Stefano Faillace, La risarcibilità dei danni manifestatisi successivamente alla transazione od alla cosa giudicata, in Resp. civ., 2005, 10, p. 832
Sommario: 1. La revisione del danno già valutato e la liquidazione del danno ulteriore alla luce dei principi del nostro ordinamento – 2. I limiti di efficacia della cosa giudicata rispetto ai danni manifestatisi successivamente ad essa – 3. Un discusso tentativo di contrastare l’exceptio rei transactae: la domanda di annullamento del contratto per errore di fatto – 4. La soluzione condivisa dalla Cassazione: la transazione che copre il danno imprevedibile è nulla per indeterminabilità dell’oggetto – 5. Aggravamento del danno, lesione autonoma e nuovo decorso della prescrizione
1. La revisione del danno già valutato e la liquidazione del danno ulteriore alla luce dei principi del nostro ordinamento
Una questione di una certa rilevanza e complessità nell’ambito della liquidazione del danno alla persona è quella attinente allo stabilire se, in un momento successivo alla conclusione in sede stragiudiziale di un atto di transazione, resti in capo al danneggiato la possibilità di vantare ulteriori pretese risarcitorie, correlate a danni manifestatisi in epoca successiva alla stipulazione di tale bonario accordo. Parimenti, vedremo, dovrà essere risolta l’analoga fattispecie, caratterizzata dall’esistenza di una cosa giudicata di condanna del danneggiante, cosa giudicata che sembrerebbe, a prima vista, inibire successive ulteriori richieste risarcitorie(1).
Il campo trattato ha notevoli intersezioni con la scienza medica, in quanto è da errori terapeutici o anche dall’inadeguatezza dell’attuale stato di quest’arte che possono sorgere le situazioni qui trattate. Col passare degli anni e dell’evoluzione della scienza dovrebbe essere sempre più agevole prevedere quali i possibili danni futuri conseguenti ad una singola lesione e quindi tenerli presenti ai fini della liquidazione. D’altra parte, a seguito di determinate lesioni, spesso permane un cono d’ombra che si dissolve e disvela i danni realmente attribuibili al fatto illecito solo dopo alcuni anni dal verificarsi dello stesso.
Ciò spesso è avvenuto, nella casistica esaminata, in ipotesi di lesioni cerebrali (per le quali solo con il passare del tempo si può manifestare una malattia insidiosa, quale ad es. l’epilessia), di danni psichici o di danni non individuabili con strumenti diagnostici non invasivi, che si manifestano poi solo quando il soggetto leso decide di sottoporsi ad operazione chirurgica (si pensi al caso di lesioni osteocondrali, spesso non rilevabili tramite risonanza magnetica, ma solo in sede artroscopica).
Il danneggiato, nei mesi successivi all’infortunio, Iscriviti alla nostra newsletter per avere accesso immediato Se sei già iscritto, inserisci nuovamente la tua email per accedere La terminologia, spesso adottata in casi analoghi, di revisione del danno, può non essere calzante, in quanto non si tratta sempre di rivedere e correggere una valutazione già fatta, ma di procedere alla liquidazione di un danno non compreso nella valutazione precedente, pur dipendendo dallo stesso titolo(2). La precedente liquidazione, insomma, può essere riesaminata in occasione della nuova domanda di risarcimento, non già solo per essere sottoposta a critica, a correzione, ma anche per verificare se il nuovo risarcimento richiesto riguardi un danno non considerato, né direttamente, né indirettamente nella stessa. Nel nostro ordinamento, la legislazione sull’assicurazione obbligatoria per gli infortuni sul lavoro(3) prevede una vera e propria revisione, entro determinati limiti di tempo, della rendita per invalidità permanente o la liquidazione, a seguito di aggravamento, della rendita inizialmente non riconosciuta. Con lo strumento della revisione, si tende a garantire la corrispondenza tra il danno e l’indennizzo non solo all’atto della prima liquidazione, ma anche in epoca successiva(4). Il favor lavoratoris, cioè la solidarietà dello Stato verso il lavoratore, ha suggerito di prevedere una revisione per il sopravvenuto aggravamento, con la definizione, peraltro, di termini lunghi entro i quali accertarlo(5). La possibilità di rivedere nel tempo la misura della rendita discende direttamente dall’ art. 38, 2° co., Cost. . Infatti, una rendita che, in rapporto alle condizioni fisiologiche dell’infortunato, divenisse nel tempo sperequata, non assolverebbe alla sua funzione di provvedere mezzi adeguati alle esigenze di vita(6). Tale possibilità viene, peraltro, contemperata con l’opposto principio di stabilizzazione dei postumi, per il quale si presume che dopo un certo tempo gli esiti dell’infortunio sul lavoro o della malattia professionale si siano stabilizzati(7). Nella normativa italiana sulla responsabilità civile non sono, invece, previste regole sulla revisione della liquidazione del danno: il grado di menomazione nei suoi riflessi patrimoniali viene determinato in vista di una liquidazione immediata di tutto il danno, attuale e futuro. La domanda di risarcimento del danno si riferisce alla totalità delle possibili voci di danno, tanto che deve escludersi che sia lecito agire in giudizio esponendo all’uopo determinate voci e poi, definito il giudizio con giudicato, agire ex novo per il risarcimento dei danni derivanti dallo stesso fatto, ma in relazione a voci nuove e diverse. La richiesta sul quantum copre, quindi, tutte le possibili voci di risarcimento, che costituiscono nella loro totalità il deducibile nel giudizio(8). Va però ricordato che già nella Relazione al codice civile è stato fissato il principio della rilevanza ed autonoma risarcibilità delle sopravvenienze, nel caso in cui esse integrino «una causa di danno non considerato neppure genericamente nel primo accertamento» (9). Perché possa effettuarsi una revisione del danno (o meglio una liquidazione di danno ulteriore), occorre che il titolare del risarcimento sia sempre la stessa persona. Non si versa, quindi, in tale ambito nelle ipotesi in cui, dopo la liquidazione del danno convenuta col danneggiato, questi venga a morte in conseguenza delle lesioni subite, e gli eredi avanzino domanda di risarcimento per i danni personalmente risentiti in seguito a tale evento(10). La speranza del danneggiato di ottenere un ristoro ai danni manifestatisi successivamente alla transazione o alla cosa giudicata passa per la dimostrazione ed il superamento di tre classiche obiezioni, certamente insidiose, che potrà formulare il convenuto: l’eccezione della res judicata o della res transacta; l’eccezione della prescrizione del credito e l’adducibile mancanza di nesso causale tra fatto lesivo e danno ulteriore. Con riferimento a quest’ultimo elemento da provare, ci si limita a ricordare che molto delicata è l’opera del medico-legale, che dovrà valutare il diretto collegamento tra il fatto originario e i danni manifestatisi successivamente alla cosa giudicata o alla transazione conclusa con l’assicurazione. L’interprete dovrà, peraltro, tenere presente che nella medicina ci sono limiti dovuti alla scarsa conoscenza sull’etiopatogenesi di molti fenomeni, il cui studio si avvale di rilievi dotati di semplice rilevanza statistica, e quindi di mera possibilità e non certezza di diagnosi(11). Bisogna, peraltro, ricordare che il nesso causale , per l’impostazione preferibile, può essere ravvisato solo quando tra il fatto iniziale e l’evento vi sia un rapporto che presenti gli estremi di una sequenza costante, secondo il noto calcolo di regolarità statistica. Non è da trascurare, però, data la possibile incidenza nella materia che si tratta, l’esistenza di quell’orientamento giurisprudenziale che ascrive ai responsabili di sinistri stradali, oltre agli immediati ed evidenti danni fisici subiti del soggetto leso, anche lo scatenamento di disturbi mentali rimasti latenti per lunghi periodi(12). Inoltre, sempre per le sue possibili implicazioni con la revisione del danno, si deve ricordare quella rigorosa applicazione giurisprudenziale della teoria della condicio sine qua non, che difficilmente conduce ad attribuire un’efficacia interruttiva del nesso causale alle cause sopravvenute, ex art. 41, 2°co. c.p. (13). Occupandoci in seguito delle altre surriferite prospettabili eccezioni, esamineremo quali i limiti che vengono posti ad una richiesta di risarcimento del danno sopravvenuto in epoca posteriore ad una transazione o alla cosa giudicata. 2. I limiti di efficacia della cosa giudicata rispetto ai danni manifestatisi successivamente ad essa Con riferimento al tema della liquidazione giudiziale del danno da responsabilità aquiliana, si suole affermare che, pur dovendo l’obbligo di risarcimento intendersi esteso a tutto il danno verificatosi, non possono tuttavia comprendersi nella cosa giudicata di una precedente sentenza di liquidazione quei danni futuri, non ancora manifestatisi, i quali nel giudizio non potevano essere previsti, in mancanza di elementi obiettivi attuali capaci di determinare l’aggravamento o la nuova lesione. Ciò in quanto si tratta di danni rimasti estranei al giudizio, rispetto ai quali, non potendo il giudice pronunciarsi, non può valere l’eccezione di cosa giudicata(14). La giurisprudenza afferma costantemente che l’autorità del giudicato copre sia il dedotto che il deducibile, e cioè non soltanto le ragioni giuridiche fatte espressamente valere nel medesimo giudizio (giudicato esplicito), ma anche quelle altre che, se pur non specificamente dedotte o enunciate, costituiscono tuttavia premesse necessarie della pretesa e dell’accertamento relativo, in quanto si pongono come precedenti logici essenziali ed indefettibili della decisione (giudicato implicito (15). Nel «deducibile» la giurisprudenza comprende anche tutte le ragioni giuridiche che, in via di azione o di eccezione, avrebbero potuto e dovuto essere dedotte. Il dedotto, ed ancor più il deducibile, sono regolati dal giudicato, però, con esclusivo riguardo alla situazione che esisteva e che fu tenuta presente dal giudice al momento della decisione. È ben evidente, infatti, che il deducibile è tale solo se ed in quanto ne sia stata possibile l’allegazione nel giudizio coperto dal giudicato, rimanendone fuori tutte le questioni che, emerse successivamente, non avrebbero potuto formare oggetto dell’originario processo(16). È pur vero che, a seguito del formarsi del giudicato sostanziale, la fattispecie da cui deriva il diritto fatto valere in giudizio rinviene la fonte della propria rilevanza giuridica unicamente nell’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato e non più nella norma generale ed astratta. Il diritto o rapporto accertato dalla sentenza passata in giudicato continua però a vivere, a svolgersi dopo il giudicato. Di qui la pacifica operatività sulla situazione giuridica accertata dei fatti estintivi o modificativi sopravvenuti(17). Tale riscontro va effettuato, ovviamente, considerando gli elementi costitutivi dell’azione, e cioè i soggetti, il petitum e la causa petendi. Nell’ipotesi in cui si tratti di un danno che si è manifestato solo dopo la conclusione del giudizio, in particolare, non si può paralizzare la pretesa risarcitoria del danneggiato mediante l’eccezione fondata sulla cosa giudicata, in quanto viene a mancare l’identità dell’elemento oggettivo dell’azione e cioè del petitum, che è inteso ad ottenere un aliquid oltre i limiti della precedente controversia, escludendosi in tal modo l’identità tra i due giudizi(18). All’orientamento consolidato secondo cui la revisione è ammessa solo per i danni imprevedibili al momento della prima liquidazione, si faceva eccezione in un solo caso, cioè quando, intervenuta pronuncia penale di condanna per il reato di lesioni, il danneggiato invocava nel successivo giudizio civile di risarcimento l’autorità di giudicato della sentenza penale. In tale ipotesi, l’efficacia della sentenza penale definitiva vincolava il giudice civile per quanto atteneva all’accertamento della condotta ed alla responsabilità dell’agente, ma non gli impediva di liquidare i danni manifestatisi successivamente alla sentenza penale, anche se prevedibili al momento della prima pronuncia(19). L’autorità di giudicato della sentenza penale, infatti, non precludeva al giudice civile, ex art. 27, 1° co., c.p.p. abrogato, di prendere in considerazione, ai fini del ristoro del danno, gli effetti pregiudizievoli verificatisi successivamente alla sentenza penale. Poteva quindi considerarsi, ai fini risarcitori, anche l’aggravamento nascente da una pregressa situazione patologica in via di evoluzione. L’ipotesi della revisione di un giudicato civile avente come specifico oggetto la liquidazione di un risarcimento pecuniario per danni futuri postula, infatti, presupposti ben diversi da quelli relativi alla ipotesi della autorità, nel giudizio civile risarcitorio, dell’accertamento effettuato in sede penale, circa l’entità del danno e circa le conseguenze dell’evento lesivo. Tale accertamento, proprio per la sede in cui viene effettuato, risulta finalizzato allo scopo di individuare un elemento influente sulla gravità del reato, scopo relativamente al quale non è nemmeno indispensabile che la pretesa punitiva per lesioni colpose sia sorretta da contestazioni specifiche del grado di invalidità permanente sofferto dalla persona lesa e del conseguente grado di riduzione della sua capacità di lavoro e guadagno. Grado di invalidità e di riduzione che costituiscono, invece, l’oggetto proprio di un ordinario giudizio civile di risarcimento per danni permanenti alla persona, nel quale ben poteva essere dedotta dalla parte interessata anche la previsione di un pregiudizio futuro o di un aggravamento di una situazione preesistente, sempre che tale previsione sia fondata sull’id quod plerumque accidit. Nel sistema attuale, il vigente art. 651 c.p.p. , nel disciplinare l’efficacia della sentenza penale di condanna nel giudizio civile o amministrativo di danno, con formula non dissimile da quella adottata dal menzionato art. 27 c.p.p. abrogato, ribadisce che la sentenza di condanna ha efficacia di giudicato, quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso, ma non reca più l’espressa previsione secondo cui «il giudice civile o amministrativo può conoscere anche dei danni verificatisi successivamente alla sentenza». A questo proposito, ritiene un recente orientamento giurisprudenziale(20) che, nonostante il diverso tenore delle norme, il riconoscimento al giudice civile della cognizione dei danni verificatisi successivamente alla sentenza penale debba essere affermato, quantomeno, come nel caso esaminato, per quanto riguarda le nuove ed autonome lesioni appalesatesi, non potendosi precludere tale valutazione, in ragione del generale principio che esclude la formazione del giudicato su di esse(21). Tale impostazione è sicuramente da condividere, anche alla luce del fatto che, discostandosi dal principio dell’unicità dell’ordinamento giuridico, che pervadeva il codice previdente, il rito attuale si ispira alla filosofia di una tendenziale autonomia decisoria, e ciò non può che favorire significative limitazioni alla forza extraprocessuale delle pronunce penali passate in giudicato(22). 3. Un discusso tentativo di contrastare l’exceptio rei transactae: la domanda di annullamento del contratto per errore di fatto Più delicata rimane l’ipotesi di una richiesta risarcitoria tesa ad ottenere una nuova liquidazione del danno quando sia stata già conclusa una transazione . Preliminarmente, va ricordato che la parte che ne invoca gli effetti in giudizio avrà l’onere di provare, a partire dal testo della quietanza , l’avvenuta composizione del conflitto mediante questo accordo bonario(23). Non sempre però le frasi in esso trascritte raggiungono un grado di completezza tale da rassicurare l’interprete sulla sussistenza degli elementi strutturali del negozio transattivo e, in particolare, delle reciproche concessioni(24). Se, comunque, dalla quietanza si desumono, almeno genericamente, gli elementi costitutivi della transazione, soccorre la possibilità che il contenuto di tali elementi venga puntualizzato ed integrato attingendo al materiale acquisito in giudizio(25), potendo il Giudice ricorrere, in via interpretativa, ad ogni dato, anche estrinseco, se idoneo a chiarire i termini dell’accordo(26). Una volta che sia stata validamente fornita dalla compagnia assicuratrice-convenuta la prova dell’avvenuta transazione, non agevole per l’attore rimane l’individuazione del corretto motivo di impugnazione della stessa. Ciò sia nel caso in cui il danneggiato lamenti di aver contrattato in base ad un’erronea valutazione dell’entità delle lesioni, sia nell’ipotesi in cui, successivamente alla transazione, si appalesino nuove lesioni non ricomprese nella precedente liquidazione. Per una risalente, ma autorevole dottrina(27), e per la giurisprudenza formatasi prevalentemente nel vigore del vecchio codice(28), quando le parti liquidano transattivamente il danno sulla base di una falsa rappresentazione della entità del danno stesso, è alla disciplina dell’ errore di fatto che può farsi richiamo per l’impugnazione del contratto intervenuto. L’art. 1773 c.c., del codice abrogato, infatti, espressamente prevedeva l’impugnazione della transazione per errore sull’oggetto della controversia. Tale impostazione ha prestato il fianco però ad alcune critiche, già nel vigore del vecchio codice, in quanto principalmente si negava che la transazione potesse impugnarsi per errore sull’estensione del diritto di una delle parti, in particolare, nel caso in cui questo si raffiguri come errore sull’ammontare del danno(29). Questa interpretazione dell’art. 1773 c.c. era, poi, in evidente contrasto con la disposizione dell’art. 1772 c.c., che escludeva l’errata valutazione della convenienza della transazione dalle cause di impugnativa. L’errore sull’oggetto della controversia, del resto, non si poteva identificare con la falsa rappresentazione della misura del danno, né con l’apprezzamento della sua controvertibilità, bensì con il contenuto del rapporto che si è inteso definire bonariamente, eliminando le relative contestazioni sull’an o sul quantum debeatur. Detto delimitato oggetto è ben presente alle parti che transigono tale tipo di vertenza, cosicché le stesse, secondo alcune pronunce, non potevano, al fine di sciogliere la transazione, invocare l’errore circa il negozio giuridico concluso(30). La dottrina(31) e la giurisprudenza(32) che hanno interpretato le disposizioni del nuovo codice sembrano compatte nel negare l’impugnabilità della transazione non solo per un errore di diritto come testualmente dispone l’art. 1969 c.c., ma anche per l’errore di fatto. Si tratta di un’interpretazione che, pur apparentemente contra legem, sembra dettata dalla natura stessa del negozio transattivo e dal rischio che la possibilità di un nuovo accertamento lo renda praticamente inutile. La funzione di superamento definitivo della controversia che l’ordinamento assegna a questo istituto imporrebbe che non solo l’obiettiva differenza tra la situazione successiva e quella anteriore al negozio non tolga efficacia al negozio transattivo, ma anche che la mancata consapevolezza o l’inesatta valutazione delle parti circa le modifiche introdotte con la transazione non rilevino sulle vicende del rapporto con essa costituito(33). Ai sensi dell’art. 1969 c.c. , l’errore non è rilevante e non è dunque causa di annullamento della transazione, in particolare, quando concerne il caput controversum. La distinzione tra questione oggetto di controversia tra le parti e questione estranea alla medesima non è però pacifica(34). Secondo un orientamento(35), per caput controversum deve intendersi la definizione del rapporto giuridico o della situazione di fatto su cui si contende, non i singoli argomenti o fatti addotti dalle parti a sostegno delle rispettive tesi. Così ragionando, nella lite sull’ammontare del risarcimento del danno, caput controversum sarà l’ammontare del danno da risarcire, non l’esatta identificazione del tipo di danni inflitti su cui le parti dibattono. Ne deriva da tale impostazione che l’errore del quale l’art. 1969 c.c. dispone l’irrilevanza non è solo quello concernente gli specifici argomenti dibattuti nella controversia, ma qualunque falsa rappresentazione che abbia condotto il soggetto ad una inesatta valutazione dell’oggetto della controversia. La definitività della composizione della lite, in vista della quale le parti si fanno reciproche concessioni e rinunziano a far valere quelle che ritengono essere loro legittime pretese, si realizza attraverso l’irrilevanza di tutte le valutazioni delle parti in ordine all’oggetto della lite. Ammettere, per questa teoria, la rilevanza di un errore connesso con il rapporto contestato, seppure estraneo alle questioni specificamente dibattute, significherebbe compromettere l’autonomia della nuova situazione creata da quella incerta, e quindi vanificare il carattere definitivo che la composizione attuata con la transazione assume rispetto alla controversia. Secondo altra impostazione, il caput controversum rinvia al concetto di lite e questo, a sua volta, procede da quelli di pretesa e di contestazione, sicché nel caput controversum entrerebbe soltanto la questione in concreto sollevata dalle parti, individuata non dal rapporto o frammento di rapporto contestato, ma dalle argomentazioni avanzate e dai fatti dedotti a sostegno delle rispettive pretese. Pertanto tale accordo non comprenderebbe tutte le questioni deducibili relativamente alla situazione su cui si transige, ma solo quelle effettivamente dedotte(36). Quando poi l’errore riguarda un fatto estraneo al caput controversum(37), esso ha rilevanza, ai fini dell’impugnabilità, solo nei casi precisati dal complesso di disposizioni di cui agli artt. 1971-1975 c.c. , considerati come altrettante ipotesi eccezionalmente rilevanti di errori di fatto sui motivi(38). È stato d’altro canto anche affermato, a livello giurisprudenziale, che proprio perché sui presupposti di fatto della transazione non si sviluppa una discussione tra le parti, non si pone neanche una questione sull’impugnabilità o meno della transazione stessa, bensì un problema relativo alle situazioni giuridiche delle parti in ordine alla lite non transatta(39). Pur rimanendo ferma l’originaria transazione, sembra possibile, quindi, la liquidazione successiva dei danni dipendenti dallo stesso fatto che ha dato luogo alla prima liquidazione, ogni qual volta risulti provato che la nuova lesione appalesatasi non fu precedentemente prevista e valutata, neppure in via di possibilità. 4. La soluzione condivisa dalla Cassazione: la transazione che copre il danno imprevedibile è nulla per indeterminabilità dell’oggetto Per ottenere il risarcimento del danno ulteriore non precedentemente valutato, come anticipato, è stata percorsa una diversa via, che si è rivelata negli ultimi decenni preferibile per i Giudici della Suprema Corte essendo, del resto, meno in contrasto con i succitati principi generali. È stata posta l’attenzione sull’oggetto del contratto di transazione , ed in particolare sul suo necessario requisito di determinatezza o determinabilità, il cui controverso significato ha creato equivoci tali da dedurne, per la sua vaghezza, genericità, nebulosità, la natura tendenzialmente pericolosa(40). A riguardo, è stato proposto da certa dottrina un suggestivo parallelo tra l’accordo transattivo ed il rapporto che si instaura tra le parti in ambito processuale(41). Il requisito della determinabilità dell’oggetto, in tale rapporto, trova riscontro laddove esistano una pretesa ed una contestazione definite, che vanno, a loro volta, accertate attraverso l’impiego delle categorie che presiedono all’individuazione della domanda giudiziale, ossia le personae, la causa petendi ed il petitum. Si impone, inoltre, alla luce della regola processuale dell’interesse ad agire, l’attualità del conflitto tra le parti. L’applicazione analogica di tale regola anche all’ipotesi del contratto di transazione impedisce, dunque, di ritenere rilevanti situazioni di contrasto meramente future ed ipotetiche. Concordando con questa impostazione, chiedersi se costituiscano oggetto determinato o determinabile di una transazione tutti i danni futuri di qualsiasi specie, anche non conosciuti o imprevedibili, secondo il comportamento del diligens pater familias , appare come una domanda retorica. La risposta negativa a tale questione, del resto, ha un aggancio solido nella giurisprudenza della Cassazione in tema di risarcibilità del danno sopravvenuto. Si suole, infatti, affermare che un contratto di transazione che abbia ad oggetto anche i danni futuri, che non possono essere previsti singolarmente dai contraenti, non può essere considerato valido, in quanto caratterizzato da un oggetto non determinato, né determinabile ai sensi dell’ art. 1346 c.c.(42). Pur volendo ammettere, infatti, che possano concludersi transazioni aleatorie in riferimento a danni futuri(43), il rischio sotteso a tale operazione negoziale può riguardare solamente i pregiudizi che abbiano il crisma della prevedibilità e conoscibilità del danno. La Suprema Corte ha precisato, inoltre, che nuova od autonoma lesione, fonte di risarcimento del danno ulteriore rispetto a quello posto a base della transazione, può essere considerata anche quella già esistente, ma non conosciuta dal danneggiato, sempre che non fosse prevedibile, per chi non avesse specifiche cognizioni. Nel caso concreto, il giudizio dato da un soggetto professionale, quale un medico, non poteva non dar luogo a quel ragionevole affidamento, tale da escludere la negligenza e giustificare un’ulteriore richiesta risarcitoria. Il concetto di danno futuro, con questa sentenza, si estende, così, chiaramente a quello ignoto, già verificatosi all’epoca della transazione, ma non prevedibile all’occhio dell’uomo di media diligenza(44). Seguendo questa impostazione, quindi, si conferma che una transazione che difficilmente potrebbe essere invalidata per errore di fatto, in base al noto e surriferito orientamento dominante, può comunque essere superata attraverso una successiva liquidazione del danno non compreso in essa per un errore originario, non riconoscibile e non riconducibile alle parti. Altra questione strettamente correlata a questa, attiene alla validità dell’inserimento nel documento transattivo di un atto di rinunzia ad ogni ragione ed azione futura(45). Per una dottrina minoritaria, le parti che sottoscrivono tali dichiarazioni devono conoscerne e valutarne tutte le conseguenze giuridiche. Se ciononostante esse le accettano come fondamento dell’accordo, non possono, in contrasto con esso, accampare rinnovate pretese successive, già comprese ed esaurite nel compendio dell’aliquid datum e dell’aliquid retentum(46). In senso contrario a questa impostazione, si afferma che la rinunzia in quanto tale di un diritto può sussistere solo se lo stesso è già entrato sia pure potenzialmente nella sfera patrimoniale del rinunziante, di talché tale ipotesi non può oggettivamente sussistere quando il diritto sia al rinunziante sconosciuto e più ancora imprevedibile(47). Si è aggiunto che se è vero che la transazione afferisce ad una res dubia ed incerta, non bisogna confondere l’incertezza della pretesa con l’incertezza o la non conoscenza della cosa, dalla quale nasce il diritto al risarcimento. È la pretesa che deve essere incerta, ma deve riferirsi a cosa certa. Non vi può essere valida transazione, quindi, là dove vi sia incertezza assoluta sull’oggetto, che all’atto della stipulazione del negozio è del tutto sconosciuto e ritenuto, in sostanza, inesistente(48). Il problema posto da tali dichiarazioni di rinunzia risiede, insomma, nell’accertare se le parti abbiano inteso ampliare l’ambito della transazione rispetto alla lite od invece abbiano soltanto dato atto dell’efficacia preclusiva naturalmente derivante dal loro accordo. Ma se è la controversia il supporto del contratto di transazione, non si può supporre che i contraenti, senza innovare obiettivamente tutto il rapporto, abbiano voluto estendere al di là dell’oggetto della controversia attuale gli effetti preclusivi derivanti dal contratto. Così la transazione sui danni derivanti da un fatto illecito non può precludere il diritto al risarcimento di danni futuri, non prevedibili al momento della stipulazione(49). Anche sotto il profilo della formazione di una valida volontà, deve ritenersi che non possa esprimersi valida rinunzia ai danni futuri, quando il rinunciante non sia in grado di stimare l’importanza e l’entità dei diritti ai quali abdica e di conoscere e rappresentarsi l’esistenza dei possibili, futuri eventi dannosi. 5. Aggravamento del danno, lesione autonoma e nuovo decorso della prescrizione Un altro eventuale scoglio che si può presentare quando il nuovo danno si manifesta solo dopo alcuni anni dalla intervenuta transazione o dalla cosa giudicata, essendo rimasto prima silente, è la prescrizione del relativo diritto al risarcimento(50). In caso di danni alla persona ed al momento della liquidazione, come già ricordato, può accadere che non si abbia un quadro completo delle lesioni verificatesi, ed è ben possibile un’evoluzione del processo morboso in atto. Ma ai fini della decorrenza di un nuovo termine di prescrizione , non rileva il fatto che nella fase della prima liquidazione non sia stata stabilita l’esatta determinazione dell’invalidità temporanea o di quella permanente, né può assumere rilevanza l’aggravamento successivo del danno(51). La giurisprudenza, a tal proposito, è univoca nell’affermare che la prescrizione potrà cominciare nuovamente a decorrere soltanto in caso di sopravvenienza di lesioni che costituiscano un’entità nuova ed autonoma, rispetto al danno manifestatosi in concomitanza con l’esaurimento dell’azione o dell’omissione del responsabile(52). Può capitare che questa nuova ed autonoma lesione sia però «lungolatente». È il caso in cui il danno alla salute ulteriore sia capace di celarsi per le più eterogenee ragioni e per un tempo potenzialmente indefinito agli occhi del soggetto che lo subisce, con l’effetto di creare un notevole scollamento temporale tra il momento della sua inflizione ed il momento della sua percezione(53). Deve intendersi, in tali casi, che la prescrizione comincia a decorrere dal momento in cui il danneggiato ha avuto la reale e concreta percezione dell’esistenza e gravità del nuovo danno(54). La malattia deve peraltro essersi manifestata con sintomi specifici(55). Infatti, la prescrizione non può correre se la sintomatologia avvertita dal paziente sia «multifattoriale», tale cioè da poter essere ricondotta a cause molteplici e da non fornire all’interessato alcuna sicurezza circa la genesi della malattia. Si è giunti poi recentemente a stabilire che la malattia deve essere percepita dal soggetto leso quale danno ingiusto conseguente al comportamento doloso o colposo di un terzo, tenuto conto della diffusione delle conoscenze scientifiche e della diligenza del danneggiato(56). Non sarà, comunque, la semplice ignoranza del danneggiato sull’esistenza di un danno da lui subito a precludere il decorso della prescrizione, in quanto gli stati di ignoranza soggettiva in cui versi il titolare del diritto costituiscono un mero impedimento di fatto, come tale considerato irrilevante dal codice civile. Ciò che impedisce che inizi a decorrere la prescrizione è l’oggettiva impercepibilità e la mancata esteriorizzazione del danno(57). In ogni caso, è sul danneggiante che incombe l’onere di provare che il soggetto leso ha avuto conoscenza dell’invalidità o del nesso causale tra i disturbi patiti e il fatto illecito in epoca anteriore a quella allegata. Il convenuto dovrà, quindi, dimostrare in giudizio che l’attore, impiegando l’ordinaria diligenza, avrebbe potuto e dovuto, anche alla luce delle conoscenze scientifiche disponibili all’epoca dell’eccepita inerzia, acquisire la conoscenza concreta degli astratti elementi costitutivi di un diritto azionabile in giudizio. ———————– (1) Cfr., sull’argomento, nella dottrina classica, DE CUPIS, Il danno, Milano, 1946, spec. 232 ss. e 351 ss.; ID., Danno futuro ed autorità della cosa giudicata, in Foro padano, 1956, I, 1251; PEDRALI NOY, La revisione del danno alla persona in responsabilità civile, in Resp. civ. e prev., 1940, 273 ss.; PASCOLI, Danni da trauma e revisione del risarcimento, in Riv. giur. circolazione, 1955, 1425 ss.; GENTILE, Danno alla persona, in Enc. dir., XI, 1962, 662-663; ID., La revisione del danno alla persona, in Resp. civ. e prev., 1965, 286 ss.; ROVELLI, Il risarcimento del danno alla persona, Torino, 1963, 126 ss.; POGLIANI, Responsabilità e risarcimento da illecito civile, Milano, 1969, 476 ss.; VARESE, Revisione e cosa giudicata nella valutazione del danno alla persona, in Dir. e prat. ass., 1989, 29 ss.; e, più di recente, cfr. MASTROPAOLO, Il risarcimento del danno nell’ipotesi di lesioni all’integrità psicofisica ed in caso di morte, in La responsabilità civile, in Giur. sist. Bigiavi, Torino, V, 1987, 163 ss.; ODDENINO, Risarcimento del danno alla persona e transazione, in Il danno alla persona, a cura di Monateri, Torino, 2000, 662 ss.; ROSSETTI, Il danno da lesione della salute: biologico, patrimoniale, morale, Padova, 2001, 555 ss. (2) Negli stessi termini, vedi PEDRALI NOY, La revisione del danno alla persona in responsabilità civile, in Resp. civ. e prev., 1940, 273 ss. (3) Vedi gli artt. 83, 137 e 143 del T.U. n. 1124/1965, ed ora il 7° co. dell’art. 13 d.lgs. 38/2000, che richiama i surriferiti articoli e le procedure del testo unico. Sulla nuova disciplina, in dottrina, cfr. ALIBRANDI, Infortuni sul lavoro e malattie professionali, Milano, 2002; FERRARI GE. e GI., Infortuni sul lavoro e malattie professionali, Padova, 2002; DE COMPADRI, GUALTIEROTTI, L’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, Milano, 2002. (4) Vedi, in tal senso, Cass., 12.3.1981, n. 1414, in Foro it., 1981, I, 2766. (5) Ai sensi del 4° co. dell’art. 13, d.l. 38/2000, per l’eventuale revisione della rendita sono previsti dieci anni o quindici o addirittura nessun termine, a seconda che si tratti di infortunio, malattia professionale o di determinate e ben individuate malattie. (6) Cfr., in questi termini, in motivazione, Cass., sez. lav., 14.2.2005, n. 2913, in www.altalex.com. (7) In tal senso, vedi C. Cost. 18.7.1991, n. 358, in Riv. infortuni, 1991, II,103 (8) Pur accettandosi in via generale il principio della infrazionabilità del giudizio relativo al quantum del danno risarcibile, si è ammessa tale scindibilità allorché l’attore espressamente si riservi di chiedere in altro giudizio voci di danno derivanti dalla stessa causa (Cfr. Cass., 8.7.1981, n 4488, in Resp. civ. e prev., 1982, 411 ss., con nota di MONATERI, La scindibilità del giudizio sul quantum, e in modo analogo, vedi Trib. Milano, 4.6.2001, in Foro padano, 2002, 260 ss., con nota di GANDALFO, Ancora sull’ambito del giudicato sostanziale). (9) Cfr. Relazione ministeriale al codice civile n. 801. (10) Il diritto degli aventi causa sorge con la morte del de cuius. Si tratta di uno ius proprium che non può pertanto essere pregiudicato dalla liquidazione del danno, fatta in vita, dal danneggiato, dato che lo stesso non poteva disporre, oltre che dei diritti propri, anche di quelli dei terzi, e non poteva costituire oggetto dell’avvenuta liquidazione un diritto nato solo con la morte del contraente. Sul punto, vedi anche PEDRALI NOY, La revisione del danno alla persona in responsabilità civile, in Resp. civ. e prev., 1940, 273 ss. (11) Cfr., di recente sul punto, BONZIGLIA, Il ruolo del medico-legale nell’accertamento del nesso di causalità materiale, in Danno e resp., 2004, 224 ss. Sul nesso di causalità nella responsabilità civile, vedi per tutti FRANZONI, Dei fatti illeciti, in Comm. Scialoja, Branca, Bologna-Roma, 1993, sub art. 2043, 85 ss.; TRIMARCHI, Causalità e danno, Milano, 1967; REALMONTE, Il problema del nesso di causalità nel risarcimento del danno, Milano, 1967; FORCHIELLI, Il rapporto di causalità nell’illecito civile, Padova, 1960; FEOLA, Brevi note sul nesso di causalità e lesione del bene vita, in Resp. civ. e prev., 2001, 1, 91; DE RENTIIS, La verifica del nesso eziologico nell’illecito aquiliano, in Giur. it., 2002, 6, 1145. (12) Cfr. Trib. Milano, 13.7.1989, in Giur. it., 1991, I, 2, 54, con nota di RUBINI TARIZZO e Cass., 7.2.1996, n. 969, in Resp. civ. e prev., 1996, 919 ss., con nota di GAUDINO, Suicidio post-traumatico e responsabilità civile, che afferma che il suicidio della vittima di un incidente stradale non è evento idoneo ad interrompere il nesso di causalità tra fatto antigiuridico ed evento-morte. Si consideri, analogamente, il caso in cui è stato individuato un nesso di causalità tra l’infortunio sul lavoro di un dipendente ed il suo successivo suicidio, determinato dallo stato di grave depressione in cui era incorso nei mesi successivi all’infortunio (Cass., 23.2.2000, n. 2037, in Resp. civ. e prev., 2000, 984, Suicidio del lavoratore e risarcimento del danno). E, a questo proposito, tornano utili le valide argomentazioni di chi (FRANZONI, Dei fatti illeciti, in Comm. Scialoja, Branca, cit. 6; ALPA, La responsabilità civile, in Trattato di diritto civile, Milano, 1999, 318; FACCI, Il nesso di causalità e la funzione della responsabilità civile, in Resp. civ. e prev., 2002, 141)ricorda che le sentenze sopra riportate interpretano l’elemento del nesso di causalità in coerenza con la funzione della responsabilità civile, il cui profilo riparatorio si accentua maggiormente nei casi in cui vi sia un sistema di assicurazione obbligatoria. In tale sistema, profilo centrale lo assume la vittima ed è nel suo interesse che si imputa il danno al soggetto che ha creato l’occasione di danno. Solo in questo modo è spiegabile che al convenuto siano addossati anche eventi che sfuggono ad ogni possibilità di previsione e controllo ex ante, e che quindi non incidono sulla possibilità di prevenire il danno. (13) Cfr. Cass., 24.4.2001, n. 6023, in Danno e resp., 2002, 538 ss., con nota di BONETTA, Il nesso di causalità: una nuova forma di assicurazione? e FACCI, Il nesso di causalità e la funzione della responsabilità civile, in Resp. civ. e prev., 2002, 133, che ha stabilito che se di un ferimento va considerato esito normale la trasfusione effettuata durante un intervento chirurgico, così della trasfusione è conseguenza normale (perché almeno prevedibile) l’epatite. Tale applicazione pratica, che appare prima facie abnorme, se confermata, potrebbe venire in rilievo anche per casi di riliquidazione di un sinistro ormai definito, considerato che tale malattia usualmente rimane silente anche per molti anni. Si deve obiettare, però, accedendo alla teoria condizionistica, che l’infausto risultato della negligenza della struttura ospedaliera (trasfusione infetta) non può essere imputato al feritore. (14) Cfr. GENTILE, Danno alla persona, in Enc. dir., XI, 1962, 662-663; ID., La revisione del danno alla persona, in Resp. civ. e prev., 1965, 286-7; CESAREO CONSOLO, Trattato sul risarcimento del danno, Torino, 1908, 209-210; TEDESCHI, Il momento della determinazione del danno, in Riv. dir. comm., 1934, I, 260; MANNACCIO, Istanza di nuova liquidazione di danni alla persona, in Resp. civ. e prev., 1938, 169-170. DE CUPIS, Danno futuro e autorità della cosa giudicata, in Foro padano, 1955, 1254; e in Teoria e pratica del diritto civile, Milano 1967, 562 ss., ha precisato che possono verificarsi due ipotesi: che il giudice, in sede di liquidazione, pur non ravvisando la certezza del danno futuro (ed escludendo quindi il risarcimento), consideri, per gli elementi di conoscenza a lui accessibili, la possibilità di questo tipo di danno; oppure che il giudice non ravvisi nemmeno la possibilità di tale danno. Nel primo caso, il danno futuro viene compreso, sia pure con risultato negativo, nell’oggetto del giudizio, ed è coperto quindi dalla autorità del giudicato. Nella seconda ipotesi, al contrario, il danno futuro, né contemplato, né contemplabile dal giudice, è sfuggito alla cognizione del medesimo, è estraneo al giudizio, e rimane fuori dai limiti del giudicato, essendo passibile di successiva liquidazione giudiziale. Dunque, la revisione non può rimediare all’errore del giudice circa il danno futuro, ma può ben supplire alla mancanza di giudizio sullo stesso tipo di danno. (15) Cfr. Cass., 27.5.1995, n. 5968, in Notiziario giurispr. lav., 1995, 819; Cass., S.U., 14.6.1995, n. 6689, in Rep. Foro it., v., Cosa giudicata civile, 823 (16) Cfr. Cass., sez. lav., 1.12.1994, n. 10279, in Giust. civ. mass., 1994, fasc. 12; Cass., 26.5.1986, n. 3525, in Giust. civ. mass., 1986, fasc. 5. Si intende che la qualificazione di un fatto come nuovo va riferita alla situazione sostanziale che sussiste nel momento in cui nel giudizio si determinano le preclusioni per la deducibilità di nuovi fatti storici. (17) Vedi, in questi termini, ATTARDI, In tema di limiti oggettivi della cosa giudicata, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1990, 512 ss. MENCHINI, I limiti oggettivi del giudicato civile, Milano, 1987, 203 ss.; PROTO PISANI, Appunti sul giudicato civile e sui suoi limiti oggettivi, in Riv. dir. processuale, 1990, 386 ss.; PUGLIESE, Giudicato civile, in Enc. dir., Milano, 1969, 869; MANDRIOLI, Diritto processuale civile, Torino, 2004, 160. Cfr., poi, Cass., 18.2.1991, n. 1682, in Giust. civ. mass., 1991, fasc. 2; Cass., 22.10.1985, n. 5192, in Giur. it., 1986, I, 1, 383, che non ha fatto buon governo di questi principi, avendo ritenuto preclusa dal giudicato un’azione con la quale si facevano valere danni divenuti attuali dopo che una sentenza passata in giudicato aveva respinto la relativa domanda per l’inattualità degli stessi danni. (18) In argomento, vedi POGLIANI, Responsabilità e risarcimento da illecito civile, Milano, 1969, 476 ss.; VARESE, Revisione e cosa giudicata nella valutazione del danno alla persona, in Dir. e prat. ass., 1989, 29 ss., che analizza e compara la giurisprudenza italiana e quella francese sul punto, e approfondisce il tema del criterio di calcolo del risarcimento a seguito della revisione del danno per aggravamento o fatto sopravvenuto. In giurisprudenza, seguono l’impostazione di cui al testo, App. Milano, 27.5.1938, in Resp. civ. e prev., 1938, 311; Cass., 31.7.1939, in Resp. civ. e prev., 1939, 389; Cass., 19.4.1955, n. 1087, in Giust. civ. mass., 1955, 388; Cass., 5.8.1964, n. 2233, in Rep. Foro it., 1964, Prescrizione civile, n. 27; Cass., 6.5.1971, n. 1282, in Rep. Foro it., 1971, Danni civili, n. 8; Cass., 29.9.1964, n. 2452, in Giust. civ. mass., 1964, 1144; Cass., 7.9.1977, n. 3905, in Giust. civ. mass., 1977, 1587; Cass., 3.11.1984, n. 5576, in Resp. civ. e prev., 1985, 382 ss. (nel caso di specie, la domanda è stata però rigettata perché gli stessi documenti prodotti dal ricorrente indicavano che il fenomeno patologico invocato a ragione dell’ulteriore risarcimento era già in atto durante il precedente giudizio. Sin da tale epoca, infatti, erano comparsi quei sintomi obiettivi che facevano ragionevolmente prevedere la futura insorgenza del lamentato aggravamento). Cfr. anche Trib. Milano, 16.11.1995, in Resp. civ. e prev., 1997, 195 ss., con nota di SAVASTANO, Un caso frequente che rimarca i limiti temporali del giudicato. (19) Cfr. Cass., 29.1.1991, n. 879, in Rep. Foro it., 1991, Giudizio (rapporto), n. 35; Cass., 18.6.1988, n. 4166, in Giust. civ. mass., 1988, fasc. 6; Cass., 19.2.1985, n. 1453, in Giust. civ. mass., 1985, fasc. 2; Cass., 12.4.1984, n. 2368, in Giust. civ. mass., 1984, fasc. 3-4; Cass., 8.11.1982, n. 5873, in Giust. civ. mass., 1982, fasc. 10-11. (20) Cfr. Cass., 1.6.2004, n. 10480, in Giust. civ. mass., 2004, fasc. 6. Nel caso concreto, peraltro, nessuna preclusione era ravvisabile in relazione alle statuizioni civili adottate dal giudice penale, poiché in tale sede, dove è stata pronunciata condanna generica al risarcimento del danno, i postumi successivamente verificatisi non erano neppure deducibili dal danneggiato. (21) Vedi però GIANNITI, Processo civile e penale a confronto, Padova, 2003, 177, che afferma che l’espressione «sussistenza del danno» di cui all’art. 651 c.p.p. comprende anche le conseguenze dannose del fatto, accertate in giudizio e specificate in sentenza dal giudice penale (ad es. durata della malattia, entità del danno), nonché le circostanze di fatto sulle quali il giudice penale si è espressamente pronunciato (ad es. invalidità permanente), con la conseguenza che, soltanto in mancanza di una espressa pronuncia del giudice penale, il giudice civile può autonomamente accertare la durata della malattia e la percentuale di invalidità permanente. (22) Sull’efficacia del giudicato penale nel giudizio risarcitorio civile, da ultimo, vedi VERZERA, Limiti al giudicato penale nei contenziosi civili sul danno, in Dir. form., 2003, 169 ss.; v., POLLINO G. e F., Efficacia della sentenza penale di condanna nel giudizio civile o amministrativo di danno, in Riv. pen., 1991, 451-457 e 589-596; TRISORIO LIUZZI, Disposizioni in tema di rapporti tra processo penale e processo civile nel nuovo codice di procedura penale (d.p.r. 22.9.1988, n. 447, e d.l. 28.7.1989, n. 271). «Efficacia della sentenza penale di condanna nel giudizio civile o amministrativo» (art. 651 c.p.p.), in Leggi civ. comm., 1990, fasc. 3, 902-904. (23) Cfr. Cass., 26.4.2000, n. 5344, in Assicurazioni, 2001, II, 1, 29. (24) L’onere probatorio rischia di non essere assolto se di tali elementi non vi fosse traccia nemmeno generica nella dichiarazione sottoscritta dall’assicurato (Cfr. Cass., 3.3.1999, n. 1787, in Resp. civ. e prev., 2000, 1069, con nota di COPPOLA, Prova del contratto di transazione ed atto di quietanza). (25) Sull’argomento, v. PALMIERI, Quietanza rilasciata dall’assicurato e prova degli elementi costitutivi della transazione, nota a Cass., 20.1.2003, n. 729, in Contr., 2003, 683 ss. Numerose sentenze hanno escluso la necessità che, dal documento prodotto in giudizio, debba desumersi il contenuto integrale del contratto, affermando, nel medesimo tempo, che di quest’ultimo debba quantomeno potersi ricavare l’esistenza. In particolare, sono stati ritenuti come essenziali: la menzione del rapporto giuridico controverso su cui è venuto ad incidere l’effetto abdicativo del negozio, le contrapposte pretese avanzate e le concessioni reciprocamente effettuate in relazione a tali pretese. Cfr. Cass., 10.3.2005, n. 5321, inedita; Cass., 12.8.1992, n. 9525, in Giust. civ. mass., 1992, fasc. 8-9; Cass., 13.7.1983, n. 4779, ivi, 1983, 1687; Cass., 6.1.1983, n. 75, ivi, 1983, 27-28; Cass., 19.7.1979, n. 4298, in Giust. civ. mass., 1979, 1892-1893; Cass., 16.7.1973, n. 2069, in Rep. Foro it., 1973, Transazione, n. 8. Per la giurisprudenza di merito, cfr. Trib. Roma, 24.5.1990, in Riv. giur. circolazione, 1990, 794; App. Napoli, 19.6.1993, in Giur. di Merito, 1994, 15; App. Milano, 30.11.1993, in Gius, 1994, fasc. 5, 108; (26) Cfr. Cass., 25.5.1960, n. 1347, in Rep. Foro it., 1960, Transazione, nn. 16-19; Cass., 30.1.1969, n. 259, ivi, 1969, cit., n. 33; Cass., 15.7.1976, n. 2788, ivi, 1976, cit., n. 5; Cass., 1.6.1983, n. 3758, in Riv. it. dir. lav., 1984, II, 621; Cass., 1.6.1988, n. 3714, in Arch. civ., 1989, 42; Cass., 4.9.1990, n. 9114, in Giust. civ. mass., 1990, fasc. 9; Cass., 14.11.1991, n. 12182, in Foro it., 1993, I, 920. (27) Cfr., DE CUPIS, Il danno, Milano, 1946, nota 101, 353, che precisava, però, che l’impugnazione della transazione per errore sull’ammontare del danno non va confusa con la revisione per sopravvenienza di danno ulteriore. La prima presuppone che si sia errato riguardo all’ammontare del danno su cui si volle transigere (ad es. si volle transigere sul danno dell’amputazione di un arto, conseguente ad un investimento, e la volontà fu viziata da un’errata conoscenza dell’ammontare di quel danno), la seconda, invece, che sia sopravvenuto un danno ulteriore, estraneo alla prima liquidazione (ad es., come conseguenza dell’investimento, non compresa nella transazione, si rende necessaria l’amputazione di un altro arto). Negli stessi termini, cfr. Trib. Brescia, 9.1.1964, in Giust. civ., 1964, I, 690 ss. V., poi, App. Trento, 16.1.1958, in Giust. civ. mass., 1958, 2, secondo cui, la transazione può essere annullata per errore quando questo sia rilevante e comune ad entrambi i contraenti, nel qual caso non occorre neppure il requisito della riconoscibilità, sempre che l’errore stesso verta sul caput non controversum. Tale principio è stato applicato al caso di una transazione conclusa per danni conseguenti ad investimento automobilistico nella certezza, basata sulla documentazione medica, che si trattasse di lesioni lievi, mentre solo successivamente veniva accertata l’esistenza della frattura di una gamba. (28) Cfr. Cass., 8.3.1939, in Resp. civ., 1940, 253, secondo cui «la transazione stipulata nel falso presupposto che le lesioni riportate non avrebbero prodotto i postumi di natura permanente che si assumono verificati in prosieguo di tempo è impugnabile per errore sull’oggetto della controversia, quando risulti che la lesione stessa ha avuto conseguenze di ben maggiore gravità, non tenute presenti all’atto di transazione. Nella specie, trova piena applicazione il disposto dell’art. 1773 c.c., che consente l’azione di nullità contro la transazione, nel caso, tra l’altro, di errore che cada sopra l’oggetto della controversia, anche nella sua quantità, quando questa sia stata presa in considerazione tra le parti per addivenire alla stipulazione del contratto»; App. Milano, 25.3.1938, in Resp. civ., 1939, 80, per la quale «è nulla per errore sull’oggetto della controversia la transazione e quietanza con la quale la persona danneggiata, in conseguenza dell’investimento automobilistico, ricevendo una esigua somma dichiara di essere soddisfatta di ogni suo diritto e di nulla più pretendere in conseguenza delle lesioni sofferte, quando poi risulti che la lesione stessa ha avuto conseguenze di ben maggiore gravità, non tenute presenti nell’atto di transazione»; App. Genova, 2.1.1937, in Giur. torinese, 1937, 1292, per cui «è nulla perché viziata da errore la transazione con la quale il danneggiato da investimento automobilistico accetti, a saldo delle sue ragioni, somme del tutto inadeguate alla reale entità delle lesioni subite, quando questa era da lui ignorata allorché addivenne alla transazione (con nota adesiva di SCOTTO, La transazione sui danni da investimento automobilistico, in Dir. automobilistico, 1938, 44); Trib. Genova, 30.3.1938, in Foro it., 1938, I, 1336-1338; Cass., 8.3.1940, in Resp. civ. e prev., 1940, 255; App. Torino, 3.12.1940, in Rep. Foro it., 1941, 1582, nn. 47-48. Contra, v. App. Parma, 8.6.1909, in Giur. it., 1909, I, 2, 846; Cass., 27.3.1909, in Monitore tribunali, 1909, 406. (29) Cfr., in tal senso, PEDRALI NOY, La revisione del danno alla persona in responsabilità civile, in Resp. civ. e prev., 1940, 216 ss. Su questo concetto, nel vigore del nuovo codice, v., analogamente, Cass., 3.4.2003, n. 5139, in Contr., 2003, 911 ss., annotata da DI CLEMENTE, laddove si afferma che l’errata valutazione economica dell’oggetto non è di per sé un errore essenziale: il valore economico attuale o speculativo dell’oggetto della prestazione non rientra nella nozione di qualità ex art. 1429, n. 2, c.c., bensì nella sfera di motivazioni individuali delle parti. Poiché mediante l’impugnativa per errore non si può dare ingresso a tali motivazioni, un errore di valutazione o di previsione circa la convenienza economica del contratto è irrilevante. Esso può assumere rilievo solo se sono previste esplicite garanzie contrattuali in relazione alla consistenza economica del bene. Tali considerazioni sono rafforzate dalla circostanza che non è ammessa la rescissione per lesione della transazione. Contra, però, vedi Cass., 25.3.1996, n. 2635, in Giur. it., 1997, I, 1, 475, con nota di ACCORNERO, Errore sul prezzo ed errore sul valore: due concetti distinti ma non ancora riconosciuti dalla giurisprudenza. (30) Cfr. App. Milano, 1.12.1939, che osservava che, in tema di transazione, la semplice lesione, come errore di apprezzamento nella reciprocità dell’aliquid dato ed aliquid retento, non costituisce errore sull’oggetto della controversia, e meno ancora potrebbe dare luogo all’azione di nullità prevista dall’art. 1773 c.c. Nell’ipotesi contraria, invece, se l’oggetto della convenzione fu la liquidazione dei danni valutati nel presupposto dell’avvenuta guarigione, la transazione non può essere intesa oltre ciò che ne ha formato l’oggetto. In senso adesivo, vedi PEDRALI NOY, La revisione del danno alla persona in responsabilità civile, in Resp. civ. e prev., 1940, 216 ss., GENTILE, La revisione del danno alla persona, in Resp. civ. e prev., 1965, 287. (31) Per l’estensione agli errori di fatto dell’efficacia dell’art. 1969 c.c., vedi DEL PRATO, Transazione, in Enc. dir., XLIV, Milano, 1992, 813 ss., secondo cui, la rilevanza dell’errore nella transazione è una questione complessa nella quale ben pochi sono i punti che possono considerarsi pacifici; VALSECCHI, Il giuoco e la scommessa. La transazione, in Tratt. Cicu, Messineo, XIII, Milano, 1954, 384; SEGNI, Natura della transazione e disciplina dell’errore e della risoluzione, in Riv. dir. civ., 1982, I, 281; SANTORO, PASSARELLI, La transazione, Napoli, 1975, 159 ss.; MOSCARINI, CORBO, Transazione, in Enc. Giur., XXXI, Roma, 1994; FRANZONI, La transazione, Padova, 2001, 321 ss.; LAUDISA, La contestazione della transazione, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1990, 434; di diverso avviso, PUGLIATTI, Della transazione, in Comm. D’Amelio, Finzi, Libro delle obbligazioni, II, Firenze, 1949, 471; D’ONOFRIO, Della transazione, Comm. Scialoja, Branca, IV. Delle obbligazioni (artt. 1960-1991), Bologna-Roma, 1974, 261 ss.; CARRESI, La transazione, in Tratt. Vassalli, IX, 3, Torino, 1956, 210. In argomento, vedi anche MEMMO, La patologia del contratto di transazione: il regime della nullità e dell’annullabilità, 21 ss., in La transazione nella prassi interna e internazionale, a cura di Andreoli et aliis, Padova, 2000. (32) Sull’inammissibilità dell’errore di fatto nella transazione, pur con riferimento a casi diversi, cfr. Cass., 14.1.2005, n. 690, inedita; Cass., 3.4.2003, n. 5139, in Contr., 2003, 911 ss., annotata da DI CLEMENTE; Cass., 13.12.1982, n. 6855, in Mass. Foro it., 1982; Cass., 14.6.1976, n. 2024, in Rep. Foro it., 1976, Transazione, n. 9; Cass., 9.8.1969, n. 2973;Cass., 10.5.1967, n. 941, in Giur. it., 1968, I, 1, 344; Cass., 8.7.1965, n. 1419, in Foro it., 1966, I, 895; Cass., 9.5.1958, n. 1537, in Foro it., 1959, I, 821 ss.; Trib. Napoli, 4.1.1994, n. 47, in Dir. e giur., 1995, 525, con nota di LUBRANO; App. Cagliari, 5.7.1985, in Riv. giur. sarda, 1986, 442, con nota di LAI; Cass., 6.8.1997, n. 7219, in Vita notarile, 1998, 201, che afferma l’irrilevanza dell’errore che cade sul caput controversum, poiché rispetto al contratto di transazione l’errore non è una situazione anomala, bensì un elemento naturale. Ma vedi, di recente, Cass., sez. lav., 24.11.2004, n. 22169, in Giur. it., 2005, 60, nella quale si afferma che la parte che nella conclusione di una transazione cada in errore (di fatto), può chiedere l’annullamento, ancorché potesse rimuovere il proprio errore con l’uso della normale diligenza (non essendo richiesto alcun elemento soggettivo per la parte che cada in errore). (33) Cfr. SEGNI, Natura della transazione e disciplina dell’errore e della risoluzione, in Riv. dir. civ., 1982, 282, secondo cui la transazione chiude la controversia non in conformità alla situazione litigiosa preesistente, ma indipendentemente da questa, sicché non è pensabile che essa possa essere invalidata per l’inesatta conoscenza di una questione che le parti non vogliono chiarire, ma superare in qualunque modo. Concordano con questa posizione e ne inferiscono l’irrilevanza dell’errore di fatto sul caput controversum, pur partendo da una diversa impostazione in ordine al concetto di lite nella transazione, FRANZONI, La transazione, cit., 335, ed anche LAUDISA, La contestazione della transazione, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1990, 434. (34) Vedasi le diverse impostazioni date in merito da CARRESI, La transazione, in Tratt. Vassalli, IX, 3, Torino, 1956, 140 e da SANTORO, PASSARELLI, op. cit., 157-158. Cfr., poi, per la rilevanza dell’errore sul caput non controversum, Cass., 6.8.1997, n. 7219, in Giur. it., 1998, 900, secondo cui «poiché è rilevante l’errore di diritto sulla situazione costituente presupposto della res controversa, che è antecedente logico della transazione – e come tale estraneo al caput controversum – è annullabile la transazione divisoria conclusa nell’erroneo presupposto che un bene appartenesse interamente all’asse ereditario, anziché la metà, per essere l’altra metà del coniuge superstite, in regime di comunione legale dei beni con il de cuius»; Cass., 16.3.1981, n. 1465, in Rep. Giur. it., 1981, Transazione, n. 4, secondo cui l’errore di diritto non rende annullabile la transazione solo se insiste sul caput controversum, non anche se investe un presupposto di questo. (35) Cfr. SEGNI, Natura della transazione e disciplina dell’errore e della risoluzione, in Riv. dir. civ., 1982, 282; SANTORO, PASSARELLI, La transazione, Napoli, 1975, 156 ss.; GITTI, L’oggetto della transazione, Milano, 1999, 271, che ha definito come tautologica la distinzione tra caput controversum e caput non controversum. Cfr., inoltre, Cass., 3.4.2003, n. 5139, in Contr., 2003, 911 ss., annotata da DI CLEMENTE, che ritiene che la res litigiosa si identifichi nella situazione preesistente alla transazione che ne costituisce il presupposto. V. poi Cass., 14.1.2005, n. 690, cit., che afferma che l’oggetto del negozio transattivo va identificato non in relazione alle espressioni letterali usate dalle parti, non essendo necessaria una puntuale specificazione delle contrapposte pretese, bensì in relazione all’oggettiva situazione di contrasto, che le parti hanno inteso comporre attraverso reciproche concessioni, giacché la transazione, quale strumento negoziale di prevenzione di una lite, è destinata, analogamente alla sentenza, a coprire il dedotto ed il deducibile. (36) In giurisprudenza, cfr. Cass., 17.8.1990, n. 8330, in Rep. Foro it., 2000, Transazione, n. 2; Cass., 4.9.1990, n. 9114, ibid., cit., n. 3, dove si puntualizza che le reciproche concessioni di un accordo transattivo devono essere intese in correlazione con le reciproche intese e contestazioni, e non già in relazione ai diritti effettivamente spettanti a ciascuna delle parti. Cfr., in dottrina, LAUDISA, La contestazione della transazione, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1990, 434; FRANZONI, La transazione, cit., 312 ss. (37) Nell’ambito del caput non controversum, per Cass., 3.4.2003, n. 5141, in Giust. civ. mass., 2003, fasc. 4, confluiscono tutte le premesse del contratto attinenti alla situazione antecedente che non si riflettono nell’autoregolamento, di modo che, in relazione al valore retrospettivo della transazione, la consistenza della situazione da cui nasce la controversia si ripercuote alla stregua di un presupposto sulla validità del componimento pattizio. (38) Cfr. SANTORO, PASSARELLI, La transazione, Napoli, 1975, 147 ss.; FRANZONI, La transazione, cit., 334 ss.; CARRESI, La transazione, cit., 213 ss., ed in giurisprudenza, vedi, in questi termini, Cass., 7.10.1960, n. 2602, in Settimana della Cass., 1960, 1504 ss. (39) Cfr. Cass., 14.3.1973, n. 730, in Giur. it., 1973, I, 1, 1432 ss.; Cass., 5.4.1975, n. 1217, ivi, 1975, I, 1, 1796 ss. Occorre ricordare l’opinione di chi (CARRESI, La transazione, Torino, 1965, 209 ss.) ha affermato che quando la transazione viene impugnata per difetto di uno dei presupposti, essendo il vizio non dentro al negozio, ma al di fuori di esso, non sembra neppure esatto, a rigore, parlare di annullamento della transazione. Per BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, in Trattato di diritto civile, Torino, 1950, 443 ss., invece, in questo caso, il contratto si risolverebbe ex nunc, potendosi al massimo concedere che gli effetti della risoluzione decorrano dal momento della scoperta dell’errore. (40) ROPPO, Sugli usi giudiziali della categoria «indeterminabilità dell’oggetto del contratto» e su una recente, applicazione a tutela di «contraenti deboli», in Giur. it., 1979, I, 2, 146, ha rilevato che tale concetto rischia di essere piegato ad usi distorti, offrendo possibilità di argomentazione a contraenti di malafede che tentino, invocando la nullità del contratto per indeterminabilità dell’oggetto, di sciogliersi indebitamente da vincoli assunti o di sfuggire alle responsabilità cui sarebbero chiamati in conseguenza dei loro comportamenti. Occorre, peraltro, tracciare una netta linea di separazione tra l’ipotesi dell’indeterminatezza, dell’imprevedibilità, dell’aleatorietà e della determinabilità per relationem. Cfr. SACCO, Il contratto, 1993, 2, 127, che, a proposito dell’orientamento che qualificava come determinabile per relationem la fideiussione omnibus (prima dell’intervento ex lege 17.2.1992, n. 154, che ha previsto un importo massimo garantito), ha sottolineato che nella fattispecie si confondeva imprevedibilità ed indeterminatezza. Nel caso della fideiussione omnibus, infatti, il dato cui porre rimedio era la mancata fissazione di un tetto massimo di responsabilità del garante, si trattava, quindi, di qualcosa di ulteriore e diverso rispetto all’impossibilità di determinare il quanto dovuto. (41) GITTI, L’oggetto della transazione, Milano, 1999, 213 ss. (42) Cfr. Cass., 14.3.1938, n. 832, in Resp. civ. e prev., 1938, 294; App. Milano, 27.5.1938, ivi, 1938, 311; Cass., 17.8.1950, n. 2468, in Mass. Giur. it., 1950, c. 593; App. Milano, 15.3.1959, in Mass. Giur. it., 1961, 671; Cass., 24.7.1964, n. 1744, in Giust. civ., 1965, I, 1610, con nota di GERI; Cass., 19.6.1969, n. 2168, in Prev. soc., 1969, 1577; Cass., 6.3.1969, n. 733, in Riv. giur. circolazione, 1970, 234; Cass., 18.3.1971, n. 769, in Prev. soc., 1971, 1329; Cass., 7.9.1977, n. 3905, in Mass. Foro it., 1977, 753 ss.; Cass., 30.1.1979, n. 649, in Foro it., 1979, I, 1496: Cass., 28.11.1981, n. 6360, in Mass. Foro it., 1981, 1297 ss.; ma, in particolare, v. Cass., 6.10.1975, n. 3172, in Giur. it., 1975, I, 1929 (in cui si discuteva delle conseguenze di un trauma cranico appalesatesi solo molti mesi dopo la conclusione della transazione); Cass., 22.9.1986, n. 5702, in Giust. civ. mass., 1986, fasc. 8-9; Cass., 11.11.1986, n. 6607, in Foro it., 1987, I, 833; Cass. pen., 9.5.1988, n. 5688 (cit. ROTONDI, La transazione nella giurisprudenza, Milano, 1993, 111); Cass., 29.8.1995, n. 9101, in Giust. civ. mass., 1995, 1555; Cass., 5.8.1997, n. 7215, in Riv. giur. circolazione, 1997, 1005, nella quale la Suprema Corte ha cassato con rinvio la decisione della Corte d’Appello che aveva erroneamente interpretato la domanda attorea come azione di annullamento di una transazione per presunto errore in ordine all’entità dei postumi conseguiti ad un sinistro, mentre la stessa domanda era, in realtà, tesa allo strumentale accertamento dell’estraneità dei nuovi danni all’oggetto della già conclusa transazione (si trattava della scoperta, successiva all’accordo, di un ematoma alla milza, che aveva suggerito l’esecuzione di un intervento chirurgico di splenectomia). Avviene, però, normalmente che nella valutazione originaria del danno si tenga già conto della possibilità o eventualità dei futuri aggravamenti, nel senso di attribuire ad essi una valutazione patrimoniale quasi di alea, da computarsi preventivamente e definitivamente nell’ammontare complessivo della liquidazione. Si capisce così che nella generalità dei casi, in relazione al contenuto ed all’ambito estensivo della originaria liquidazione, la proponibilità di istanze successive di nuova liquidazione debba escludersi in concreto. Così è, infatti, avvenuto nei casi risolti da Cass., 26.4.1996, n. 3888, in Giust. civ. mass., 1996, 633,che afferma che la transazione intervenuta è preclusiva di ulteriori richieste risarcitorie, in quanto deve essere considerata come corretta la valutazione del giudice di merito che ha ritenuto che la perdita di tutto il visus (dopo la stipula della transazione) fosse inevitabile conseguenza della gravissima situazione già evidenziata nei documenti anteriori alla transazione stessa. Infatti, a seguito di trauma del bulbo dell’occhio sinistro dell’attore, residuava, prima dell’accordo, solo un visus di 1-50. Anche in Trib. Mantova, 11.5.2004, inedita, pur richiamando l’orientamento dominante sopra descritto, si afferma che non è evidenziabile, alla luce della espletata C.T.U., alcuna patologia diversa da quella emersa precedentemente. V. poi Trib. Bologna, 16.3.1999, inedita, che, aderendo anche essa alla sopracitata impostazione, nel caso concreto, afferma che il danno lamentato (impotentia coeundi) non aveva il carattere dell’imprevedibilità al momento della intervenuta transazione, in quanto risultava documentalmente che lo stesso si fosse già palesato, pur essendo stato ricondotto dal danneggiato a fattori psicologici. Con riferimento a diversa fattispecie, si può citare anche Cass., 17.1.2003, n. 615, in Rass. locazioni e cond., 2003, 249, con nota di CIMINO, che conferma che ove l’atto faccia riferimento a situazioni litigiose future, la transazione si estende ad esse, con il limite della loro ragionevole prevedibilità. Nel caso di specie, sono state considerate prevedibili, dopo vent’anni di locazione, le spese ingenti affrontate per l’integrale riparazione dell’immobile, a causa dello stato di incuria e l’errato uso fattone dai conduttori. Cosicché si è ritenuto che anche i danni non accertati originariamente dovessero essere ricompresi nell’accordo transattivo raggiunto. (43) Le transazioni che, oltre al danno già verificatosi, comprendono anche i danni futuri ed eventuali, sono qualificate come aleatorie da LAUDISA, La contestazione della transazione, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1990, 417 ss. (44) In tal senso, vedi, Cass., 14.1.1988, n. 208, in Giust. civ. mass., 1988, fasc. 1, che ha confermato la sentenza di secondo grado che aveva dichiarato la nullità della transazione in relazione a danni non ancora manifestatisi, il verificarsi dei quali non era ragionevolmente prevedibile (era stato accertato un trauma contusivo-distorsivo, invece della più grave lesione meniscale rilevata solo in sede artroscopica). E ciò ha stabilito per l’indeterminabilità dell’oggetto della transazione ai sensi dell’art. 1346 c.c. Per un’antica e ormai superata giurisprudenza, invece, non era liquidabile il danno futuro se l’omessa previsione dell’aggravamento era dovuta all’imperizia del C.T.U. (Cass., 19.4.1955, n. 1087, in Foro padano, 1955, 1251 ss., con nota di DE CUPIS, Danno futuro e autorità della cosa giudicata, Cass., 29.9.1964, n. 2452, in Resp. civ. e prev., 1965, 286 ss.). In questi casi, infatti, si affermava, in maniera discutibile, che fosse onere della parte far valere l’erroneità della valutazione medico-legale attraverso gli ordinari mezzi di impugnazione. (45) Per PERLINGIERI (Appunti sulla rinunzia, in Riv. notariato, 1968, 364) la rinunzia inserita in un contratto di transazione non è più una dichiarazione meramente dismissiva e, quindi, non è rinunzia in senso stretto. Essa non ha uno scopo pratico autonomo, ma assume significato nello scambio reciproco. Sotto il profilo degli interessi, la parte rinunziante dismette in cambio di un aliquid. Tra transazione e rinuncia, le differenze sono argomentabili, quindi, essenzialmente dalla diversa struttura dei due negozi, e dalla differente funzione cui gli stessi assolvono. In senso analogo, cfr. MACIOCE, Il negozio di rinuncia nel diritto privato, Napoli, 1992, 115 ss. (46) Cfr. PEDRALI NOY, La revisione del danno alla persona in responsabilità civile, in Resp. civ. e prev., 1940, 15 ss. (47) Nel senso dell’impossibilità che diritti futuri possano formare oggetto di rinuncia, vedi la dottrina sotto il vigore del codice del 1865, su cui per tutti, ATZERI VACCA, Delle rinunzie secondo il codice civile italiano, Torino, 1915, 320. Più recentemente, si è ritenuto invece possibile che il negozio di rinuncia abbia ad oggetto diritti futuri, sia rilevando il carattere eccezionale dei divieti legislativi di cui agli artt. 458 e 2937 c.c. (Cfr. BARBERO, Sistema del diritto privato italiano, I, Torino, 1962, 322, secondo il quale oggetto della rinuncia può essere in genere «ogni diritto o ragione, anche futuro ed eventuale, purché non sia assolutamente indeterminabile o non vi osti un preciso divieto di legge»), sia osservando che tale eventualità non trova ostacoli di carattere logico, quanto specifici divieti nelle particolari posizioni giuridiche considerate. Nel senso della rinunciabilità, in giurisprudenza, cfr. Cass., 16.11.1979, n. 5967, in Rep. Foro it., 1979, Rinunzia in genere, 2335, n. 3; Cass., 18.2.1977, n. 745, ivi, 1977, cit., 2122, n. 1; Cass., 17.1.1975, n. 204, in Foro it., 1976, I, 1089; App. Milano, 2.6.1978, in Arc. giur. circolaz., 1978, 639 ss.; Cass., 8.1.1992, n. 104, in Foro it., 1992, I, 2437, per le quali, la rinuncia, quale espressione tipica dell’autonomia negoziale privata, può riguardare anche diritti futuri ed eventuali, purché determinati o determinabili nel loro contenuto e nella loro estensione, con il solo limite che non esistano divieti di legge o che non si tratti di diritti indisponibili. Non mancano però decisioni contrarie (Cass., 25.5.1973, n. 1537, ivi, 1973, cit., 2306, n. 5, secondo la quale la rinuncia postula l’esistenza di un diritto acquisito; Cass., 23.2.1957, n. 664, in Giust. civ., 1957, I, 1808, per la quale, necessario presupposto della rinuncia è l’appartenenza al patrimonio del rinunciante del diritto al quale egli dichiara di abdicare; Cass., 7.5.1956, n. 1461, in Rep. Foro it., 1956, Rinunzia in genere, 2455, n. 10, per cui la rinunzia ad un diritto o ad una facoltà, non ancora entrati nel patrimonio del soggetto, è radicalmente nulla). Per quel che concerne l’oggetto della presente ricerca, si è ormai giunti pacificamente a riconoscere come possibile la richiesta risarcitoria del danno manifestatosi successivamente, anche nel caso che si sia rinunciato in sede transattiva a qualsiasi diritto od azione futura (Cfr., a riguardo, Cass., 6.10.1975, n. 3172, cit.; Cass., 22.9.1986, n. 5702, cit.; Cass. pen., 9.5.1988, n. 5688, cit.; Cass., 5.8.1997, n. 7215, cit.). (48) V., in tal senso, PASCOLI, in Danni da trauma e revisione del risarcimento, in Riv. giur. circolazione, 1955, 1425 ss. (49) Cfr. DEL PRATO, Transazione (dir. priv.), in Enc. dir., 1992, 844, secondo cui il valore precettivo delle clausole in questione deve restare circoscritto all’ambito della lite risolta. Ciò è poi confermato dal canone interpretativo dell’art. 1364 c.c., che, statuendo per i contratti in generale, afferma che «per quanto generali siano le espressioni usate nel contratto, questo non comprende che gli oggetti sui quali le parti si sono proposte di contrattare». (50) Va tenuto ovviamente presente che quando il fatto illecito riveste gli estremi di un reato, la relativa domanda di risarcimento del danno si prescrive nello stesso termine previsto per quest’ultimo, ove per esso sia prevista una prescrizione più lunga. Sempre che, se il reato non è perseguibile d’ufficio, la querela sia stata presentata ritualmente. Cfr., in argomento, di recente, FEOLA, Il termine di prescrizione nell’azione per il risarcimento del danno da reato perseguibile a querela: il punto di arrivo delle sezioni unite, nota a Cass., 10.4.2002, n. 5121, in Resp. civ. e prev., 2002, 1368 ss. (51) Cfr. Cass., 30.1.1979, n. 649, in Foro it., 1979, 1496, I, che ha definito l’aggravamento delle lesioni anteriori, irrilevante ai fini della prescrizione, come quella «evoluzione peggiorativa di una precedente lesione, che rientra tra le eventualità del suo decorso tipico, ed è come tale non imprevedibile e preventivamente determinabile». (52) Cfr. Cass., 28.11.1981, n. 6360, in Giust. civ. mass.,1981, fasc. 11. Il caso esaminato era quello di una donna con sangue del gruppo RH negativo, alla quale venne trasfuso il sangue del gruppo RH positivo, e ciò comportò la sua isoimmunizzazione. Un danno questo giudicato di per sé giustificativo di una pretesa risarcitoria, ma che costituì anche l’antecedente necessario sia del decesso del frutto del concepimento in occasione della gravidanza, sia della perdita della capacità di procreare. In tale ipotesi, si è ritenuto che la prescrizione dell’azione relativa al primo evento dannoso non potesse pregiudicare quella concernente gli eventi posteriori. Cfr., poi, Cass., 25.11.2003, n. 17940, in Giur. it., 2004, 1276, nella quale, in applicazione dello stesso principio, in una controversia avente ad oggetto l’illegittima cancellazione dall’albo di un concessionario per la riscossione dell’imposta sulla pubblicità, la Corte, premesso che il fatto produttivo del danno era costituito dalla giuridica impossibilità, per tale soggetto cancellato dall’albo, di partecipare ad una gara, ha affermato che, in caso di pluralità di gare che si succedono nel tempo, gli eventi dannosi sono da considerarsi plurimi e, pertanto, è diverso il termine iniziale di prescrizione del diritto al risarcimento del danno, computabile in ragione di ciascuna esclusione; Cass., 24.7.1965, n. 1744, in Giust. civ., 1966, I, 109, con nota di GERI, Appunti in materia di prescrizione del diritto al risarcimento da fatto illecito permanente; Cass., 6.3.1970, n. 569, in Riv. giur. circolazione, 1971, I, 161, con nota di FLETZER, Decorrenza del termine di prescrizione dell’azione di risarcimento del danno extracontrattuale; Cass., 6.5.1971, n. 1282, in Giust. civ., 1971, I, 1417; Cass., 27.11.1973, n. 3245, in Foro it., 1974, I, 1112; Cass., 30.1.1979, n. 649, in Foro it., 1979, I, 1496; Cass., 19.8.1983, n. 5412, in Dir. e prat. ass., 1984, 424, con nota di VIANELLO, La prescrizione del diritto risarcitorio per i danni causati dalla circolazione ed una analisi dei significativi indirizzi giurisprudenziali in tema di sua applicazione; Cass., 24.10.1983, n. 6259, in Giust. civ. mass., 1983, fasc. 9; Cass., 21.7.1989, n. 3444, in Giust. civ. mass., 1989, fasc. 7; Cass., 21.5.1996, n. 4677, in Giur. it., 1997, I, 1, 467, annotata da DI GIOIA; Cass., 25.11.1996, n. 10448, in Arch. civ., 1997, 265; Cass., 29.5.1997, n. 4774, in Giust. civ. mass., 1997, 867; Cass., 19.12.1997, n. 12891, in Rep. Foro it., 1997, Prescrizione e decadenza, 35; Cass., 13.2.1998, n. 1520, Giust. civ. mass., 1998; Cass., 10.6.2000, n. 7937, in Giust. civ., 2001, I, 2771, con nota di BRUN, Danno biologico e dies a quo della prescrizione; in dottrina vedi, poi, LEBAN, in Persona e danno: la pubblica amministrazione, la responsabilità medica, profili operativi, a cura di Cendon, Milano, 2004, V, 5352 ss.; IANNACONE, Commentario al codice civile, sub art. 2947, in Comm. Schlesinger, Milano, 1999, 172 ss.; VITUCCI, Commentario al codice civile, sub art. 2935, in Comm. Schlesinger, Milano, 1990 106 ss.; ROSELLI, VITUCCI, in Tratt. Rescigno, XX, Torino, 1998, 495 ss. (53) Cfr., per la definizione di danno lungolatente, IZZO, La precauzione nella responsabilità civile. Analisi di un concetto sul tema del danno da contagio per via trasfusionale, Padova, 2004, 202 ss., ID., Sangue infetto responsabilità civile: responsabilità, rischio e prevenzione, in Danno e resp., 2000, 229 ss.; ID., La responsabilità dello Stato per il contagio di emofilici e politrasfusi: oltre i limiti della responsabilità civile, in Danno e resp., 2001, 1067 ss. (54) L’art. 2947, 1° co. c.c., che disciplina la prescrizione per i fatti illeciti, afferma che il diritto al risarcimento del danno si prescrive in cinque anni dal giorno in cui il «fatto si è verificato». Tramite una interpretazione evolutiva di tale norma, a sua volta coordinata con gli artt. 2043 e 2935 c.c., si è giunti a riconoscere che la prescrizione possa decorrere dal momento in cui il diritto può essere fatto valere, cioè nel momento di manifestazione del danno. Questo indirizzo della giurisprudenza è costante a partire dal leading case di Cass., 24.3.1979, n. 1716, in Resp. civ. e prev., 1980, 90. V. poi Cass., 24.2.1983, n. 1442, in Resp. civ. e prev., 1983, 627, che afferma che la prescrizione inizia a decorrere dal giorno in cui l’evento dannoso si è rivelato in tutte le sue componenti principali, e cioè dal momento in cui le conseguenze di carattere permanente, perlomeno quelle essenziali, si sono stabilizzate; Cass., 5.7.1989, n. 3206, in Rep. Foro it., 1989, Prescrizione e decadenza, n. 19; Cass., 4.1.1993, n. 13, in Giur. it., 1993, I, 1686; Cass., 12.8.1995, n. 8845, in Giust. civ. mass., 1995, 1517, fattispecie in cui una errata lettura degli esami radiografici aveva portato a diagnosi di artrosi vertebrale, invece di frattura di femore; Cass., 9.5.2000, n. 5913, in Econ. assic., 2000, 1226, che ha precisato che il danno si manifesta all’esterno quando diviene «oggettivamente percepibile e riconoscibile» anche in relazione alla sua rilevanza giuridica. In un caso di trattamenti sanitari errati sull’apparato dentario della vittima (mancata diagnosi di una paradontite, con successivi trattamenti effettuati da un odontotecnico, pur trattandosi di interventi riservati a medici od odontoiatri), la Suprema Corte ha ritenuto che solo a seguito della caduta del primo dente, a distanza di tre anni dalle prestazioni ricevute, fu possibile per il danneggiato rendersi conto dell’effettiva negatività delle cure ortodontiche e quindi apprezzarne la rilevanza giuridica ai fini dell’azione risarcitoria; Cass., 10.6.2000, n. 7937, in Rep. Foro it., 2000, Prescrizione e decadenza, n. 19; Cass., 27.2.2002, n. 2913, in Rep. Giur. it., 2002, Prescrizione e decadenza, n. 15. (55) Cfr. Cass., 35.11.1999, n. 13145, in Riv. infortuni, 2000, II, 41. (56) Cass., 21.2.2003, n. 2645, in Danno e resp., 2003, 845, con commento di RIGHETTI, Prescrizione e danno lungolatente, e BONA, Prescrizione e danno alla persona: il nuovo leading case della Cassazione sposta il dies a quo dalla manifestazione del danno all’addebitabilità del pregiudizio al responsabile (la nuova regola a confronto con il modello inglese. Idee per una riforma), in Giur. it., 2004, I, 1, 286. V. però Cass., 28.1.2004, n. 1547, in Giur. it., 2004, 1583 ss., con note critiche di RIGHETTI, Ancora un revirement della Cassazione sul dies a quo della prescrizione dell’azione risarcitoria nel danno lungolatente: un segnale per le Sezioni unite?, e di BONA, Prescrizione e«dies a quo» nel danno alla persona: quale modello?, in Resp. civ. e prev., 2004, 574 ss., che ha affermato, in un obiter dictum, che l’essenziale ratio dell’istituto della prescrizione deve essere ravvisata nella certezza dei rapporti giuridici, e con tale esigenza si pone in insanabile contrasto la pretesa di far decorrere la prescrizione non dalla data certa in cui il fatto dannoso si è verificato, ma dal momento, assolutamente incerto, in cui il danneggiato possa aver avuto conoscenza del danno e del suo diritto a farlo valere. Si trattava però di un caso di responsabilità di natura contrattuale, e il danneggiato era un medico, quindi la sua mancanza di diligenza e prudenza era inescusabile, in quanto soggetto munito di specifiche competenze in materia. In particolare, il danneggiato avrebbe potuto effettuare determinati test diagnostici, in un’epoca nella quale, essendoci già state manifestazioni della malattia (impotenza), poteva già ipotizzarsi il medesimo diritto al risarcimento del danno richiesto solo sei anni dopo. In senso analogo, negandosi cioè valore alla componente di conoscibilità del danno, e tentando un recupero del tenore letterale delle disposizioni codicistiche, si vedano le articolate argomentazioni di MONATERI, La responsabilità civile, in Le fonti delle obbligazioni, 3, diretto da Sacco, Torino, 1998, 373 ss. (57)Vedasi, in argomento, Trib. Bologna, 17.8.2004, in www.giuraemilia.it, che ha rilevato l’intervenuta prescrizione in un caso in cui il danneggiato, per sua stessa ammissione, non aveva avuto alcuna sospensione di dolori, pur a seguito di un’artroscopia, per mezzo della quale il chirurgo avrebbe dovuto (ma così non fece) asportare il menisco dolorante. Per il Giudicante, il danneggiato avrebbe dovuto accorgersi, data la mancata remissione dei sintomi, che l’intervento era fallito. Considerato, dunque, che il decorso della prescrizione non ha come ratio un premio all’inerzia, ma il contrario, se l’attore, dinanzi all’assenza di benefiche conseguenze dell’intervento, non si è attivato per qualificare dal punto di vista medico l’origine dei suoi disturbi, e solo dopo nove anni si è sottoposto ad adeguati esami, imputet sibi. Contenuto Riservato!