Alberto Tedoldi, l’oggetto della domanda di intervento e delle controversie sul riparto nella nuova disciplina dell’espropriazione forzata, in Riv. Dir. Proc., 2006, 4, 1297
L’oggetto della domanda di intervento e delle controversie sul riparto nella nuova disciplina dell’espropriazione forzata
Sommario: 1. L’intervento dei creditori in praeterito iure. – 2. La productio ad consequentias dell’intentio del codice del 1940: il titolo esecutivo come presupposto dell’intervento. – 3. I titolari di diritti di sequela sul bene pignorato. – 4. La par condicio creditorum e la costituzionalità delle restrizioni all’intervento nell’espropriazione forzata singolare. – 5. Segue: con un’eccezione: la legittimazione all’intervento del “ creditor contabile ” è manifestamente incostituzionale. – 6. Gli effetti del riconoscimento, anche tacito, dei crediti privi di titolo esecutivo. – 7. L’oggetto delle controversie sul riparto. – 8. Breve conclusione.
1. – Se volessimo condensare in un motto l’intentio sottostante alle recenti modifiche delle norme sull’esecuzione forzata, interpolando un noto brocardo potremmo dire: interest rei publicae ut sit finis litium… ac executionum, purché resti ben chiaro che l’executio, distinta dalla cognitio causae e dalla iurisdictio in senso etimologico, al fenomeno giurisdizionale pertiene in tutto e per tutto.
Non che il conditor del 1940 enunciasse un programma diverso da quello dell’odierno legislatore d’inizio millennio. Nella Relazione al Re testualmente si legge che il nuovo codice, mettendosi sulla via tracciata dagli studi, ha potuto liberare l’esecuzione di tutte le ingombranti sovrastrutture imitate dal procedimento contenzioso e distinguere nettamente il procedimento esecutivo dalle fasi di cognizione che eccezionalmente possono incidere sul suo corso.
Sin da allora, con spirito diremmo cartesiano, si volevano tener ben separati e distinti dall’esecuzione forzata gli incidenti di cognizione, ponendoli, in certa misura, al di fuori di essa e, in tal guisa, “ purificando il procedimento esecutivo dai residui delle forme contenziose ” (sono ancora parole della Relazione al Re), che allignavano nel codice del 1865 (1).
L’intento non poté realizzarsi appieno, soprattutto in ragione della possibilità data a tutti i creditori, in nome della par condicio proclamata dall’art. 2741 c.c., di intervenire nell’espropriazione singolare ancorché privi di titolo esecutivo. Possibilità questa che, inevitabilmente, apriva il processo esecutivo a elementi e ad apporti spuri, che ne contaminavano la funzione e l’obiettivo secondo una “ dottrina pura ” dell’espropriazione forzata, volta alla concreta soddisfazione dei crediti pecuniari nei tempi più rapidi, riducendo allo stretto indispensabile le parentesi cognitive e, come si diceva poc’anzi, ponendole al di fuori del procedimento esecutivo attraverso il sistema delle opposizioni, salvo il necessario coordinamento mediante i provvedimenti sulla sospensione dell’esecuzione forzata.
È chiaro che, nel momento in cui si consentiva indistintamente a tutti i creditori di intervenire nell’espropriazione forzata in corso, il giudice dell’esecuzione era chiamato a delibare quanto meno l’ammissibilità, se non la fondatezza, delle loro domande di partecipazione alla procedura, mentre al debitore e agli altri creditori, primo fra essi a quello pignorante, doveva pur essere concessa la possibilità di contestare il diritto degli intervenienti.
Tant’è che i più rigorosi sostenitori della funzione meramente attuativa e operativa, anziché giurisdizionale, dell’esecuzione forzata, erano indotti a esigere, almeno de iure condendo, il possesso di un titolo esecutivo in capo agli intervenienti (2).
Nel quadro normativo disegnato dal codice del 1940, che ereditava in questo le impostazioni dottrinali e giurisprudenziali presenti sotto il codice ante vigente (3), fu dunque naturale ribadire la distinzione tra azione espropriativa, spettante ai creditori muniti di titolo esecutivo, e azione satisfattiva, pur sottolineandosi, in seconda battuta, l’appartenenza di entrambe all’espropriazione forzata nel suo complesso, suddivisa nelle due fasi dell’espropriazione liquidativa e dell’espropriazione satisfattiva (4). Permaneva una distinzione assai netta tra creditori intervenienti, a seconda che possedessero o meno un
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Questa dicotomia si trasformò naturaliter in contrapposizione tra “ teoria cognitiva ” e “ teoria esecutiva ” della fase distributiva dell’espropriazione forzata individuale. Contrapposizione che, a tacer d’altro, conduceva a divergenti ricostruzioni in tema di stabilità degli effetti della distribuzione, quale fenomeno, secondo i fautori della “ teoria esecutiva ”, che interamente appartiene al processo di espropriazione forzata, posto che l’art. 632, comma 2°, c.p.c. conserva il denaro ricavato dalla vendita nella proprietà del debitore sino al compimento della distribuzione, onde l’espropriazione non si completa se non dopo questa fase, da cui non sgorga alcun effetto di accertamento dell’obbligo del debitore sul piano del diritto sostanziale (6); secondo i fautori della “ teoria cognitiva ”, invece, la distribuzione è riportabile al diritto sostanziale e genera effetti stabili, tanto da precludere azioni di ripetizione di indebito o di arricchimento senza causa (7). Né mancavano, in proposito, posizioni intermedie, che preferivano discorrere di una preclusione pro iudicato (8).
In ogni caso, appare chiaro come il legislatore del 1940, nonostante la dichiarazione di intenti formulata nella Relazione al Re, non avesse saputo né potuto evitare che nell’espropriazione individuale, diremmo quasi negli interstizi di essa, si inserissero esigenze lato sensu “ cognitive ” su quei crediti che non si giovavano dell’astrattezza e della forza proprie del titolo esecutivo (9).
Nasceva, perciò, la necessità di non lasciare il debitore e i creditori sguarniti di strumenti di reazione di fronte a provvedimenti del giudice dell’esecuzione che, sia pure senza i crismi e gli effetti degli accertamenti in senso proprio e con efficacia meramente endoprocessuale, fossero assunti ben prima e al di fuori delle controversie sul riparto regolate dall’art. 512 c.p.c., ad esempio in sede di determinazione delle somme dovute per la conversione del pignoramento (art. 495 c.p.c.) o per i provvedimenti di riduzione dei beni pignorati o dei mezzi di espropriazione (artt. 496 e 483 c.p.c.).
Si immaginò quindi, in giurisprudenza, un controllo prima facie non sulla fondatezza del credito, ma sui requisiti di legittimazione all’intervento. E di qui, proprio per consentire una verifica in forme rapide e immediate, derivò la consuetudine tralatizia, praeter legis litteram, di ammettere a intervenire nell’espropriazione forzata soltanto quei creditori che, pur privi di titolo esecutivo, possedessero almeno una prova scritta del credito, che attestasse la presenza dei requisiti di certezza e liquidità (oltre che, per le esecuzioni mobiliari, di esigibilità) (10).
Fu infine naturale concedere alle parti del processo esecutivo la possibilità di impugnare i provvedimenti emessi dal giudice dell’esecuzione prima che si giungesse al riparto (exempli gratia, in sede di conversione o di riduzione del pignoramento) mediante opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c., quale strumento di tutela bon à tout faire e norma di chiusura del sistema delle opposizioni (11).
Vi era certo il problema di definire, in questi casi, l’oggetto del giudizio di opposizione agli atti esecutivi, normalmente adatto a ospitare questioni inerenti al quomodo dell’esecuzione (12); un oggetto, insomma, processuale – a differenza di quello su cui vertevano le controversie in sede di riparto ex art. 512 c.p.c., le quali ultime attenevano alla fondatezza del credito posto a base dell’intervento, con attitudine della sentenza, secondo i più, al giudicato sostanziale o, almeno, a generare una praeclusio pro iudicato (13) – anche se non mancava chi era propenso a estendere il thema decidendum dell’opposizione agli atti esecutivi anche ad accertamenti sul merito del credito dell’interveniente, conferendo alla relativa pronuncia gli effetti imperativi proprî del giudicato sostanziale (14).
2. – Si è così tratteggiato, sia pur sommariamente e con notevoli semplificazioni, il quadro sistematico anteriore alla recente riscrittura delle norme sull’intervento dei creditori nell’espropriazione forzata singolare: un quadro che rivela il fallimento del programma, enunciato dal legislatore del 1940, di spostare all’esterno del processo esecutivo ogni incidente di cognizione, salvi gli effetti della sospensione a seguito di opposizione o di controversia sul riparto.
Le recenti riforme, dopo oltre mezzo secolo di insoddisfacente esperienza, paiono produrre ad consequentias quel programma, riducendo il più possibile le parentesi cognitive nel procedimento di espropriazione forzata e ridimensionandone gli effetti. Intento questo già proclamato nella Relazione al Progetto della Commissione Tarzia, che conteneva previsioni analoghe a quelle poi adottate dal legislatore: si deve evitare che il giudice dell’esecuzione compia attività di giudizio, ché la logica dell’esecuzione è meramente attuativa della prestazione già scritta nel titolo esecutivo; là dove vi era un implicito accertamento dei crediti concorrenti (ad esempio, in sede di conversione del pignoramento, di riduzione del pignoramento o dei mezzi di espropriazione, ecc.), l’utilizzo dell’opposizione agli atti esecutivi finiva con l’estendersi all’oggetto sostanziale dell’intervento, cioè all’esistenza del credito, snaturando del tutto sé stessa e i compiti del giudice dell’esecuzione (15).
Ecco identificato il perno su cui ruota anche l’intervento: il titolo esecutivo, che fonda l’azione esecutiva in tutte le sue fasi, espropriativa e satisfattiva a un tempo, serbandola “ pura ” da contaminazioni cognitive per tutta la sua esistenza e durata, inclusa la fase distributiva che definitivamente attua l’espropriazione del debitore.
Disegno certo coerente, che riprende le idee di Carnelutti sotto il c.p.c. del 1865 e nel suo progetto del 1926. Non basta più dunque, come riteneva la giurisprudenza tradizionale, produrre prove documentali per conferire al credito quel grado di certezza, liquidità e (non sempre) esigibilità richiesto dalle norme ante vigenti. Occorrono l’astrattezza, l’autonomia e la forza proprie del titolo esecutivo, che esoneri il giudice dell’esecuzione da ogni più approfondito accertamento, incompatibile con la funzione attuativa e operativa dell’esecuzione forzata.
Al fondo di questa impostazione e quasi in filigrana potrebbe scorgersi una concezione, per così dire, regressiva dell’esecuzione forzata, in qualche misura riportata a uno stadio amministrativo, come attuazione meramente materiale della prestazione sancita nel titolo esecutivo, che appartiene alla sfera dell’imperium più che della giurisdizione, separata e distinta dall’attività di iurisdictiopar excellence, quella cognitiva (16).
Non crediamo, peraltro, che a tanto si debba giungere: l’appartenenza del fenomeno esecutivo all’attività giurisdizionale, come attuazione della sanzione civile comminata dall’ordinamento, deve ormai considerarsi un dato acquisito e non più revocabile in dubbio. Le modifiche intese a snellire le procedure esecutive, ancorché ispirate a una concezione “ operativa ” dell’esecuzione forzata, non la possono privare dei caratteri che le sono propri e che essenzialmente consistono nella possibilità di utilizzare la forza, di cui lo Stato detiene il monopolio, per far conseguire ai creditori tutto quello e proprio quello cui hanno diritto, pur sempre nell’alveo e nel rigoroso rispetto delle garanzie giurisdizionali, che trovano nella Costituzione il loro ineludibile usbergo (artt. 24 e 111 Cost.).
3. – Se l’idea di fondo del novello conditor, non scevra di intima coerenza, è quella di dare ingresso in sede esecutiva soltanto ai creditori muniti di titolo esecutivo, vi è però il problema di tutelare dall’effetto purgativo i creditori titolari di diritti reali di garanzia sul bene oggetto dell’espropriazione, ancorché privi di un titolo esecutivo.
Questa categoria di creditori non può restare fuori dalla procedura di espropriazione del bene su cui ha un diritto di sequela, per l’elementare ragione che, al termine di essa, verrebbe privata definitivamente del diritto reale di garanzia, a cagione dell’effetto purgativo della vendita forzata. L’intervento di questi creditori va, dunque, ammesso anche senza il possesso di un titolo esecutivo.
Né può ravvisarsi in ciò una ingiustificata disparità di trattamento rispetto ad altri creditori titolari di privilegi generali o speciali senza sequela sui beni (17): l’esigenza di tutelare i creditori con diritto di sequela sul bene staggito nasce proprio dalla possibilità che essi perdano, per effetto dell’espropriazione forzata, il diritto di sequela che, viceversa, altre categorie di crediti, pur assistiti da privilegi, non possiedono affatto.
Semmai, il nuovo art. 499 c.p.c. minus dixit quam voluit. La previsione va integrata ammettendo a intervenire, da un lato, anche chi possegga un provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c. per pagamento di somme di denaro che, pur non essendo un titolo esecutivo in senso proprio, soggiace per l’attuazione alle norme sull’espropriazione forzata, ex art. 669-duodecies c.p.c.; dall’altro lato, chi sia titolare di privilegi speciali assistiti da ius retentionis su cose mobili (ad es., il vettore, il mandatario, il depositario, chi abbia fatto spese di conservazione o di miglioramento, ecc.: cfr. gli artt. 2756 e 2761 c.c.), che produce effetti assimilabili al pegno ex art. 2756, comma 3°, c.c., nonché i titolari di diritti reali immobiliari, nel caso in cui partecipi all’esecuzione il creditore ipotecario cui tali diritti non siano opponibili: infatti, ai sensi dell’art. 2812, comma 2°, c.c., il diritto reale immobiliare si converte nel diritto di partecipare al riparto per equivalente pecuniario, con preferenza rispetto ai creditori posteriormente iscritti (18).
È parso altresì naturale, in quest’ottica, ammettere all’intervento il creditore che ha eseguito un sequestro conservativo sul bene oggetto di espropriazione, poiché diversamente anch’egli, a seguito dell’espropriazione, resterebbe privo del vincolo cautelare. Il creditore sequestrante, d’altronde, a norma dell’art. 158 disp. att. c.p.c., è destinatario dell’avviso dell’espropriazione in corso sul bene sequestrato e ha l’onere di intervenire nella procedura ex art. 686, comma 2°, c.p.c. (19).
Tutti coloro, insomma, che sul bene pignorato possiedono vincoli opponibili a terzi devono poter intervenire nella procedura di espropriazione forzata del bene anche se privi di titolo esecutivo, perché corrono il rischio di perdere definitivamente gli specifici titoli di prelazione con sequela, a cagione dell’effetto purgativo della vendita forzata.
4. – Di un sistema siffatto, quale originariamente dettato dalla legge n. 80 del 2005, che possiede una coerenza e una razionalità intrinseche, non crediamo possa predicarsi l’incostituzionalità sol perché l’art. 499 c.p.c. non attuerebbe la par condicio creditorum (art. 2741 c.c.), intesa quale manifestazione della necessità che il giusto processo esecutivo dia piena tutela ai diritti sostanziali e al principio di eguale trattamento dei creditori.
Ben può il legislatore ordinario, in ossequio al principio di ragionevole durata applicabile anche al processo esecutivo, declinare specificamente i requisiti di ammissibilità dell’intervento nelle procedure individuali, purché il trattamento differenziato sia connotato da ragionevolezza (art. 3 Cost.).
In fin dei conti, limiti all’intervento c’erano anche prima: si richiedeva una prova documentale del credito, vi erano termini rigorosi per intervenire tempestivamente e l’interventore tardivo veniva postergato al creditore procedente e a quelli tempestivi, i quali ottenevano una sorta di prelazione processuale.
L’art. 2741 c.c. non deve trovare un perfetto rispecchiamento nell’espropriazione forzata individuale; anzi, non l’ha mai trovato nella disciplina processuale. È norma di valore essenzialmente programmatico o, al più, che produce effetti prima dell’espropriazione forzata, nel campo del diritto sostanziale, risolvendosi nel divieto per il debitore di apporre sui propri beni vincoli reali atipici, stante la tassatività delle legittime cause di prelazione enunciata dallo stesso art. 2741, comma 2°, c.p.c., per non diminuire la generica garanzia patrimoniale di fronte all’intero ceto creditorio (20). Sotto questo profilo, dunque, la par condicio creditorum è semplice Gebotsbegriff, indissolubilmente legato alla norma civilistica, che non conforma di sé l’intero ordinamento sostanziale o processuale, a guisa di Ordnungsbegriff (21).
Né si potrebbe recuperare il valore fondante della par condicio creditorum, agganciandola a norme costituzionali quali l’art. 24 e l’art. 3 Cost., tanto generico è il contenuto di queste da includere ogni epifenomeno normativo in qualunque modo afferente al diritto d’azione, lato sensu inteso, o all’eguaglianza tra cittadini. Sostenere che il diritto di ciascun creditore a soddisfarsi sui beni del debitore è garantito dagli artt. 3 e 24 Cost. (22) significa incorrere in una petitio principii: si pone il principio senza fornirne alcuna previa dimostrazione.
La genericità del diritto d’azione, autentico vas electionis pronto a inglobare tutto entro il carattere strumentale della tutela giudiziaria rispetto ai diritti sostanziali, non giova a fondare l’inviolabilità del diritto di tutti i creditori ad un’azione satisfattiva, da esercitarsi mediante intervento nell’espropriazione individuale anche senza titolo esecutivo, posto che a questi creditori non è certo inibito di agire giudizialmente per la tutela del loro diritto, procurandosi un titolo esecutivo, magari attraverso procedimenti semplificati e sommari o chiedendo misure cautelari e conservative sui beni che compongono il patrimonio del debitore. Per altri versi, l’ampliamento del novero dei titoli esecutivi stragiudiziali alle scritture private autenticate (v. il nuovo art. 474, n. 3, c.p.c.) agevola la tutela dei crediti pecuniari e consente ai creditori di premunirsi contro il rischio di non poter aggredire tempestivamente i beni del debitore o, appunto, di non poter intervenire in una procedura esecutiva da altri promossa.
Ed infatti, neppure chi sostiene che l’azione satisfattiva esperibile mediante intervento nell’espropriazione forzata è corollario della garanzia costituzionale del diritto d’azione nega la possibilità per il legislatore di introdurre limitazioni all’intervento, volte a consentire l’ordinato e spedito corso del processo esecutivo (23).
Ciò, d’altronde, è avvenuto anche in Francia, donde le norme sulla responsabilità patrimoniale del debitore (art. 2740 c.c.) e la par condicio creditorum (art. 2741 c.c.) traggono origine, a immagine e somiglianza dell’art. 2093 Code civil Napoléon del 1804: “ les biens du débiteur sont le gage commun de ses creanciers; et le prix s’en distribue entre eux par contribution, à moins qu’il n’y ait entre les créanciers des causes légitimes de préférence”. L’ordinamento francese ha ormai abbandonato il cosiddetto sistema par contribution di cui favellava l’art. 2093 code civil Napoléon,nel quale la ripartizione delle somme ricavate dalla vendita dei beni del debitore andava a beneficio di tutti i creditori (24), ed è giunto a limitare il concorso dei creditori in sede di riparto a coloro che siano muniti di titolo esecutivo, accordando altresì prelazioni processuali al creditore primo pignorante in materia di espropriazione dei crediti (25).
Nulla, dunque, impedisce al legislatore processuale di limitare la categoria dei creditori partecipanti al processo esecutivo per assicurarne la migliore funzionalità, perché nulla nei principi costituzionali impone di concedere a un creditore privo del titolo esecutivo tutela direttamente in sede esecutiva, attraverso l’intervento nell’espropriazione da altri iniziata, cioè di concedergli la cosiddetta azione satisfattiva; ed è conforme a Costituzione lasciare che il creditore privo di titolo esecutivo se lo procuri in sede cognitiva o stragiudiziale ovvero chieda misure cautelari a tutela del credito (26).
Se anche si leggesse nell’art. 2741 c.c. l’espressione del principio di eguaglianza sancito dall’art. 3 Cost., ben si potrebbe concludere che la par condicio può subire deroghe sul piano dell’organizzazione del processo esecutivo, purché fondate sul canone della ragionevolezza (27). È semmai importante che il principio fissato nell’art. 2741 c.c. si attui pienamente, salve le legittime cause di prelazione, nelle procedure esecutive concorsuali, assai più che in quelle individuali, poiché esse, coinvolgendo tutti i beni del debitore, pongono a rischio la garanzia patrimoniale scaturente dall’art. 2740 c.c. (28). Donde, l’opportunità di introdurre espropriazioni concorsuali anche al di fuori dei casi di fallimento, a somiglianza di ciò che avviene negli ordinamenti di matrice germanica, nei quali è bensì accordato un diritto di prelazione a favore del primo pignorante ai sensi del § 804 ZPO (Pfändungspfandrecht), ma siffatta prelazione, di origine processuale, viene privata ipso iure di efficacia nell’ipotesi di incapienza del patrimonio del debitore, anche non imprenditore commerciale, e di apertura di una procedura concorsuale a suo carico (cfr. il § 88 della Insolvenzordnung del 5 ottobre 1994, vigente dal 1999) (29). Mentre nell’espropriazione individuale si applica un Prioritätsprinzip (prior in tempore potior in iure), l’eguaglianza e la generale applicazione di un Ausgleichsprinzip vengono subito ripristinate in caso di insufficienza del patrimonio del debitore e di apertura di procedure concorsuali a suo carico, nella perfetta osservanza delle direttive costituzionali e della par condicio creditorum, poiché è proprio nell’incapienza patrimoniale del debitore che va ravvisata la ratio giustificativa dell’attuazione del concorso su base paritaria, anziché secondo l’ordine delle iniziative (30).
Né, infine, può ritenersi violato l’art. 3 Cost. perché dall’intervento sono esclusi i creditori titolari di un privilegio non iscritto in pubblici registri o, comunque, privo di diritto di sequela (31): l’effetto purgativo derivante dalla vendita forzata del bene staggito in una procedura espropriativa individuale non li priva, invero, della possibilità di far valere il loro privilegio su altri beni del patrimonio del debitore (32).
5. – Tuttavia, nel nuovo quadro normativo di una legittimazione all’intervento riservata ai creditori muniti di titolo esecutivo e a quelli con diritto di sequela o sequestranti il bene pignorato – quadro non privo, come s’è veduto, di intrinseca coerenza – si è insinuato un tarlo: il “ creditor contabile ”, cui si consente di intervenire sol che produca l’estratto autentico notarile delle scritture contabili ex art. 2214 c.c., scritture contabili che, notoriamente, non costituiscono titolo esecutivo, ma valgono al più a ottenere un provvedimento monitorio inaudita altera parte (art. 634, comma 2°, c.p.c.) o un’ordinanza di ingiunzione pendente iudicio (art. 186-ter c.p.c.).
Qui v’è senz’altro un ingiusto privilegio, che non trova alcuna razionale giustificazione né sul piano processuale, né su quello sostanziale.
Questa previsione, ma solo questa, è manifestamente incostituzionale (33) ed è bene che venga cancellata al più presto dal legislatore stesso. Non sapremmo prevedere, infatti, se l’inevitabile intervento della Consulta avrà carattere meramente demolitorio o non piuttosto additivo, come spesso avviene quando la norma violi l’art. 3 Cost.
6. – Vi sono varie questioni di stretta esegesi procedurale che le nuove norme traggon seco, sulle quali non v’è qui spazio per soffermarsi.
Restano ferme le distinzioni tra interventi tempestivi e interventi tardivi – salvo che l’accelerazione delle procedure dovrebbe determinare, nei fatti, minori possibilità d’intervento tempestivo – nonché tra creditori muniti e privi di titolo esecutivo nella fase anteriore alla vendita, con riguardo al problema della legittimazione a provocare gli atti stricto sensu espropriativi (cfr. l’intatto art. 629 sull’estinzione dell’esecuzione per rinuncia). Potrebbe, è pur vero, fraintendersi la lettera del nuovo art. 500 c.p.c., secondo cui l’intervento dà generaliter diritto a partecipare non solo alla distribuzione della somma ricavata, ma anche all’espropriazione del bene pignorato, provocandone i singoli atti. Il nuovo testo, rinviando per intero alle disposizioni contenute nei capi seguenti e ai casi ivi previsti, rivela il carattere anodino e definitorio del nuovo art. 500 c.p.c., norma-manifesto che vuole accreditare la natura puramente “ esecutiva ” e “ non cognitiva ” dell’intervento, obliando l’antico ma sempre attuale ammonimento di Giavoleno: “ omnis definitio periculosa est in iure civili: parum est enim ut non subverti possit ”. Norma slogan peraltro contraddetta dall’art. 526 e dai pur novellati artt. 564 e 566 c.p.c. sui poteri dei creditori intervenuti, che continuano a consentire loro di provocare gli atti espropriativi soltanto se muniti di un titolo esecutivo.
Conviene concentrarsi ora sullo speciale subprocedimento concernente i crediti privi di titolo esecutivo, disciplinato nell’art. 499, ultimi due commi, c.p.c.
Con l’ordinanza con cui è disposta la vendita – ma lo stesso dovrebbe avvenire in seguito, allorché vi siano interventi tardivi, onde lex minus dixit quam voluit (34) – vien fissata un’udienza ad hoc, riservata ai creditori privi di titolo esecutivo e al debitore. Al debitore è rivolta una sorta di provocatio ad declarandum (o, se si preferisce, ad impugnandum): egli è chiamato a prendere specifica posizione sul credito allegato nella domanda di intervento dai creditori privi di titolo esecutivo.
Se il debitore non compare o se, pur comparendo, non contesta o ammette esplicitamente l’esistenza dei crediti, anche in misura parziale, si ha il riconoscimento della pretesa, limitato però “ ai soli effetti dell’esecuzione ” in corso. Il riconoscimento, espresso o tacito, non implica disposizione del diritto: è mera (talora ficta) ricognizione del debito, priva di effetti negoziali o novativi. Essa, pur non vertendo su fatti, produce una semplice relevatio ab onere probandi a vantaggio del creditore interveniente che, sguarnito di titolo esecutivo, chieda di partecipare a quella espropriazione forzata individuale. Il riconoscimento, pertanto, ha ad oggetto soltanto il diritto processuale al concorso dell’interveniente in quella, e solo in quella, procedura esecutiva singolare, non l’esistenza del credito sul piano del diritto sostanziale.
Il meccanismo è, per certi versi, affine alla non contestazione, da parte del creditore procedente, della declaratio del debitor debitoris posta a base dell’ordinanza con cui il giudice dell’esecuzione assegna al creditore il credito pignorato (35). Stenteremmo, peraltro, a parlare di formazione di un titolo esecutivo endoprocessuale (36), posto che il riconoscimento (espresso o tacito) del debitore vale soltanto ad accordare all’interveniente il diritto a partecipare alla distribuzione, ma non consente di provocare gli atti dell’espropriazione anteriori alla vendita, per i quali occorre un titolo esecutivo.
Esatta ci pare, invece, l’individuazione di una finalità lato sensu conservativa della gran parte delle fattispecie di intervento senza titolo esecutivo, per preservarsi di fronte al rischio imminente di perdere il diritto di sequela sul bene staggito, in forza dell’effetto purgativo della vendita forzata (37), laddove la distonia, in questo sistema coerente, è costituita soltanto dall’intervento del “ creditor contabile ”, che un pregiudizio siffatto non ha ragione di temere.
In ogni caso, stante la nuova struttura “ endoesecutiva ” conferita dal legislatore alle controversie sul riparto (v. infra al par. successivo), è da ritenere che il debitore non possa, nel seguito di quella procedura espropriativa singolare, mutare idea e contestare il credito esplicitamente o implicitamente riconosciuto, proprio perché il riconoscimento produce effetti irrevocabili non per il diritto sostanziale, ma quanto meno all’interno di quella procedura esecutiva, fatto salvo il diritto, extra executionem e sul piano sostanziale, di ripetere dal creditore le somme ottenute a chiusura dell’espropriazione, qualora il credito in realtà non sussista o il titolo che lo giustifica venga a cessare (perché nullo, annullato, risolto o inefficace, a seconda dei casi) (38).
Gli altri creditori concorrenti potranno, viceversa, contestare in sede distributiva il credito, esplicitamente o tacitamente, “ riconosciuto ” dal debitore: invero, se si estendesse l’efficacia del riconoscimento anche agli altri creditori, il congegno ideato dal conditor presterebbe il fianco ad abusi e simulazioni (39).
La contestazione, discrezionale e financo arbitraria, del debitore non estromette il creditore privo di titolo esecutivo, ma lo costringe a iniziare, nei trenta giorni successivi all’udienza, il procedimento di cognizione, ordinario o semplificato-sommario, idoneo alla formazione di un titolo esecutivo che lo legittimi a conseguire le somme pretese, secondo un meccanismo affine al procedimento per convalida di sfratto in caso di opposizione del conduttore, ma senza alcuna possibilità di emettere provvedimenti anticipatori di condanna (sub specie di ordinanze provvisorie, qual si rinviene nell’art. 665 c.p.c.) e, soprattutto, senza alcun effetto di praeclusio pro iudicato in caso di mancata opposizione del debitore.
In caso di contestazione del debitore, ai sensi del novellato art. 510, il creditore privo di titolo esecutivo ha diritto all’accantonamento della somma per il tempo ritenuto necessario a munirsi di titolo esecutivo, id est sino ad un termine massimo di tre anni (40), trascorso il quale perde il diritto (processuale) a concorrere in quella procedura esecutiva. Al creditore privo di titolo esecutivo è concesso, perciò, un provvedimento conservativo con finalità eminentemente cautelari. La funzione satisfattiva dell’azione esercitata, che accede a un processo esecutivo, però non muta: essa si innesta sul tronco di quella specifica procedura di espropriazione forzata di singoli beni del debitore e a quel tronco rimane strettamente e intrinsecamente collegata a ogni effetto, come mera attività materiale e operativa di accantonamento e di successiva attribuzione delle somme a chi appaia legittimato a riceverle.
7. – Si transita qui all’altro problema fondamentale, poiché discorrere di intervento dei creditori nell’espropriazione forzata significa, inevitabilmente, occuparsi anche delle eventuali controversie sul riparto.
In coerenza con la volontà di imperniare sul titolo esecutivo l’espropriazione forzata – riducendo gli incidenti di cognizione a semplici accidentalia del processo esecutivo, da risolvere prontamente al suo interno secondo modalità deformalizzate e sommarie – l’art. 512 c.p.c. è stato ripensato e riscritto funditus.
Non più controversie a cognizione piena, con due gradi di merito e uno di legittimità e con la produzione, secondo i più, di effetti preclusivi di natura sostanziale (41), ma una procedura sommaria e semplificata, risolta dal giudice dell’esecuzione illico et immediate con ordinanza, che statuisce prima facie sul diritto (processuale) del creditore a concorrere a quell’espropriazione singolare – cioè su una situazione endoprocessuale (42) – e, se del caso (senza più gli automatismi dettati dall’ante vigente art. 624, comma 2°, c.p.c.), sospende per gravi ragioni la procedura esecutiva.
Qui, però, la strada si biforca ed è questo, ci pare, il segno di qualche incertezza del novello conditor. Infatti:
a) il provvedimento sull’istanza di sospensione è soggetto a reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. (v. il nuovo art. 624, comma 2°, c.p.c.);
b) la statuizione del giudice dell’esecuzione sul credito concorrente è impugnabile con opposizione agli atti esecutivi, ex art. 617, comma 2°, c.p.c.
Una compiuta coerenza – non solo rispetto ai principi enunciati, ma anche nell’organizzazione giudiziaria, ché non ha senso attribuire al collegio, di cui il g.e. non fa parte, la decisione sul reclamo avverso il provvedimento sulla sospensione del riparto, lasciando invece allo stesso g.e., come se questi non fosse influenzabile dalla pronuncia del collegio, la competenza funzionale sull’opposizione agli atti esecutivi contro il contemporaneo e contestuale provvedimento sul diritto dell’interveniente al concorso – avrebbe dovuto suggerire di prevedere soltanto il reclamo per impugnare la decisione sul diritto a concorrere del credito contestato, riprendendo e aggiornando in tal modo un’idea formulata, in ben altro contesto, da Furno, il quale concepiva l’opposizione agli atti esecutivi come una fase incidentale del processo di esecuzione forzata: questo, pur subendo una trasformazione, temporanea e provvisoria, di funzione (e quindi di natura) e di struttura, continua a svolgersi con l’innesto dell’opposizione che, una volta sorta, si salda all’esecuzione come la parte al tutto. Furno, non condividendo la soluzione del codice del 1940 che dava all’opposizione agli atti esecutivi dignità di giudizio a cognizione piena con efficacia decisoria, evidenziava l’esigenza di prevedere nel processo esecutivo qualcosa di analogo al controllo esercitato dal collegio sulle ordinanze del giudice istruttore nel processo di cognizione: una sorta di rimessione della causa al collegio su istanza di parte o, meglio, se Furno avesse scritto dopo la novella del 1950, a seguito di reclamo al collegio (43).
Non sarebbero, in tal modo, sorti dubbi sull’oggetto del provvedimento e del susseguente reclamo – il diritto processuale al concorso – e sugli effetti solo endoesecutivi delle decisioni emesse.
Così invece, quando venga proposta opposizione agli atti esecutivi e quando la contestazione investa l’esistenza stessa del credito, nasce il dubbio che il giudizio a cognizione piena sul “ merito ” del credito contestato – che inevitabilmente tenderà a debordare verso aspetti sostanziali che, nelle sue linee teoriche, l’opposizione agli atti esecutivi non dovrebbe punto lambire – sia idoneo a produrre effetti di giudicato sostanziale o, comunque, effetti preclusivi non meramente interni a quel procedimento esecutivo (44), rinvigorendo le mai sopite tesi cognitive e sostanzialiste sulla stabilità del riparto.
Nell’opposizione agli atti esecutivi, come ha chiarito la dottrina, si possono ravvisare i caratteri della querela nullitatis, nel concreto aspetto di un’impugnazione, ancorché atipica, della quale presenta l’elemento caratteristico della perentorietà del termine per la sua proposizione (45). Tuttavia, così come l’ambito dell’opposizione all’esecuzione spinge la linea del “ se ” nella direzione del “ come ” fino agli estremi confini della legittimità della direzione soggettiva ed oggettiva dell’azione esecutiva nel suo concreto esercizio, l’ambito dell’opposizione agli atti esecutivi arretra la linea del “ come ” nella direzione del “ se ” (46).
Non conta che il giudizio di opposizione agli atti esecutivi si svolga in unico grado, con sentenza impugnabile mediante ricorso straordinario per cassazione (oggidì parificato, expressis verbis, a quello ordinario quanto ai motivi deducibili: v., il nuovo art. 360, ultimo comma, c.p.c.), ché il doppio grado non trova usbergo nella Costituzione, mentre l’inappellabilità della sentenza non fornisce alcuna indicazione sul contenuto di essa e sugli effetti che da essa promanano. Anche la sentenza sull’opposizione all’esecuzione è oggi dichiarata non impugnabile dal nuovo art. 616 c.p.c., ma non crediamo possa dubitarsi dell’efficacia di giudicato sostanziale di una sentenza che, accogliendo l’opposizione, dichiari inesistente il credito per cui si procede (47).
Per altri versi, a una conclusione incline a conferire alle decisioni sul riparto a seguito di contestazione un’efficacia extra moenia executionis potrebbe giungersi argomentando a contrariis dal nuovo e infelice giudizio abbreviato di cui all’art. 624, comma 3°, c.p.c., applicabile anche ai provvedimenti di sospensione emessi in seno all’opposizione agli atti esecutivi (48): se soltanto la declaratoria di “ estinzione del pignoramento … con salvezza degli atti compiuti ”, emessa a seguito di sospensione della procedura esecutiva mediante ordinanza non impugnata o confermata dal collegio in sede di reclamo, ha efficacia endoprocessuale per esplicita norma di legge, la sentenza pronunciata sull’opposizione agli atti esecutivi contro il provvedimento del g.e. che risolve le contestazioni in sede di riparto acquista efficacia esoprocessuale di giudicato e produce effetti preclusivi sostanziali, quantomeno allorché delibi il merito dei crediti contestati (49).
A noi pare che l’argomento provi troppo e si discosti dall’intentio della novella. Seguendo questa tesi, da un lato, si perpetuerebbe e diverrebbe regola l’estensione dell’oggetto dell’opposizione agli atti esecutivi al contenuto sostanziale dei diritti azionati in executivis, laddove tale strumento – per il tema che ne occupa e pur se originariamente concepito per veicolare censure formali contro gli atti della procedura – è valso eccezionalmente a colmare deficit di tutela endoprocessuale, dando alle parti la possibilità di reagire a provvedimenti del giudice dell’esecuzione assunti ben prima della fase distributiva (exempli gratia, come ricordavamo nel paragrafo 1, in sede di conversione del pignoramento).
Dall’altro lato, viene in qualche misura tradito l’intento acceleratorio del conditor, che grandemente restringe la possibilità dei creditori di intervenire nell’espropriazione forzata, ancorandola a precisi presupposti di ammissibilità, proprio per evitare e ridurre al minimo le controversie in sede distributiva, da risolvere e decidere in forme rapide e in via di mero rito, verificando tout court la sussistenza o meno dei presupposti di ammissibilità dell’intervento e il grado di collocazione nel riparto. La scelta dello strumento dell’opposizione agli atti esecutivi per impugnare l’ordinanza del g.e. (che a seguito di contestazione, ammetta o escluda un interventore dal concorso o modifichi la graduazione dei crediti nel progetto di riparto, ritenendo incidenter tantum invalida o inefficace una causa di prelazione sostanziale o processuale), pur costituendo segno di qualche incertezza del novello legislatore, rivela la volontà di attribuire alla controversia l’oggetto e gli effetti meramente processuali tipici dell’opposizione ex art. 617 c.p.c. nella sua concezione “ pura ” e originaria. Vi è dunque, nella nuova ricostruzione strutturale delle controversie distributive, non già un “ tenace attaccamento al passato ” (come si legge nella dottrina qui criticata), bensì un ritorno alla funzione originaria e tipica dell’opposizione agli atti esecutivi, che valorizza appieno lo spirito e la portata innovativa della riforma: liberare il più possibile l’espropriazione forzata e gli eventuali incidenti cognitivi che la lambiscano da tutte le ingombranti sovrastrutture del procedimento contenzioso, per attuare nel modo più rapido la prestazione consacrata nel titolo esecutivo.
L’idea di un giudicato sostanziale o di una praeclusio pro iudicato, promanante quantomeno dalla sentenza resa sull’opposizione agli atti esecutivi avverso il provvedimento emesso dal giudice dell’esecuzione per risolvere le contestazioni in sede di riparto, contraddice l’ispirazione di fondo della novella, pur frettolosamente scritta ed approvata. Questa idea contrasta con il normale oggetto dell’opposizione agli atti esecutivi, che attiene al quomodo dell’esecuzione e, dunque, pur nell’ambiguità delle indicazioni provenienti dalla legge positiva, ha un oggetto processuale, si occupa di “ nur prozessual erhebliche Tatsachen ”, per dirla con i tedeschi (50).
Ne dà conferma l’implicita abrogazione del pur sopravvissuto art. 17, ultimo comma, c.p.c., posto che delle controversie distributive si occupa sempre e funzionalmente il giudice dell’esecuzione, anche in caso di opposizione agli atti esecutivi contro l’ordinanza che risolve la contestazione del credito in prima battuta, non più il giudice del merito competente per valore: ciò che, nel regime ante vigente, confermava, secondo alcuni, la proiezione sostanziale degli effetti della sentenza resa sulle controversie in materia distributiva (51).
Né, ci pare, può trasfigurarsi l’oggetto dell’accertamento demandato al g.e., in forme sommarie e superficiali nella prima fase ex art. 512 c.p.c., con plena cognitio nella fase di controllo del provvedimento, a seguito di opposizione agli atti esecutivi: l’oggetto, come era meramente processuale ed endoesecutivo nella prima fase di delibazione sommaria, è e resta processuale, senza alcuna metamorfosi, nel giudizio a cognizione piena introdotto dall’opposizione agli atti esecutivi.
8. – Nella visione del conditor del nuovo millennio, che produce ad consequentias il programma del legislatore del 1940, la disciplina degli interventi si impernia sul titolo esecutivo: l’espropriazione deve procedere spedita verso il suo risultato, senza arresti o incidenti di cognizione che non siano indispensabili e che, quando indispensabili, vengano risolti nelle forme più snelle e nei tempi più rapidi.
Pietra angolare è il titolo esecutivo, che dà al creditore il potere di espropriare i beni del debitore o, a sua scelta, di intervenire nell’espropriazione da altri promossa. Tale potere, grazie al titolo esecutivo, astrae dal diritto sostanziale e si traduce, mercé l’intervento, in un diritto processuale a concorrere alla distribuzione del ricavato.
In questo panorama, il quomodo non è neutro rispetto agli effetti scaturenti dall’intervento e dalle controversie sul riparto. Il diritto di credito fatto valere mediante intervento in seno al processo di espropriazione forzata si traduce in una domanda di partecipare alla distribuzione del ricavato; tutte le contestazioni (o le non contestazioni) che lo riguardano restano circoscritte a quella specifica procedura esecutiva, senza alcun effetto al di fuori di essa, senza conformare di sé il rapporto sostanziale tra creditore e debitore, ma in funzione meramente strumentale alla soddisfazione materiale del credito, con salvezza delle azioni di ripetizione o di arricchimento senza causa, qualora il titolo della dazione venga successivamente a cessare o risulti inesistente.
L’oggetto della domanda è la partecipazione al concorso: il possesso di un titolo esecutivo o, a seconda dei casi, la titolarità di un diritto di prelazione con sequela, di un sequestro conservativo sul bene staggito o (finché non sopravvenga una declaratoria d’incostituzionalità) la produzione di un estratto autentico delle scritture contabili, costituiscono requisiti di legittimazione a intervenire in executivis, che il giudice dell’esecuzione è chiamato a delibare, in una prima fase superficialmente, dipoi con plena cognitio in caso di opposizione agli atti esecutivi. La cognizione del giudice dell’esecuzione, sommaria o piena che sia, cade soltanto sulla legittimazione dei creditori intervenuti a essere collocati nel progetto di riparto del ricavato di quell’espropriazione forzata singolare; l’accertamento che è demandato al giudice verte su un nur prozessuale Streitgegenstand, id est sull’ammissibilità della domanda di partecipare al riparto, in grazia dei presupposti (processuali, appunto) che la legge specificamente contempla per essere ammessi a intervenire in sede esecutiva, non potendosi escludere che, pur in mancanza di quei presupposti, il credito esista nel campo dei rapporti sostanziali.
In quest’ottica, l’intervento nell’espropriazione singolare è semplice strumento di attuazione e di realizzazione della garanzia patrimoniale. Il creditore che interviene in una procedura espropriativa persegue tout court la realizzazione del credito e chiede semplicemente di potersi soddisfare sul denaro ricavato dalla vendita forzata dei beni pignorati.
In una parola, con l’intervento nell’espropriazione forzata il credito pecuniario si trasfigura in diritto processuale al concorso e le decisioni che lo investono non varcano le colonne d’Ercole di quella singola procedura.
(1) Il legislatore del 1940 si pone, apertis verbis, sulla via perspicuamente tracciata da E.T. Liebman, Le opposizioni di merito nel processo esecutivo, Roma 1931 (le citazioni vengono tratte, però, dalla 2ª ed., Roma 1936), che delle nuove soluzioni adottate dal codice costituiva, in certo modo, l’anticipato commento.
(2) V. F. Carnelutti, Lezioni di diritto processuale civile. Processo di esecuzione, I, Padova 1931-1932, 298; v. anche l’art. 434 del Progetto Carnelutti del 1926; S. Pugliatti, Esecuzione forzata e diritto sostanziale, Milano 1935, 377; nonché, sia pur dubitativamente, E.T. Liebman, Le opposizioni, cit., 202, nota 3.
(3) Cfr. Menestrina, L’accessione nell’esecuzione, Milano 1901 (rist. 1962), 205 ss.; V. Andrioli, Il concorso dei creditori nell’esecuzione singolare, Roma 1937, 12 ss.; E. Garbagnati, Il concorso dei creditori, Milano 1938, 140 ss.
(4) E. Garbagnati, Il concorso di creditori nel processo di espropriazione, Milano 1983, 12 ss.
(5) L. Mortara, Commentario del codice e delle leggi di procedura civile, V, Milano, s.d. (ma 1905), 248 ss., attribuiva alla domanda di collocazione “ ufficio analogo ad una citazione per pagamento ”; cfr. anche A. Segni, La sentenza dichiarativa di fallimento, in Riv. dir. comm. 1938, I, 236 ss., secondo cui “ la graduazione non è esecuzione: essa non costituisce applicazione di sanzioni esecutive in quanto con l’espropriazione (vendita) la sanzione contro il debitore è stata applicata ”.
(6) E. Garbagnati, Il concorso di creditori, ult. cit., 78 ss.: “ la formazione del riparto non implica, di per sé, un accertamento giurisdizionale del diritto dei creditori concorrenti, neppure se sforniti di titolo esecutivo ”; “ infatti, il provvedimento col quale il giudice dell’esecuzione include nello stato di riparto un creditore non contestato (munito, o meno, di titolo esecutivo), non ha sicuramente efficacia di cosa giudicata, in merito al suo diritto di credito, e neppure efficacia di titolo esecutivo, a’ sensi dell’art. 474 c.p.c.; ma, soprattutto, non si comprende come potrebbe farsi luogo ad un mero accertamento, indipendentemente dall’esistenza di una situazione d’incertezza giuridica (e quindi, del normale presupposto per il concreto esercizio della giurisdizione di mero accertamento). Analogamente, E. Allorio, Saggio polemico sulla “ giurisdizione ” volontaria, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1948, 487 ss.; Id., Su una recente costruzione dell’esecuzione forzata, in Giur. it. 1950, IV, 161 ss., in coerenza con la concezione alloriana di una correlazione necessaria e indissolubile tra giurisdizione e giudicato, onde l’esecuzione forzata è attività di amministrazione affidata ai giudici; S. Satta, L’esecuzione forzata, Torino 1950, 115 e 181; V. Denti, Distribuzione della somma ricavata, in Enc. dir., XIII, Milano 1964, 321 ss.; G. Tarzia, L’oggetto del processo di espropriazione, Milano 1961, 50 ss.; S. Chiarloni, Giurisdizione e amministrazione nell’espropriazione forzata, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1993, 110 ss.; G. Verde, Intervento e prova del credito nell’espropriazione forzata, Milano 1968, 43 ss.; A. Saletti, Processo esecutivo e prescrizione, Milano 1992, 182 ss.; R. Oriani, L’opposizione agli atti esecutivi, Napoli 1987, 190 ss.; Id., La determinazione dei crediti ai fini del concorso, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1993, 131 ss.; F.P. Luiso, Diritto processuale civile, Il processo esecutivo, III, Milano 1999, 158 ss.; M. Bove, L’esecuzione forzata ingiusta, Torino 1996, 157 ss.
(7) L. Montesano, La cognizione sul concorso dei crediti nell’esecuzione ordinaria, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1968, 561 ss.; Id., In difesa del titolo esecutivo e della cognizione distributiva, in questa Rivista 1971, 595 ss.; Id., La tutela giurisdizionale dei diritti, Torino 1994, 205 ss., specialmente in nota 281; C. Mandrioli, L’azione esecutiva. Contributo alla teoria unitaria dell’azione e del processo, Milano 1954, 547 ss. (tesi poi modificata in Id., Corso di diritto processuale civile, III, Torino 1978, 58); Costa, L’intervento in causa, Torino 1953, 337 ss.; L. Lanfranchi, La verificazione del passivo nel fallimento, Milano 1979, 214 ss., con ampio riesame della questione e dovizia di richiami dottrinali.
(8) Cfr. E. Redenti, M. Vellani, Diritto processuale civile, III, Milano 1999, 284: il riparto, quando giunga a termine, sarà ormai irrevocabile ed inoppugnabile agli effetti del procedimento in corso, in quanto assistito da una preclusione pro iudicato. Ma la sua efficacia non si può estendere fuori di questo àmbito (salvo fare sorgere di fatto contro il debitore una semplice presunzione hominis). Il debitore aveva infatti la facoltà di sollevare a questi effetti tutte le sue contestazioni, ma non si può desumere che abbia taciuto cum loqui potuit ac debuit anche ad effetti dei quali per il momento non era questione e sui quali non si può ritenere che fosse provocato ad interloquire. Analogamente G. Verde, B. Capponi, Profili del processo civile, Processo di esecuzione e procedimenti speciali, III, Napoli 2006, 192.
(9) Si è rilevata, in dottrina, l’illogicità di ipotizzare la presenza di momenti cognitivi all’interno del processo esecutivo soltanto nelle ipotesi di effettivo instaurarsi di controversie e si è sostenuta la necessità che l’intervento dei creditori privi di titolo esecutivo fosse sempre preceduto da una cognizione sommaria del giudice dell’esecuzione, onde acquisire la “ certezza ” sul credito per finalità endoesecutive: cfr., soprattutto, G. Verde, Intervento, cit., 35 ss.; analogamente B. Capponi, La verificazione dei crediti nell’espropriazione forzata, Napoli 1990, 84 ss.
(10) A quest’orientamento si opponeva strenuamente F.P. Luiso, op.cit., 102 ss.; ma la giurisprudenza ha sempre richiesto all’interveniente di legittimarsi a concorrere al riparto del ricavato mediante prova scritta: cfr. B. Capponi, Sulla prova (documentale) del credito nell’esecuzione forzata, in Giust. civ. 1987, I, 2936 ss.
A torto Cass., 21 aprile 2000, n. 5266, in Giust. civ. 2000, I, 2616, viene indicata quale eccezione alla regola giurisprudenziale (ad esempio, da M. Bove, in G. Balena-M. Bove, Le riforme più recenti del processo civile, Bari 2006, 177, nota 9), poiché in quel caso, in realtà, l’interveniente era munito addirittura di un titolo esecutivo, che aveva prodotto e depositato nel corso della procedura, anziché con la domanda di intervento: il giudice dell’esecuzione aveva comunque ritenuto necessaria anche la sua rinuncia, oltre a quella del creditore procedente, prima di estinguere la procedura, giusta il tenore della motivazione e della massima ufficiale, nelle quali si legge che “ nell’esecuzione forzata, l’esistenza e il carattere documentale del titolo esecutivo non sono condizioni dell’intervento dei creditori, essendo sufficiente la preesistenza e l’allegazione di una ragione di credito e potendo farsi luogo al deposito del titolo esecutivo successivamente fino alla fase della distribuzione del ricavato, salvo che non ne sorga la necessità in un momento anteriore; pertanto, poiché, ai fini dell’estinzione, la rinuncia agli atti del processo esecutivo, prima dell’aggiudicazione o dell’assegnazione, deve essere compiuta dal creditore procedente e da quelli intervenuti muniti di titolo, è in questo momento che i creditori, che vogliano proseguire il processo esecutivo in luogo di quello che l’ha promosso, devono depositare il titolo esecutivo (nella specie, in applicazione di tale principio, la Suprema Corte ha confermato la decisione di merito che aveva respinto l’istanza di estinzione per rinuncia del creditore pignorante, avendo uno degli intervenuti depositato il titolo esecutivo relativo al credito per cui vi era stato intervento, ritenendo irrilevante sia il mancato deposito del titolo esecutivo sia la mancata enunciazione dello stesso con e nell’atto di intervento) ”.
(11) V. R. Oriani, L’opposizione agli atti esecutivi, cit., 51 ss., il quale, peraltro, limita i poteri cognitivi del giudice dell’opposizione all’esame dei requisiti processuali dell’intervento, senza alcuna estensione al merito della domanda, in quanto l’opposizione ex art. 617 appare costituzionalmente incapace di introdurre deduzioni inerenti alla fattispecie sostanziale del diritto di credito.
(12) Cfr. sul punto, con efficace sintesi, R. Vaccarella, Titolo esecutivo, precetto, opposizioni, Torino 1993, rist. 1994, 67 ss.
(13) C. Mandrioli, L’azione esecutiva, cit., 55 e 551; F.P. Luiso, op. cit., 170, secondo cui, se il legislatore avesse voluto privare tale pronuncia di effetti extraprocessuali, cioè al di là della distribuzione del ricavato, non avrebbe affermato applicabili le regole ordinarie di competenza, ma avrebbe dichiarato competente il giudice dell’esecuzione; E. Redenti, M. Vellani, op. cit., 284 s. – dopo aver respinto l’idea che le pronunce sulle contestazioni insorte, poiché traggono origine e materia da un episodio della procedura di riparto, abbiano un’efficacia soltanto relativa al procedimento esecutivo e non acquistino efficacia di cosa giudicata in senso sostanziale – ritengono più conforme al sistema, che prevede la partecipazione necessaria del debitore esecutato in un giudizio di cognizione piena a contraddittorio pieno, che possa sorgerne nell’occasione un accertamento incidentale a tutti gli effetti, anche estranei all’esecuzione e al riparto in corso, in analogia ai casi dell’art. 34 c.p.c., con divieto per il debitore di ripetere quanto ciascuno dei creditori ha percepito in sede di riparto, perché vi osta la preclusione pro iudicato o l’autorità (per lo meno a questo effetto) della cosa giudicata.
Contrario a questa impostazione è E.F. Ricci, Formazione del passivo fallimentare e decisione sul credito, Milano 1979, 52 ss. e Id., Efficacia ed oggetto delle sentenze sulle opposizioni e sulle impugnazioni nella formazione del passivo fallimentare, in questa Rivista 1992, 1073 ss., che concepisce il diritto al concorso come situazione giuridica endoprocessuale, che ha efficacia solo all’interno della procedura singolare o concorsuale, con esclusione di qualsiasi accertamento sull’esistenza del credito capace di valere anche al di fuori della procedura nei rapporti tra il creditore e il debitore. Invero, il riparto richiede all’interno della fase distributiva del processo esecutivo un accertamento non sul credito come diritto sostanziale, ma sulla pretesa a percepire quel certo importo a disposizione del creditore nell’ambito della fase satisfattiva. Vero e proprio oggetto della statuizione sul credito nelle controversie sul riparto, quale ultimo anello della catena percorsa dal ragionamento del giudice, è l’attitudine del credito a concorrere nella procedura, id est il diritto al concorso, che non vive sul terreno dei rapporti sostanziali, come situazione corrente tra il creditore e il debitore, ma è situazione giuridica interna ad ogni singola procedura; mentre le valutazioni sull’esistenza del credito, quando siano necessarie, appartengono al novero della cognizione sulle questioni pregiudiziali, che di regola ha luogo incidenter tantum, senza alcuna efficacia vincolante al di fuori del processo nel quale essa si compie.
(14) B. Capponi, La verificazione,cit., 136 ss.; v. anche, sul progetto di quelle che diverranno poi le nuove norme, B. Capponi, A. Storto, Prime considerazioni sul d.d.l. Castelli recante “modifiche urgenti al codice di procedura civile”, in relazione al processo di esecuzione forzata, in Riv. esec. forzata 2002, 176, secondo i quali, prevedendo la possibilità di promuovere opposizione agli atti esecutivi contro il provvedimento del giudice dell’esecuzione su un credito concorrente, si sarebbe fatta giustizia dell’idea che il giudice dell’esecuzione non potrebbe mai accertare le situazioni sostanziali sottostanti all’attuazione forzata e, in secondo luogo, si sarebbe superata l’idea per cui l’opposizione agli atti esecutivi non sarebbe idonea ad ospitare controversie di merito, ossia attinenti a situazioni sostanziali. Contra, per tutti, R. Oriani, L’opposizione agli atti esecutivi, cit., 51 ss. e 202 ss.
(15) Così R. Vaccarella, Le linee essenziali del processo esecutivo secondo il progetto della commissione Tarzia, in questa Rivista 1998, 367.
(16) Cfr. E.T. Liebman, Le opposizioni, cit., 81 ss., in particolare sul sistema delle lettres obbligatoiresfaites et passées sous Scel Royal, che consentivano ai sergents, espressione del potere centrale, di procedere all’esecuzione senza bisogno di alcuna autorizzazione del giudice; sull’idea, proveniente ab antiquo, che l’esecuzione costituisca manifestazione di imperium, più che di giurisdizione v. anche E. Allorio, Esecuzione forzata, in Nuovo dig. it., V, Torino 1937, 507, nonché la sintesi storica di R. Vaccarella, Titolo esecutivo, cit., 4 ss. e 12 ss.
(17) Così, invece, A. Proto Pisani, Le modifiche al codice di procedura civile previste dalla l. n. 80 del 2005. Premessa, in Foro it. 2005, V, 92; F.P. Luiso, Appunti sulla riforma, in www.judicium.itsub C, secondo cui una corretta interpretazione sistematica del principio enunciato dall’art. 2741 c.c. – la c.d. par condicio – conduce a ritenere che questa norma non si rivolge certamente al legislatore sostanziale (quasi gli inibisse di creare ragioni di prelazione), ma si rivolge al legislatore processuale, dicendogli: struttura gli strumenti di tutela esecutiva in modo tale da rispettare le volontà del legislatore sostanziale; e cita il caso del lavoratore subordinato, assistito soltanto da privilegio generale senza sequela; cfr. anche E. Fabiani, Le modifiche al codice di procedura civile previste dalla l. n. 80 del 2005. Intervento dei creditori, in Foro it. 2005, V, 116 ss. e 122.
(18) Cfr. M. Bove, in Balena, Bove, op. cit., 187.
(19) V. sempre M. Bove, in Balena, Bove, 188 ss. e 272 ss.
(20) Sul carattere essenzialmente programmatico della norma contenuta nell’art. 2741 c.c. v., per tutti, R. Nicolò, Della responsabilità patrimoniale, in Commentario Scialoja-Branca, Bologna-Roma 1945, 17 ss.; P.G. Jaeger, Par condicio creditorum, in Giur. comm. 1984, I, 89 ss., il quale (alle p. 104 s.) conclude che la par condicio creditorum non è un principio assoluto, ispirato a interessi superiori, di carattere economico, sociale o ideologico, riconoscendo alla regola un valore meramente residuale e notando come essa risponda, piuttosto, a criteri di “ ordine ” nelle procedure concorsuali, che passano in secondo piano di fronte al riconoscimento di interessi prevalenti meritevoli di tutela. Anche per V. Colesanti, Mito e realtà della “ par condicio ”, in Il Fallimento 1984, 34, si assiste a una mitizzazione della par condicio, il cui contenuto troppo spesso viene dato per scontato a priori, come una sorta di assoluto o un qualcosa di rispondente a un principio di “ ragion naturale ”: nel sistema dell’art. 2741 c.c. l’eguale diritto dei creditori rappresenta la regola tendenziale, e solo tendenziale, dell’attuazione del concorso, che infatti può essere tranquillamente derogata; nonché, da ultimo, S. Ziino, Esecuzione forzata e intervento dei creditori, Palermo 2004, 165 ss., ove si sottolinea che l’art. 2741 c.c. consente a tutti i creditori di aggredire i beni del debitore e di avvalersi delle altre forme di tutela della garanzia patrimoniale, ma non regola la realizzazione forzata dei crediti; con il corollario che la destinazione del patrimonio a tutela dei diritti di tutti i creditori è rispettata anche se il processo di espropriazione individuale prevede discriminazioni tra i creditori, mentre l’art. 2741 c.c. garantisce soltanto una situazione di parità tra creditori prima dell’esecuzione forzata e considera come principio di ordine pubblico la destinazione del patrimonio del debitore come garanzia generica dei rapporti obbligatori, destinazione che si concreta nel divieto di cause di preferenza atipiche e preserva il ceto creditorio dalla costituzione di prelazioni innominate sui beni del debitore, sì da salvaguardare il legittimo affidamento sulla consistenza patrimoniale nel suo insieme.
(21) Sulle dimensioni e sui limiti della regola della par condicio creditorum nel nostro sistema v., oltre agli scritti ricordati nella nota precedente, P. Schlesinger, L’uguale diritto dei creditori di essere soddisfatti sui beni del debitore, in questa Rivista 1995, 319 ss.; G. Tarzia, Par aut dispar condicio creditorum?, in questa Rivista 2005, 1 ss.
(22) Così, sin dal titolo del paragrafo, S. Ziino, op. cit., 174 ss. Esprime dubbi sul carattere immanente del principio di par condicio creditorum anche S. Chiarloni, Giurisdizione e amministrazione nell’espropriazione forzata, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1993, 106 ss.
(23) Cfr. S. Ziino, op. cit., 180.
(24) V. Menestrina, L’accessione nell’esecuzione, cit., 25 ss. Ampi riferimenti storici in Carnacini, Espropriazione individuale e pluralità di creditori, Bologna 1941, 30 ss. e in S. Ziino, op. cit., 43 ss. V. Colesanti, op. loc. cit., ricorda l’evoluzione storica del processo esecutivo francese in cui, quale retaggio del pignus in causa iudicati captum o pignus iudiciale e iuxtaius commune, il primo saisissant aveva una prelazione sui beni aggrediti che successivamente, nel droit coutumier, veniva privata di effetti in ipotesi di déconfiture del debitore esecutato, cioè quand’egli era privo di altri beni utilmente pignorabili. La regola della par condicio creditorum nasceva qui per il caso di insufficienza del patrimonio del debitore o di liquidazione di tutti i suoi beni. Nel momento in cui il code civil Napoléon assegnava all’intero patrimonio del debitore una funzione di garanzia, anzi ex litteris di gage commun dei creditori, venne naturale esplicitare la regola del pari concorso par contribution. Il che, purtuttavia, non significava sganciarla dal precipuo riferimento ai casi di liquidazione concorsuale dell’intero patrimonio, poiché – per usare le parole di Colesanti – “ il trattamento egualitario dei creditori nella déconfiture del debitore, in deroga all’altrimenti imperante regola delle prelazioni processuali, lascia intendere che è proprio nell’incapienza patrimoniale del debitore decotto che s’è ab origine ravvisata la ratio giustificativa dell’attuazione del concorso su base paritaria anziché secondo l’ordine delle iniziative ”.
(25) Cfr. R. Perrot, P. Théry, Procédures civiles d’exècution, Paris 2000, 383 ss., 538 ss.; J. Vincent, J. Prèvault, Voies d’exècution et procédures de distribution, Paris 1995, 337 ss. e 379 s.
(26) Così R. Vaccarella, Le linee essenziali del processo esecutivo secondo il progetto della commissione Tarzia, in questa Rivista 1998, 368; nello stesso senso R. Oriani, L’opposizione agli atti esecutivi, Napoli 1987, 199; Id., La determinazione dei crediti ai fini del concorso, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1993, 162 ss.; B. Capponi, A. Storto, Prime considerazioni sul d.d.l. Castelli recante “modifiche urgenti al codice di procedura civile”, in relazione al processo di esecuzione forzata, in Riv. esec. forzata 2002, 163.
Contra E. Garbagnati, Il concorso di creditori nel processo di espropriazione, Milano 1983, 21; Id., Concorso dei creditori, in Enc. dir., VIII, Milano 1961, 534: “ se fosse negato ad un creditore chirografario, privo di titolo, il potere di partecipare all’assegnazione della somma ricavata dalla vendita forzata di un bene pignorato, o all’assegnazione forzata del medesimo bene, il possesso del titolo esecutivo si risolverebbe praticamente in una specie di privilegio ”; nonché, S. Ziino, op. cit., 243 ss., secondo cui, imponendo ai creditori intervenienti di possedere un titolo esecutivo, il processo esecutivo perderebbe la propria funzione strumentale e costituirebbe, invece, uno strumento per attribuire cause di prelazione di natura processuale.
(27) Cfr. G. Tarzia, Par aut dispar condicio creditorum?, cit., 9 s.; analogamente M. Bove, in G. Balena, M. Bove, Le riforme,cit., 180 s.
(28) Analogamente M. Bove, in G. Balena, M. Bove, op. cit., 183, secondo cui il principio della par condicio creditorum non può trovare attuazione nell’esecuzione singolare, ma può e deve trovare attuazione in un modello di esecuzione concorsuale; l’art. 2741 c.c. acquista una valenza reale non certo quando il patrimonio del debitore è idoneo a soddisfare tutti i creditori, bensì quando esso diventa insufficiente.
(29) V. L. Guglielmucci, La legge tedesca sull’insolvenza (Insolvenzordnung), Milano 2000, 1 ss.; C. Ferri, La “ grande riforma ” del diritto fallimentare nella Repubblica Federale Tedesca, in questa Rivista 1995, 176 ss. Per un commento al § 88 della Insolvenzordnung v. H. Hess, in Hess, Weiss, Wienberg, Kommentar zur Insolvenzordnung mit EGInsO, I, Heidelberg 2001, 952 ss.
(30) Sul tema v. M.F. Gaul, Rechtsverwirklichung durch Zwangsvollstreckung aus rechtsgrundsätzlicher und rechtsdogmatischer Sicht, in ZZP 1999, 157; cfr. anche G. Tarzia, La distribution des deniers dans l’exécution forcée en Europe, in Revue internationale de droit comparé 1999, 331 ss. Ampie notizie storiche e comparatistiche sul differente inquadramento dell’insolvenza negli ordinamenti latini rispetto a quelli di tipo germanico e sull’evoluzione dell’esperienza italiana e di quella francese in E. Frascaroli Santi, Crisi dell’impresa e soluzioni stragiudiziali, Padova 2005, 33 ss.
(31) In tal senso v., invece, S. Ziino, op. cit., 243 s., nonché, sia pur dubitativamente, E. Fabiani, Intervento dei creditori, in Le modifiche al codice di procedura civile previste dalla l. n. 80 del 2005, in Foro it. 2005, V, 121 s., su uno spunto di A. Proto Pisani, Premessa, in Le modifiche al codice di procedura civile previste dalla l. n. 80 del 2005, cit., 92.
(32) Cfr., a contrariis, R. Oriani, La determinazione dei crediti, cit., 165, che pone l’accento sul fatto che il possesso del titolo esecutivo non si può pretendere da chi è titolare di un diritto di prelazione sul bene pignorato, in procinto di venir meno per l’effetto purgativo della vendita forzata; viceversa, ci pare che il possesso di un titolo esecutivo può essere legittimamente richiesto a chi abbia soltanto un privilegio generale sui beni del debitore, senza diritto di sequela. V., infatti, in tal senso M. Bove, in G. Balena, M. Bove, op. cit., 185 s.
(33) V. anche M. Bove, in G. Balena, M. Bove, op. cit., 179.
(34) Cfr. B. Capponi, L’intervento dei creditori dopo le tre riforme della XIV Legislatura, in www.judicium.it, § 8.
(35) Cfr. V. Colesanti, Il terzo debitore nel pignoramento di crediti, II, Milano 1967, 408, secondo cui la dichiarazione del debitor debitoris non rappresenta nient’altro che una dichiarazione di scienza di un terzo, della quale il creditore procedente si serve per acquisire al giudizio fatti e circostanze che sarebbe impossibile ottenere in altro modo; sicché non si può attribuire all’accertamento del credito contenuto nell’ordinanza di assegnazione altra funzione che quella di perfezionare il pignoramento presso terzi (v. 251 ss.).
(36) Così, invece, M. Bove, in G. Balena, M. Bove, op. cit., 185.
(37) M. Bove, ibidem.
(38) Questo problema attinge al più ampio contesto della stabilità degli effetti del riparto, di cui ci si occuperà infra, al par. seguente, sia pur con la sintesi appropriata alla natura e agli scopi di questo scritto.
(39) Cfr. A. Proto Pisani, Novità in tema di opposizioni in sede esecutiva, in Foro it. 2006, V, 212 ss., par. 5, secondo cui il riconoscimento non vincola i creditori concorrenti. Cfr. anche B. Capponi, L’opposizione distributiva dopo la riforma dell’espropriazione forzata, in www.judicium.it, par. 5, in corso di pubblicazione su Corr. giur. 2006.
(40) Il legislatore fornisce, involontariamente, un’indicazione sulla durata ragionevole di un processo ordinario di cognizione in primo grado, ai fini dell’applicazione degli artt. 111 Cost. e 6 CEDU, nonché della cosiddetta legge Pinto sul risarcimento del danno per violazione del termine ragionevole del processo (legge 24 marzo 2001, n. 89).
(41) V. supra in nota 13.
(42) In tal senso v. M. Bove, in Balena, Bove, op. cit., 256. Contra A. Barletta, Questioni sul nuovo titolo esecutivo, in www.judicium.it, § 5, secondo cui “ non vi dovrebbero essere dubbi sulla possibilità di riconoscere all’ordinanza, emanata a conclusione di tale procedimento, natura decisoria, suscettibile di acquisire efficacia di giudicato, sia pure nei ristretti limiti oggettivi riconosciuti all’efficacia preclusiva del decreto ingiuntivo non opposto (preclusione pro iudicato) ”.
(43) Cfr. C. Furno, Disegno sistematico delle opposizioni nel processo esecutivo, Firenze 1942, 180 ss.; v. anche R. Vaccarella, Titolo esecutivo, precetto, opposizioni, Torino 1993 (rist. 1994), 70.
(44) Così, infatti, B. Capponi, op. ult. cit., par. 3.
(45) Così C. Mandrioli, Opposizione all’esecuzione, in Enc. dir., XXX, Milano 1980, 453.
(46) Così sempre, incisivamente, C. Mandrioli, voce cit., 451.
(47) Cfr. R. Vaccarella, op. cit., 74 ss., anche per le debite distinzioni sull’oggetto del giudizio di opposizione e sull’efficacia della pronuncia di rigetto, circoscritta al motivo addotto, poiché – come scriveva S. Satta, Commentario al c.p.c., III, Milano 1965, 466 – la sostanza dell’opposizione è sempre quella dell’eccezione, onde si rende applicabile il principio quae temporalia ad agendum perpetua ad excipiendum: una sentenza, cioè, idonea al giudicato sostanziale se di accoglimento dell’eccezione, ma del tutto inidonea a produrre altro che un’efficacia preclusiva endoprocessuale se di rigetto dell’eccezione, senza che ciò implichi alcuna anomalia per l’efficacia variabile del giudicato secundum eventum litis.
(48) Su questa norma, mal concepita e peggio scritta, v. R. Oriani, La sospensione dell’esecuzione (sul combinato disposto degli artt. 615 e 624 c.p.c.), in www.judicium.it, §§ 19 ss.; M. Bove, in Balena, Bove, op. cit., 304 ss.; S. Recchioni, I nuovi artt. 616 e 624 c.p.c. fra strumentalità cautelare “ attenuata ” ed estinzione del “ pignoramento ”, in questa Rivista 2006, 660 ss.
(49) Cfr., in particolare, B. Capponi, op. ult. cit., par. 3, secondo cui l’oggetto di questa opposizione agli atti esecutivi “ dipenderà, venuta meno la possibilità di concorso con la “ vecchia ” opposizione formale ex art. 512, dalla singola contestazione sollevata: essa potrà avere un contenuto meramente rituale (non avere l’intervenuto sine titulo prodotto l’estratto autentico delle scritture contabili obbligatorie, ovvero non aver dimostrato l’avvenuta promozione nei termini del giudizio di cognizione volto alla formazione del titolo esecutivo; non avere, per altro verso, l’intervenuto prodotto il titolo esecutivo a sostegno dell’azione spiegata, dovendosi tale produzione ritenere necessaria almeno ai fini della distribuzione, etc.) ovvero di genuina contestazione del diritto: nel primo caso il provvedimento di esclusione – quale che ne sia la forma: ordinanza del g.e. o sentenza ex art. 618 c.p.c. – appare limitato al riscontro del difetto di una situazione legittimante, che in quanto tale non potrebbe che essere riferita alla singola esecuzione in corso; mentre, negli altri casi, non si scorgerebbe ragione perché l’accertamento in una sede di cognizione ordinaria dell’inesistenza del diritto (ad es., nel caso di pagamento effettuato dopo la formazione del titolo esecutivo) non debba valere ad ogni effetto, soltanto per la ragione che tale accertamento ha avuto luogo non nell’unico grado dell’opposizione all’esecuzione, ma nell’unico grado dell’opposizione agli atti esecutivi ”.
Pertanto, prosegue l’Autore, “ gli argomenti spesi a dimostrazione dell’intervenuta mutazione istituzionale della controversia distributiva (da giudizio di merito a giudizio avente contenuto meramente processuale su di un astratto diritto al concorso) testimoniano non più che un tenace attaccamento al passato ”, laddove “ la portata innovativa dell’attuale riforma, meno radicalmente rispetto a quanto da altri ritenuto, va colta sul riflesso che l’opposizione distributiva ha cessato di essere un ordinario giudizio di cognizione, articolato nel duplice grado di merito, per assumere le forme – in sede di cognizione ordinaria – dell’opposizione agli atti, filtrata, all’interno all’esecuzione, dal provvedimento del g.e. che opera facendo uso dei suoi normali poteri ordinatorî: ciò che certamente non farebbe venir meno il contenuto sostanziale di tali controversie che, ora come allora, potranno interessare tanto il merito dei diritti in concorso, quanto la sussistenza delle cause di prelazione, di ordine sia sostanziale che processuale ”.
(50) Rimmelspacher, Zur Prüfung von Amts wegen im Zivilprozess, Göttingen 1966, 149; Peters, Der sogenannte Freibeweis im Zivilprozess, Köln-Berlin 1962, 77 ss.
(51) F.P. Luiso, Diritto processuale civile,cit., III, 170. Nel senso della tacita abrogazione per incompatibilità dell’art. 17, ultimo comma, c.p.c. v. anche R. Oriani, Le modifiche al codice di procedura civile previste dalla l. n. 80 del 2005, IV, Titolo esecutivo, opposizioni, sospensione dell’esecuzione, in Foro it. 2006, V, 104 ss., par. 2; M. Bove, in Balena, Bove, op. cit., 263. Contra B. Capponi, op. ult. cit., par. 4, secondo cui il giudice dell’opposizione distributiva, “ dopo aver eventualmente assunto i provvedimenti “opportuni” e quelli “indifferibili” (tra cui è ora, per espressa menzione, il provvedimento di sospensione) ”, deve rimettere il merito della causa al giudice competente ex art. 17 c.p.c.