Alfredo Montagna, La tutela penale del made in Italy, fra origine e qualità del prodotto, in Cassazione penale, 2009, 9, p. 1014.
LA TUTELA PENALE DEL MADE IN ITALY FRA ORIGINE E QUALITÀ DEL PRODOTTO
di Alfredo Montagna (Sostituto procuratore generale della Corte di cassazione)
Sommario 1. La questione. — 2. Il quadro normativo. — 3. Le conseguenze.
Nel commentare l’ennesima decisione (riportata in calce) della terza sezione in tema di tutela di origine dei prodotti si ripercorre sinteticamente la storia normativa, nazionale e sovranazionale, in materia, evidenziando la necessità, non sempre rispettata anche dal giudice di legittimità, di rispettare i criteri sistematici generali, in uno con l’analisi della specificità del caso, come quella della differenziazione tra prodotti industriali e agricoli.
- LA QUESTIONE
La decisione mostra il proprio interesse in quanto, affrontando per l’ennesima volta la questione dell’origine e qualità dei prodotti, specifica, in una fattispecie nella quale sulle confezioni del prodotto era stata apposta la dicitura fabbricante seguita dalla ragione sociale di una ditta nazionale, che per ritenere configurabile il reato di cui all’art. 517 c.p. non rileva l’origine geografica del prodotto, bensì il fatto che può definirsi fabbricante soltanto il soggetto che ponga in circolazione il bene avendo partecipato al processo di produzione.
In un precedente del 2005 (1), e con riferimento ad una fattispecie nella quale erano stati intercettati prodotti di abbigliamento (magliette) provenienti dalla Romania e recanti l’etichetta made in Italy era stato affermata la configurabilità del reato di vendita di prodotti industriali con segni mendaci (artt. 517 c.p. e 4, comma 49,l. 24 dicembre 2003, n. 350); nel caso era stato messo in commercio con la dicitura made in Italy un prodotto fabbricato all’estero per conto di un produttore italiano che aveva inviato prodotti semilavorati per l’assemblaggio secondo un modello predefinito, e si era affermato che tale prodotto non potesse considerarsi di origine italiana, in quanto la disciplina di settore (art. 4, comma 61, l. 350 del 2003), considera tale marchio posto a tutela di merci integralmente prodotte sul territorio italiano o assimilate ai sensi della normativa europea in materia di origine. Una affermazione confortata dal richiamo agli artt. 23 e 24 del Regolamento CEE n. 2913 del 12 ottobre 1992, ai sensi dei quali il marchio made in Italy può essere utilizzato quando il prodotto è interamente fabbricato in Italia o in Italia sia avvenuta l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale, che si sia conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo, o abbia rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione.
- IL QUADRO NORMATIVO DI RIFERIMENTO
Per meglio affrontare la questione occorre muoversi dalla ricostruzione del quadro normativo di riferimento, ed in primis dall’art. 517 c.p., che punisce «chiunque pone in vendita o mette altrimenti in circolazione opere dell’ingegno o prodotti industriali con nomi, marchi o segni distintivi nazionali od esteri atti a trarre in inganno il compratore sull’origine, provenienza o qualità dell’opera o del prodotto».
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Al quadro normativo codicistico si è poi aggiunta la l. 24 dicembre 2003, n. 350 (legge finanziaria 2004) che ha dettato, con l’art. 4, disposizioni a tutela delle merci prodotte nel territorio italiano; infatti ai sensi del primo periodo del comma 49 «l’importazione e l’esportazione a fini di commercializzazione ovvero la commercializzazione di prodotti recanti false o fallaci indicazioni di provenienza costituisce reato ed è punita ai sensi dell’articolo 517 del codice penale» (4).
Peraltro il secondo periodo dello stesso comma dispone che «costituisce falsa indicazione la stampigliatura made in Italy su prodotti e merci non originari dall’Italia ai sensi della normativa europea sull’origine; costituisce fallace indicazione, anche qualora sia indicata l’origine e la provenienza estera dei prodotti o delle merci, l’uso di segni, figure, o quant’altro possa indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana».
Nel successivo terzo periodo è poi previsto che «le fattispecie sono commesse sin dalla presentazione dei prodotti o delle merci in dogana per l’immissione in consumo o in libera pratica e sino alla vendita al dettaglio»; infine il quarto periodo prevede che «la fallace indicazione delle merci può essere sanata sul piano amministrativo con l’asportazione a cura ed a spese del contravventore dei segni o delle figure o di quant’altro induca a ritenere che si tratti di un prodotto di origine italiana», mentre il quinto periodo che «la falsa indicazione sull’origine o sulla provenienza di prodotti o merci può essere sanata sul piano amministrativo attraverso l’esatta indicazione dell’origine o l’asportazione della stampigliatura made in Italy».
- LE CONSEGUENZE
Analizzando il testo del soprariportato primo periodo da un lato si ha la conferma che il reato di cui all’art. 517 c.p. si applica anche alla importazione o esportazione a fini di commercializzazione, come la giurisprudenza aveva peraltro già affermato facendo confluire tali attività nel più generale concetto di “porre in vendita o mettere altrimenti in circolazione”, dall’altro che il reato de qua tutela sia i prodotti industriali che quelli agricoli, e ciò in quanto, differentemente da quanto prevedeva il 517 c.p., non è stata riproposta la limitazione ai soli prodotti industriali, stante il riconoscimento della sempre maggiore importanza che i prodotti agricoli hanno assunto nella coscienza sociale (ed ecologica alimentare).
Il secondo periodo, parlando di falsa indicazione e di fallace indicazione allarga il campo di applicazione della sanzionabilità rispetto al testo dell’art. 517 c.p., in quanto questo puniva la messa in circolazione di prodotti con nomi, marchi o segni distintivi nazionali od esteri atti a trarre in inganno il compratore. Infatti mentre con questa espressione si fa riferimento ad un comportamento riconducibile a quello di fornire fallaci indicazioni, ovvero indicazioni che pur non essendo propriamente false sono in grado di trarre in inganno gli operatori sulla origine, provenienza o qualità del prodotto, dopo l’intervento del 2003 risulta punita, ai sensi dell’art. 517 c.p., anche la falsa indicazione, così avvicinando la nuova figura di reato a quella di cui all’art. 474 c.p (che tutela la fede pubblica punendo la commercializzazione di prodotti industriali con marchi o segni distintivi contraffatti o alterati).
Più in particolare secondo un orientamento giurisprudenziale i criteri utilizzati dalla normativa europea per stabilire l’origine di un prodotto, richiamati dal secondo periodo, prima parte, possono essere utilizzati soltanto in relazione alla apposizione del marchio made in Italy (come si ricava dalla lettera della legge), ma non anche per le false indicazioni di provenienza di cui al primo periodo, sia per la differente terminologia adoperata (provenienza e non origine), sia in quanto il richiamo alla normativa europea è effettuato soltanto con riferimento alla falsa indicazione della indicazione made in Italy (5).
Conforto a tale tesi si ricava dal dato che la seconda parte del secondo periodo qualifica quale fallace indicazione l’indurre il consumatore a credere che il prodotto sia di origine italiana pure in presenza della indicazione (corretta) della provenienza estera, il che non può che significare che un prodotto può essere di provenienza estera, perché fabbricato all’estero, ma di origine italiana (ovvero riferibile ad un produttore che si assume la responsabilità di una tecnica di produzione italiana).
Per meglio comprendere la sistemazione complessiva della materia è utile altresì una puntualizzazione sulla normativa europea in materia di origine delle merci, che il Regolamento 12 ottobre 1992 n. 2913 definisce ai fini doganali, e dal quale si ricava un criterio in qualche modo ricollegabile alla origine geografica (così come per il già citato regolamento 2081/1992) trattandosi di prodotti identificabili in relazione alla loro origine geografica, così che può ritenersi che il legislatore del 2003 richiami la categoria di derivazione geografica solo per quei prodotti di tipo agricolo, minerario ed animale le cui caratteristiche sono in qualche modo ricollegabili al loro ambiente territoriale.
Uno dei punti fondamentali è costituito dal rilievo che nella triade provenienza, origine e qualità ciò che ha un ruolo decisivo è la qualità del prodotto, in quanto le prime due sono in funzione della qualità. Conseguentemente per quanto riguarda i prodotti industriali per origine o provenienza del prodotto deve intendersi la sua origine imprenditoriale, ovvero la sua fabbricazione da parte di un imprenditore che si assume la responsabilità giuridica, economica e tecnica del processo produttivo, in quanto la qualità dipende dalla affidabilità del produttore. Peraltro nel caso ulteriore nel quale risulti apposta la dizione made in Italy, il dato eventuale che il prodotto pur essendo stato fabbricato all’estero assicuri quella qualità discendente dal controllo del processo produttivo da parte di imprenditore nazionale con standards nazionali, dovrebbe non escludere il reato, atteso che il consumatore potrebbe indursi all’acquisto proprio in quanto prodotto in Italia (6).
Diversamente occorrerà ragionare in caso di prodotti agricoli o alimentari, ove per origine del prodotto non potrà che intendersi la sua origine geografica o territoriale, la quale consente sia la loro identificazione che la conoscenza della sua specifica qualità, essenzialmente correlata all’ambiente naturale e umano in cui il prodotto è coltivato, trasformato e prodotto (il tutto con la ulteriore considerazione delle disposizioni in tema di tutela del prodotto alimentare a caratterizzazione geografica).
Inoltre la lettura del terzo periodo chiarisce il momento consumativo del reato, che si ritiene integrato al momento della presentazione dei prodotti alla dogana per l’immissione al consumo, consentendo di confermare la pregressa giurisprudenza che tale orientamento aveva sostenuto già con riferimento all’art. 517 c.p.
Come è evidente, la questione richiede una sistematicità che spesso si scontra con la specificità del caso concreto, e purtroppo con i tempi oggi più che mai ristretti della elaborazione giurisprudenziale.
(1) Sez. III, 19 aprile 2005, depositata il 23 settem- Thum, in C.E.D. Cass., n. 214438.
bre 2005, n. 34103. (3) Sez. III, 14 novembre 2002, n. 20252/2003,
(2) Così Sez. III, 26 agosto 1999, n. 2550, p.m. c. Moretti.
(3) Sez. III, 14 novembre 2002, n. 20252/2003,
(4) L’art. 1, comma 9, del d.l. 14 marzo 2005, n. 35 dopo le parole “fallaci indicazioni di provenienza”, ha previsto l’inserimento delle parole “o di origine”.
(5) In questo senso Sez. III, 21 ottobre 2004, dep. 2 febbraio 2005 n. 3352, s.r.l. Frò).
(6) Una applicazione di tale principio si rinviene in Sez. III, dep. 20 gennaio 2006 n. 2648, in fattispe cie nella quale a capi di abbigliamento fabbricati in Moldavia risultava apposta la dicitura designed & produced by A. srl Rovereto Italy.
La sentenza commentata:
SEZ. III – C.C. 9 APRILE 2008 (DEP. 13 GIUGNO 2008), N. 24100 – PRES. DE MAIO – REL. SARNO – P.M. IZZO (CONCL. CONF.) – TRIGGIANESE (240727)
In tema di vendita di prodotti industriali con segni mendaci, non può definirsi “fabbricante” del prodotto colui che si limiti a porre in commercio un bene acquistato al’estero da terzi senza aver partecipato al processo di produzione, in quanto ciò costituisce comportamento ingannevole per il consumatore, idoneo a configurare il reato di cui al’art. 517 c.p.. (Fattispecie in materia di sequestro preventivo d’apparecchiature sanitarie prodotte in Cina sule quali era riportata la dicitura “fabbricante” riferita ad una ditta italiana).
RITENUTO IN FATTO ED IN DIRITTO – Il ricorso è infondato e va, pertanto, rigettato. In ordine al primo motivo si rileva quanto segue.
- a) Per quanto concerne la prima questione dedotta occorre evidenziare che, come in precedenza detto, la motivazione del tribunale del riesame contesta non già la provenienza geografica del prodotto, bensì – come richiesto costantemente dalla giurisprudenza di legittimità – proprio l’origine imprenditoriale del prodotto medesimo non riconoscendo alla società rappresentata dal Triggianese la qualità di fabbricante degli articoli sanitari. b) La seconda questione incentrata sulla nozione di “fabbricante” è anch’essa infondata. La definizione di fabbricante, come correttamente osservato dal tribunale, normalmente coincide con quella di produttore del bene. E ciò vale anche con riferimento alla normativa comunitaria. In tal senso si richiama, ad esempio, il d.lg. n. 93 del 2000, art. 1, comma 2 lett. s) in materia di attrezzature a pressione che definisce fabbricante «il soggetto che assume la responsabilità della progettazione e della costruzione di una attrezzatura a pressione o di un insieme immessi sul mercato a suo nome». In casi particolari, come avviene ad esempio nell’ipotesi di lavorazione dei tabacchi, la figura del fabbricante viene individuata invece “nella persona fisica o giuridica che confeziona di fatto il prodotto e fissa il prezzo massimo di vendita al minuto per ciascuno Stato membro in cui detti prodotti sono destinati ad essere immessi al consumo” (direttiva 92/78/CEE del Consiglio, del 19 ottobre 1992, che modifica le direttive 72/464/CEE e 79/32/CEE relative alle imposte diverse dall’imposta sulla cifra d’ affari che gravano sul consumo dei tabacchi lavorati). Può accadere dunque che, in ragione della tipologia del bene prodotto, che la nozione di fabbricante coincida con quella – normalmente distinta – del confezionatore del prodotto stesso. Concettualmente la qualifica di fabbricante va invece sempre tenuta distinta da quella dell’importatore di beni da altri prodotti anche se nulla esclude che, come talora avviene, si possa normativamente verificare la equiparazione delle due figure, in termini di responsabilità, specialmente nei casi in cui il fabbricante non sia stabilito nella UE, e non abbia un rappresentante autorizzato sul territorio comunitario. Queste considerazioni non sono smentite dalla normativa citata dal ricorrente. Il d.lg. 24 febbraio 1997, n. 46 “Attuazione della direttiva 93/42/CEE, concernente i dispositivi medici” all’art. 1 lett f) definisce fabbricante: «la persona fisica o giuridica responsabile della
progettazione, della fabbricazione, dell’imballaggio e dell’etichettatura di un dispositivo in vista dell’immissione in commercio a proprio nome, indipendentemente dal fatto che queste operazioni siano eseguite da questa stessa persona o da un terzo per suo conto». In tale definizione non rientra, evidentemente, colui il quale si limiti a porre in commercio un bene acquistato all’estero da terzi che ne hanno in via del tutto autonoma curato la produzione. E del resto il fatto che debbano essere concettualmente essere tenuti distinti il fabbricante da colui il quale si limiti a commercializzare a suo nome il prodotto di altri trova anche significativo riscontro nella circostanza che nel caso di composizione o di imballaggio di prodotti prefabbricati, alla persona fisica o giuridica che provvede all’assemblaggio il comma successivo della disposizione in esame si limita unicamente ad estendere gli obblighi previsti per il fabbricante senza operare alcuna sovrapposizione concettuale delle figure indicate. Recita, infatti, il comma in questione che «Gli obblighi del presente decreto che sì impongono al fabbricante valgono anche per la persona fisica o giuridica che compone, provvede all’imballaggio, tratta, rimette a nuovo, etichetta uno o più prodotti prefabbricati o assegna loro la destinazione di dispositivo in vista dell’immissione in commercio a proprio nome. I predetti obblighi non si applicano alla persona la quale, senza essere il fabbricante compone o adatta dispositivi già immessi in commercio in funzione della loro destinazione ad un singolo paziente». Conclusivamente, dunque, non può essere definito fabbricante del prodotto colui il quale si limiti ad acquistarlo all’estero senza avere alcuna partecipazione nel processo produttivo nè si rinvengono elementi interpretativi diversi dall’esame del decreto legislativo citato che, peraltro, opera con esclusivo riferimento alla marcatura CE – estranea la contestazione sub a) -.2) In ordine al secondo motivo di ricorso correttamente osserva il tribunale che le finalità del sequestro sono richiamate nelle informative di PG richiamate nel decreto e, pertanto, deve ritenersi correttamente assolto l’onere motivazionale.