in Giur. it. 1996, II, 476.
(52) V., sul tema: Cass., Sez. Un., 13 dicembre 1995, n. 930/96, Clarke, in Ced Cass. 203428; Id., Sez. Un., 19 giugno 1996, n. 16, Di Francesco, in Ced Cass. 205621; Id., Sez. Un., 30 aprile 1997, n. 6402, Dessimone e altri, in Ced Cass. 207944, che, in particolare, esclude la possibilità del giudice di legittimità di procedere ad una “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali; Id., Sez. Un., 24 novembre 1999, n. 24, Spina, in Ced Cass. 214794; Id., Sez. Un., 31 maggio 2000, n. 12, Jakani, in Ced Cass. 216260 che, significativamente, preclude alla Cassazione la possibilità non solo di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi, ma anche di saggiare la tenuta logica della pronuncia portata alla sua cognizione mediante un raffronto tra l’apparato argomentativo che la sorregge ed eventuali altri modelli di ragionamento mutuati dall’esterno; Id., Sez. Un., 28 maggio 2003, n. 25080, Pellegrino, in Ced Cass. 224611, che opportunamente equipara alla violazione di legge, ai fini della deducibilità, la mancanza o la mera apparenza della motivazione, atteso che in tal caso si prospetta la violazione della norma che impone l’obbligo della motivazione nei provvedimenti giurisdizionali, ossia dell’art. 124, comma 3, c.p.p., con esclusione del vizio di illogicità manifesta, la quale può denunciarsi nel giudizio di legittimità soltanto tramite lo specifico e autonomo motivo di ricorso di cui alla lett. e) dell’art. 606 stesso codice (per tale ultimo rilievo, Cass., Sez. Un., 28 gennaio 2004, n. 5876, P.C. Ferazzi in proc.Bevilacqua, in Ced Cass. 226710); Id., Sez. Un., 24 settembre 2003, n. 47289, Petrella, in Ced Cass. 226074.
(53) Così, la già citata Cass., sez. I, 24 ottobre 2011, n. 41110.
(54) V., ex multis: Cass., Sez. II, 5 maggio 2011, n. 20806, T., in Ced Cass. 250362, secondo cui spetta al giudice la valutazione sulla rilevanza e attendibilità delle fonti di prova, circa contrasti testimoniali o la scelta tra divergenti versioni e interpretazioni dei fatti; in precedenza, in senso conforme, sotto la vigenza del C.p.p. 1930, Cass., Sez. IV, 25 maggio 1981, n. 8090, A., in Ced Cass. 150282.
(55) V., sul punto, quanto affermato da Cass., Sez. IV, 17 giugno 2011, n. 30862, cit.
(56) V., in tal senso, la conforme Cass., Sez. VI, 3 novembre 2011, n. 40159, G., in Ced Cass. 251066.