Antonio Albanese, La responsabilità professionale del praticante avvocato
a) L’art. 2231 c.c. nega il diritto al compenso al professionista non iscritto all’albo per le prestazioni eseguite
Ciò si spiega con le finalità di carattere sociale e collettivo degli albi professionali. Alla luce di questi interessi generali, deve anche negarsi che il professionista possa rivalersi esperendo i rimedi restitutori.
b) Assume rilievo la distinzione tra mancanza di abilitazione e mera mancanza di iscrizione all’albo
L’art. 2231 c.c. va coordinato con l’art. 834 c.p., che punisce chi esercita abusivamente una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato.
c) Sovente le associazioni di categoria rappresentative dei professionisti si costituiscono nel giudizio penale per domandare il risarcimento del danno morale
Qualora vi sia lesione dell’interesse dei soggetti abilitati, riconducibile al discredito arrecato dall’esercizio abusivo della professione da parte dei non abilitati, occorre capire se le associazioni o gli organi di categoria abbiano legittimazione attiva nel processo penale, e possano quindi costituirsi parte civile per ottenere, oltre che il risarcimento del danno patrimoniale, anche il risarcimento del danno morale.
>> Sommario
- Il caso
- L’assenza di iscrizione all’albo
3. L’assenza di abilitazione
4. La responsabilità nei confronti dei professionisti iscritti all’albo. I soggetti legittimati a chiedere il risarcimento del danno morale
5. Soluzione del caso
1. Il caso
Nel caso in esame, che trae spunto da una recente sentenza della seconda sezione della Cassazione ([1]), l’avv. Tizio conviene in giudizio Caio, chiedendone la condanna al
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Caio obietta di nulla dovere per l’attività giudiziale svolta da Tizio nell’ambito della causa intrapresa, per il periodo intercorrente dalla notifica della citazione all’iscrizione di Tizio all’albo degli avvocati ([2]), e ciò sulla base del disposto dell’art. 2231 c.c., che nega al professionista non iscritto azione per il pagamento della retribuzione. Precisa inoltre, il convenuto, di avere coerentemente provveduto al pagamento del compenso spettante all’attore per l’attività professionale da lui svolta nel periodo successivo alla sua iscrizione all’albo.
L’attore, da parte sua, ribadisce di non avere mai assunto la rappresentanza legale di Caio in giudizio e, pertanto, di non avere mai violato gli obblighi imposti dalla legge professionale forense, ma di essersi limitato allo studio delle questioni controverse ed alla redazione delle minute degli atti di causa, attività per la quale non è necessaria l’iscrizione ad alcun albo ed in forza della quale trovava giustificazione l’obbligo alla corresponsione di un adeguato compenso, come pattuito.
Il caso richiede la soluzione dei seguenti quesiti: se Tizio abbia diritto al compenso per l’attività espletata prima di divenire avvocato; se Tizio, in caso di nullità del contratto di prestazione professionale ex art. 2231 c.c., possa rivalersi attraverso l’azione di arricchimento ingiustificato; se il comportamento di Tizio realizzi gli estremi del reato di esercizio abusivo della professione ex art. 348 c.p.; se l’ordine degli avvocati sia legittimato a costituirsi parte civile in un eventuale processo penale e, in tal caso, se possa domandare il risarcimento dei soli danni patrimoniali o anche di quelli morali.
2. L’assenza di iscrizione all’albo.
L’albo professionale risponde ad una funzione di interesse generale, poiché per suo tramite è reso possibile alle associazioni di categoria lo svolgimento di una verifica deontologica dei requisiti di professionalità dei loro iscritti, a garanzia dei terzi che vi entreranno in contatto. A presidio di questo interesse, la legge pone una sanzione civile indiretta ([3]): l’art. 2231 c.c., inerente le attività professionali per il cui esercizio è imposta l’iscrizione in un albo o elenco, esclude il diritto al compenso del professionista non iscritto per le prestazioni già eseguite.
Tra i casi più frequenti di esercizio abusivo della professione si segnalano, accanto a questo qui esaminato, quello dell’odontotecnico che effettua prestazioni riservate agli iscritti negli albi professionali dei medici chirurghi e odontoiatri ([4]); quello del geometra che esercita attività riservate agli iscritti all’albo degli ingegneri ed architetti ([5]); quello del laureato che si fregi del titolo di dottore commercialista o di titoli similari pur non essendosi iscritto nell’apposito albo ([6]).
Ebbene, la giurisprudenza non ha dubbi quando si tratta di applicare l’art. 2231 c.c. al caso dell’avvocato che presta rappresentanza, assistenza e difesa delle parti in giudizio senza essere iscritto nell’albo forense. Determinante, però, perché l’art. 2231 trovi applicazione, è che le prestazioni eseguite dal professionista non iscritto, al di là della qualificazione datane dalle parti, costituiscano attività riservata in esclusiva agli iscritti negli albi professionali; infatti, l’invalidità si riferisce soltanto alle attività che la legge prescrive siano poste in essere esclusivamente da professionisti abilitati all’esercizio professionale, mentre per ogni altra attività, anche se abitualmente svolta da professionisti iscritti in albi speciali, vige la regola generale della libertà, per ogni soggetto, di svolgere la propria attività lavorativa. In particolare, la figura del praticante legale nel nostro ordinamento è quella di un soggetto abilitato ad un’attività di tirocinio propedeutico e di formazione rispetto alla professione di avvocato, titolare, quindi, di uno status abilitativo provvisorio, limitato e temporaneo; le Sezioni Unite hanno pertanto escluso che il praticante possa dirigere un’attività professionale complessa (quale la direzione di uno studio), considerando che l’attività propria dell’avvocato non si esaurisce nella sola rappresentanza e difesa in giudizio, ma è costituita anche da tutte quelle operazioni intellettuali precedenti e preparatorie delle attività processuali e soprattutto dalle relazioni con il cliente che ha diritto di avere rapporti, anche per quanto riguarda gli aspetti economici, con un professionista legittimamente esercente ([7]).
I giudici distinguono tra attività stragiudiziale, alla quale è ammesso anche chi non ha ancora conseguito il titolo di avvocato, e attività giudiziale, riservata solo agli appartenenti alla categoria ([8]). Il punto focale, allora, è capire cosa debba intendersi per attività giudiziale: è massima comune quella secondo cui «la prestazione di opere intellettuali nell’ambito dell’assistenza legale è riservata agli iscritti negli albi forensi solo nei limiti della rappresentanza, assistenza e difesa delle parti in giudizio e, comunque, di diretta collaborazione con il giudice nell’ambito del processo» ([9]). Non rientra in quest’attività, allora, la redazione di un parere o la prestazione di consulenza continuativa indipendente dal e al di fuori del conferimento di poteri rappresentativi, mentre è più problematica è la qualificazione di atti che normalmente non hanno natura strettamente giudiziale, come la predisposizione e comunicazione a terzi di diffide, messe in mora o denunce, ma che possono essere propedeutici all’instaurazione del processo e che configurano il compimento di atti giuridici in nome e per conto del cliente: qui, al rapporto di prestazione d’opera professionale si aggiunge il rapporto di mandato, con applicazione delle regole ex artt. 1703 ss. c.c.
Se, ad esempio, le attività svolte dal praticante, e per le quali questi chiede il pagamento, sono consistite nel decidere di opporre un decreto ingiuntivo, nell’individuare le ragioni da porsi a base di una opposizione, nel redigere l’atto di citazione, allora di tratta di attività che «sono l’essenza dell’attività difensiva civile in quanto attività rivolta anche alla collaborazione con il Giudice nel processo, e come tali sono riservate agli iscritti negli albi forensi; che, se si ritenesse altrimenti, e cioè che la redazione di un atto di citazione non sia attività difensiva, non si capirebbe quali possano essere le attività riservate agli avvocati, se non, forse, la redazione dei verbali di udienza» ([10]).
Può aggiungersi, che nessuna rilevanza ha il fatto che, in concreto, il processo nel quale è stata svolta l’attività di cui si chiede il compenso era valido in quanto al medesimo aveva partecipato un altro difensore, legittimato da procura, ed iscritto all’albo ([11]).
La Suprema Corte ha recentemente fatto proprie queste argomentazioni, risolvendo che «ai fini dell’applicazione delle disposizioni della Legge professionale forense 13 giugno 1942, n. 1794, sono da considerarsi prestazioni giudiziali non soltanto quelle che consistono nel compimento di veri e propri atti processuali, ma anche quelle attività che si svolgano al di fuori del processo, purché strettamente dipendenti da un mandato relativo alla difesa e rappresentanza in giudizio, cosicché possano ritenersi come preordinate allo svolgimento di attività propriamente processuali o ad esse complementari» ([12]).
Da qui, la inevitabile conclusione che il praticante avvocato che abbia espletato le descritte prestazioni professionali non può pretendere alcuna somma con riferimento ad esse, giacché tutta l’attività professionale da lui svolta in epoca antecedente alla sua iscrizione all’albo, «è affetta da insanabile nullità sin dalla sua genesi». Logica conseguenza dell’inquadramento dell’attività in concreto prestata dal praticante nell’ambito delle attività giudiziali, è che nel caso in esame il contratto è nullo ex art. 1418 c.c. in quanto contrario ad una norma imperativa, l’art. 2231 c.c. appunto ([13]).
Giova chiarire che mentre questa nullità produce la denegatio actionis per il professionista, resta salvo il diritto di ripetere per il cliente che abbia già corrisposto al praticante avvocato il prezzo della prestazione ([14]). Il cliente, pertanto, da un lato non deve corrispondere alcun corrispettivo, dall’altro, se il professionista lo ha già percepito, ha diritto alla ripetizione della somma secondo le regole dell’indebito.
Si noti, peraltro, che il praticante avvocato impedito al conseguimento del pagamento dall’art. 2231 c.c., non può neanche rivalersi per altra via, come quella, solitamente intrapresa in giudizio, dell’arricchimento senza causa: le Corti, correttamente, escludono «che basandosi sul disposto dell’art. 2041 c.c., il non iscritto all’albo possa vantare alcuna pretesa verso il cliente, in quanto la funzione integratrice e sussidiaria dell’azione di indebito arricchimento viene meno allorché l’ordinamento, per ragioni di ordine pubblico o per altro motivo, neghi tutela ad un determinato interesse» ([15]). Chi non può ottenere il compenso a causa del divieto posto dall’art. 2231 c.c. non ha neanche diritto ad ottenere alcunché sulla base dell’azione generale di arricchimento, né, per le medesime ragioni, con l’azione di ripetizione ([16]).
D’altra parte, se il non iscritto all’albo sapesse che, pur non potendo ottenere il corrispettivo pattuito, ha comunque diritto alla restituzione per equivalente della prestazione eseguita, avrebbe certamente minori remore ad eludere il divieto di legge (caduta la sanzione civile rimarrebbero, infatti, soltanto le sanzioni di natura amministrativa o penale, variabili secondo la professione abusivamente esercitata).
A favore della possibilità, nonostante l’art. 2231 c.c., di agire coi rimedi restitutori, si è affermato ([17]) che «ciò di cui si discute è il diritto del professionista al compenso, diritto che presuppone la validità del contratto e che invece non sussiste se il contratto è nullo». Pertanto, il contratto è nullo e la prestazione non dà diritto al compenso, «ma con ciò nulla si dice sul se la prestazione possa essere ripetuta per equivalente». Il legislatore intende escludere che il contratto produca effetto, altra cosa è l’effetto restitutorio ([18]).
Chi esclude, correttamente,la restituzione ([19]), rileva come questa si risolverebbe in una frustrazione della ratio di cui all’art. 2231 c.c., e aggiunge che se il solvens eseguisse nella consapevolezza di poter ripetere per equivalente eluderebbe la sanzione della nullità. Su quest’ultimo punto, si ribatte che «anche l’accipiens elude la sanzione della nullità, quando riceve sapendo di non dovere restituire per equivalente» ([20]). Ritengo però che la legge voglia evitare questo: che il solvens (nel nostro caso: il praticante avvocato) esegua. Ottenuto ciò, d’altronde, il problema dell’accipiens è risolto in radice.
Infatti, seppure chi si trova nella condizione di avere fruito di una prestazione professionale senza doverla pagare ne ritrae certamente un vantaggio, la norma non è diretta a soddisfare un suo interesse: si tratta, come detto in premessa, di “una sanzione civile, che colpisce nel patrimonio il soggetto, ma vera e propria sanzione, con la funzione tipica della sanzione, quale misura afflittiva volta a garantire l’effettività dell’ordinamento giuridico” ([21]).
Nel caso in esame, la conoscenza da parte del cliente della mancata iscrizione all’albo da parte del professionista, è ininfluente, considerata la su esposta natura dell’interesse che l’art. 2231 c.c. mira a tutelare: una volta qualificata la prestazione svolta come attività giudiziale, non si può che applicare detta norma. Non mi pare neanche percorribile, infatti, la strada dell’obbligazione naturale, cui conseguirebbe la soluti retentio in favore del professionista qualora si dimostri che il cliente, sin dall’inizio avvertito della mancata iscrizione all’albo, pur sapendo di non esservi tenuto, aveva deciso spontaneamente di corrispondere ugualmente il compenso in conformità ad un dovere morale: la giurisprudenza, al fine di scoraggiare ogni tentativo di esercizio di attività professionale da parte di soggetti non legittimati, esclude che la fattispecie possa configurare una obbligazione naturale ([22]).
A questo punto vale la pena, però, spostare l’attenzione sul versante risarcitorio, che attiene sia al cliente (il quale, sebbene non tenuto a pagare il compenso, può comunque aver subito un danno dall’assunzione dell’incarico da parte di un soggetto privo dei requisiti legali), sia alla categoria professionale.
3. L’assenza di abilitazione.
Deve valutarsi se entri in gioco una responsabilità del professionista per le conseguenze dannose derivate al committente dall’indebita accettazione dell’incarico professionale, in relazione al mancato adempimento degli obblighi con esso assunti.
Il problema della perpetrazione di un illecito da parte del professionista ed il problema dell’assenza di un diritto al compenso, sono strettamente connessi, ma non vanno sovrapposti.
Su di essi incide il fatto che l’art. 348 del codice penale prescrive che chiunque eserciti abusivamente una professione, per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato, è punito con la reclusione fino a sei mesi o con una multa. L’art. 348 c.p. ha natura di norma penale in bianco, in quanto postula, come si evince dalla stessa formulazione del testo normativo (vedasi l’avverbio «abusivamente») l’esistenza di altre disposizioni di legge che stabiliscono le condizioni soggettive ed oggettive in difetto delle quali non è consentito – ed è quindi abusivo – l’esercizio di determinate professioni: trattasi propriamente di altre disposizioni che, essendo sottintese dall’art. 348, sono integrative della norma penale ed entrano a fare parte del suo contenuto quasi per incorporazione, così che la violazione di esse si risolve in violazione della norma incriminatrice ([23]).
Il profilo risarcitorio, a ben vedere, è duplice:
1) v’è la lesione dell’interesse del committente, ossia di chi attribuisce l’incarico al professionista confidando nella sua preparazione tecnica, nelle sue qualità morali e culturali. Innanzi tutto, non pare dubitabile che i danni subiti dal committente per una negligente prestazione del professionista siano anche in tal caso risarcibili secondo le regole generali: a nulla rileva, infatti, che il contratto in questione sia nullo. Mentre, però, in campo penale, l’esercizio abusivo della professione è di per sé motivo di procedimento ex art. 348 c.p., per ottenere una condanna al risarcimento del danno il cliente dovrà dimostrare l’esistenza del danno stesso e la sua riconducibilità alla condotta illecita del professionista ([24]).
Quanto, invece, al danno derivante al committente dall’accettazione dell’incarico professionale da parte di un soggetto che non avrebbe potuto espletare la relativa attività, viene da chiedersi se la tutela si esaurisca nell’esenzione dal pagamento ai sensi dell’art. 2331 c.c., o se, invece, egli possa anche lamentare una lesione ulteriore ([25]): il profilo risarcitorio riguardante la responsabilità nei confronti del cliente, e specificamente la questione di come incida sulle regole generali il fatto che il danno è stato causato da un soggetto non abilitato o non iscritto, ha particolare rilievo in materia di responsabilità medica. È stato evidenziato ([26]) che, con riferimento alla colpa professionale dell’odontotecnico, i giudici censurano la condotta di chi ha praticato un intervento, poi risultato peggiorativo, nonostante sapesse della propria inesperienza in quel settore: «sussiste responsabilità per colpa professionale per imperizia e imprudenza a carico del dentista qualora abbia intrapreso un lavoro impegnativo e rischioso pur sapendo, o dovendo sapere, di non disporre di adeguata preparazione scientifica e capacità tecnica» ([27]). Anche sotto questo aspetto, poi, l’assenza di abilitazione deve essere valutata con maggior severità rispetto alla mancata iscrizione all’albo.
2) Si pone la lesione dell’interesse dei soggetti abilitati, riconducibile al discredito ad essi arrecato dall’esercizio abusivo della professione da parte dei non abilitati.
Qui è ancor più importante distinguere tra mancanza di abilitazione e mera mancanza di iscrizione all’albo.
La ratio per cui la norma penale sanziona l’esercizio di determinate professioni da parte di chi è sfornito dell’apposita abilitazione, risiede nell’obiettivo di salvaguardare i terzi da attività che risultano potenzialmente pericolose se poste in essere da chi è privo di quelle cognizioni tecniche che invece si presume possieda colui che, dopo aver conseguito la laurea, ha altresì superato l’esame di abilitazione all’esercizio della professione.
Ma la norma penale si applica, a differenza di quella civile, non per effetto dell’esercizio professionale senza previa iscrizione all’albo, bensì come conseguenza dell’esercizio professionale in assenza di abilitazione. L’abilitazione conseguita mediante esame di Stato, è presupposto per iscriversi all’albo; il comportamento di chi esegue la prestazione in assenza di abilitazione è ritenuto più grave del comportamento di chi, una volta ottenuta l’abilitazione, esercita la professione senza iscriversi all’albo ([28]). Commette un reato, pertanto, il laureato in economia e commercio, che, senza aver conseguito l’abilitazione (e quindi, di norma, anche non iscritto all’albo), utilizza abusivamente il titolo di dottore commercialista. Non lo compie, invece, il laureato abilitato ma non iscritto, al quale si applica esclusivamente la regola dell’art. 2231 c.c. Ancora, commette un reato chi esercita abusivamente l’attività di insegnante di snowboard, per la quale occorre la speciale abilitazione prevista per i maestri di sci: è stato così condannato un soggetto che, presentatosi all’albergo dove soggiornavano i potenziali clienti, aveva offerto ad un pubblico generalizzato la possibilità di prendere lezioni di snowboard ad un prezzo economico, qualificandosi come maestro di sci, fornendo l’attrezzatura necessaria, stabilendo un preciso prezzo orario, ed indossando una speciale divisa recante un distintivo alludente all’insegnamento della tecnica sportiva ([29]).
Non commette reato, invece, il laureato in giurisprudenza che, superato l’esame da avvocato, assuma un incarico prima di iscriversi all’Ordine degli avvocati: semplicemente, non avrà diritto al compenso.
Pertanto, solo le prestazioni compiute senza la prescritta abilitazione ricadono nell’ambito penale, mentre la nullità che affetta le prestazioni compiute da soggetto abilitato ma non iscritto all’albo, è soggetta soltanto alla sanzione civilistica della denegatio actionis di cui all’art. 2231 c.c.
Tornando adesso al caso in esame, emerge che il comportamento del praticante avvocato era pure astrattamente riconducibile alla fattispecie penale cui si è accennato ([30]), anche perché l’abusività dell’esercizio della professione non è esclusa dal fatto che nella specie detta attività fosse formalmente imputabile ad altro professionista, abilitato; né incide che essa sia stata svolta in modo conforme ai dettami della scienza professionale (come sembra possibile desumere dalla circostanza che il committente non ha richiesto alcun risarcimento danni e non ha in alcun modo contestato il diritto del professionista al compenso, relativamente all’attività prestata in epoca successiva all’iscrizione all’albo). Resta il fatto che andrebbe in concreto provato che il reato è stato commesso con dolo, consistente nella coscienza e volontà di compiere uno o più atti di esercizio della professione di avvocato, con la consapevolezza di non possedere l’autorizzazione all’esercizio di quelle attività.
Va infine rammentato, che l’art. 21 del Codice deontologico forense (approvato il 27.1.2006) considera «illecito disciplinare sia l’uso di titolo professionale non conseguito ovvero lo svolgimento di attività in mancanza di titolo o in periodo di sospensione, sia il comportamento dell’avvocato che agevoli o in qualsiasi altro modo, diretto o indiretto, renda possibile a soggetti non abilitati o sospesi l’esercizio abusivo dell’attività di avvocato o consenta che tali soggetti ne possano ricavare benefici economici, anche se limitatamente al periodo di eventuale sospensione dell’esercizio».
4. La responsabilità nei confronti dei professionisti iscritti all’albo. I soggetti legittimati a chiedere il risarcimento del danno morale
L’iscrizione all’albo non è posta solo a tutela del singolo cliente contraente, ma costituisce un presidio anche di due interessi generali: a) la «garanzia, per l’intera collettività, di buon funzionamento del settore sociale di pertinenza» ([31]); b) «l’interesse corporativo del professionista iscritto, il quale sa di potere contare sul sostegno e sulla protezione che gli vengono offerti dall’ordine professionale come entità organizzata, dotata di capacità di influire sulle decisioni degli organi di governo del Paese» ([32]).
Soprattutto sotto questo secondo aspetto, si pone il problema della tutela dei professionisti iscritti, e quello, conseguente, della legittimazione attiva a far valere in giudizio detta tutela.
Quando alla mancata iscrizione all’albo si aggiunge l’assenza di abilitazione, in particolare, si tratta di capire se sussista una legittimazione degli iscritti a costituirsi parte civile nel processo penale; questione, questa, resa complessa dal fatto che, se è certo che l’interesse tutelato dall’art. 348 c.p. consiste nel garantire l’esercizio esclusivo di determinate professioni a chi è in possesso della prescritta abilitazione, non è altrettanto certo, invece, se questo interesse abbia esclusivo carattere generale. Se così fosse, la sua lesione riguarderebbe in via diretta e immediata la pubblica amministrazione, la cui organizzazione è offesa dalla violazione delle norme che regolano appunto le professioni, mentre solo di riflesso toccherebbe gli interessi c.d. professionali, vale a dire particolari. Sul piano della legittimazione attiva, questo comporterebbe che gli ordini professionali e le associazioni di categoria, non essendo portatori del predetto interesse generale – oggetto specifico della tutela penale – non possano costituirsi parte civile per tutelare gli interessi morali, e per ciò astratti, della categoria, ma solo per far valere un danno diretto, di carattere patrimoniale (a nulla rilevando la contraria previsione eventualmente contenuta nello statuto dell’ordine o dell’associazione).
Così, è stato escluso che l’associazione medici dentisti italiani potesse chiedere il risarcimento del danno morale per l’esercizio abusivo della professione di odontoiatra da parte di odontotecnici ([33]).
È ovvio che nessuna legittimazione ha il singolo professionista a partecipare al giudizio nella qualità di persona offesa ([34]), ma con riguardo alle associazioni rappresentative degli interessi dei professionisti la soluzione lascia più perplessi. Può obiettarsi, infatti, che il reato di esercizio abusivo di una professione non lede solo l’interesse dell’amministrazione pubblica (intesa in senso lato) a che la professione stessa sia esercitata da soggetti abilitati, ma anche quello circostanziato e diffuso degli appartenenti alla categoria, rappresentata dagli organismi esponenziali della categoria stessa.
Ne deriva che il danno si riverbera non solo sul piano patrimoniale, ma anche su quello morale: dall’esercizio abusivo della professione deriva, «oltre che un pregiudizio economico per la concorrenza sleale operata da non iscritti nell’albo, anche un danno non patrimoniale per la lesione dell’interesse morale a che la professione sia esercitata da soggetti abilitati, in quanto presumibilmente dotati di maggiore preparazione ed esperienza in ragione del superamento dell’esame di abilitazione». E poiché i soggetti abilitati sono unitariamente rappresentati dall’ordine professionale, sembra nel giusto quella giurisprudenza che ammette che l’associazione di categoria sia legittimata a costituirsi parte civile nel procedimento penale contro gli autori del reato ([35]).
Così argomentando, ad esempio, si è riconosciuta l’ammissibilità della costituzione di parte civile: all’associazione medici dentisti italiani, Sezione di Forlì, nei confronti di numerosi odontotecnici della zona imputati del reato di cui all’art. 348 c.p. ([36]); al consiglio provinciale dei consulenti del lavoro, quale ente esponenziale degli interessi della categoria dei singoli iscritti all’ordine, nei confronti di chi aveva esercitato attività di assistenza ai datori di lavoro negli adempimenti in materia di lavoro, previdenza ed assistenza sociale dei lavoratori dipendenti ([37]).
5. Soluzione del caso
L’aspetto risarcitorio sembra avere spazio limitato nella tutela del committente, il quale è già protetto per mezzo della denegatio actionis ex art. 2331 c.c., sebbene non sia da escludere che sulla quantificazione di un eventuale risarcimento del danno subito possa incidere anche, se provato, il fatto di avere in buona fede affidato l’incarico ad un soggetto privo dei requisiti garantiti dall’iscrizione all’albo.
Maggiore importanza acquistano invece i profili risarcitori qualora entrino in gioco gli interessi privati degli appartenenti alle categorie professionali, i quali, se è violato altresì l’art. 348 c.p., possono costituirsi parte civile nel processo penale attraverso i loro organi esponenziali e domandare la riparazione del danno patrimoniale, derivante dalla concorrenza sleale operata dal soggetto non abilitato, e del danno morale, connesso al discredito da quell’attività provocato alla categoria.
L’interesse delle associazioni professionali coincide con l’interesse dello Stato a che la professione sia esercitata soltanto da coloro che vi sono abilitati. In tale ipotesi, per quel che riguarda l’associazione professionale, incidono due voci di danno: a) il danno patrimoniale derivante dal reato di esercizio abusivo della professione a causa della concorrenza sleale subita in quel determinato contesto territoriale dai professionisti iscritti; b) il danno consistente nell’offesa all’interesse circostanziato preso a cuore dall’associazione medesima ([38]).
È corretto allora riconoscere la legittimazione a costituirsi parte civile all’ordine degli avvocati, in quanto istituzionalmente preposto alla tutela degli interessi dell’intera categoria professionale, nei confronti di chi ese
[1] Cass., 19.2.2007, n. 3740, in Corr. giur., 2007, 627, con nota di V. Mariconda, Prestazione professionale del praticante avvocato e nullità del contratto: «Per il disposto dell’art. 2231 c.c., l’esecuzione di una prestazione d’opera professionale di natura intellettuale effettuata da chi non sia iscritto nell’apposito albo previsto dalla legge, dando luogo a nullità assoluta del rapporto tra professionista e cliente (art. 1418, comma 1°, c.c.), priva il contratto di qualsiasi effetto. Pertanto, nel caso di esercizio della professione forense in difetto dell’iscrizione all’albo professionale al momento in cui il contratto di patrocinio è stato stipulato e sono state poste in essere le relative attività (nella specie: studio della pratica e predisposizione di minute dell’atto di citazione nonché di altri atti difensivi), il professionista non ha diritto al compenso». (Cassa e decide nel merito, Trib. Rimini, 16.2.2002).
[2] Come noto, la l. 24.2.1997, n. 27, ha soppresso l’albo dei procuratori legali, i quali sono stati iscritti d’ufficio nell’albo degli avvocati.
[3] Così Galgano, Alla ricerca delle sanzioni civili indirette, premesse generali, in Contr. e impr., 1987, 536: «Il prestatore d’opera intellettuale non ha azione per il compenso, e questa è una sanzione prevista a tutela di interessi che non sono certo particolari. Ecco perché è una sanzione, ossia una misura punitiva: non è posta a tutela dell’interesse del cliente, ma a tutela di interessi generali, se si vuole di interessi corporativi, degli interessi della categoria professionale, che l’ordinamento giuridico mostra di avere fatto propri».
[4] In questi casi si ha la «nullità assoluta, rilevabile d’ufficio, del rapporto contrattuale intercorso tra professionista e cliente, con conseguente venir meno del diritto del professionista alla retribuzione ed il sorgere del diritto del cliente a ripetere quanto già corrisposto» (Cass., 16.10.1995, n. 10769, in Giust. civ., 1996, I, 66).
[5] Cfr. Cass., 22.6.1982, n. 3794, in Riv. giur. edilizia, 1983, I, 239. Gli esempi sono numerosi: essendosi ritenuto che la progettazione di un impianto di illuminazione pubblica sul territorio comunale non rientri tra le attribuzioni professionali dei geometri (quali sono indicate tassativamente dall’art. 16 r.d. 11.2.1929 n. 274), ma fra quelle degli ingegneri ed architetti, si è negato il diritto a compenso per l’opera prestata al geometra che aveva espletato siffatto incarico commessogli da un comune (Cass., 5.11.1992, n. 11994, in Giust. civ. Mass., 1992, 1621). Cass., 7.5.1987, n. 4231, in Giust. civ. Mass., 1987, 1197, ha sancito: «Allorquando un soggetto agisce per ottenere il pagamento del compenso per la prestazione, a favore della controparte, di assistenza tecnico-amministrativa, rientrante nell’ambito delle attività riservate per legge agli iscritti nell’albo dei ragionieri, incombe su di lui l’onere – trattandosi di un presupposto condizionante l’accoglimento della domanda – di produrre in giudizio il certificato di iscrizione in detto albo; nè l’esistenza di tale presupposto può essere desunta dall’iscrizione del professionista nel distinto albo dei revisori ufficiali dei conti, la cui equipollenza con l’albo dei ragionieri è soltanto ipotetica, essendo prevista, sia pure in via eccezionale, la possibilità di iscrizione in esso a prescindere da quella nel correlativo albo professionale». Cass., 15.2.2005, n. 3021, in Giur. Bollettino legisl. Tecnica, 2005, 470: «Per il disposto dell’art. 2231 c.c., l’esecuzione di una prestazione d’opera professionale di natura intellettuale effettuata da chi non sia iscritto nell’apposito albo previsto dalla legge, dà luogo a nullità assoluta del rapporto tra professionista e cliente, privando il contratto di qualsiasi effetto, in contrario non rilevando la circostanza che il progetto dell’opera realizzando (nel caso, un muro) risulti redatto da altro professionista (nel caso, un ingegnere) cui quello incaricato (nel caso, un geometra) si sia al riguardo rivolto, dal personale possesso del titolo abilitante da parte di quest’ultimo dipendendo la validità del negozio».
[6] La Cassazione (Cass., 5.7.1997, n. 6057, in Fallimento, 1997, 12077) ha considerato che, una volta vagliato che le attività esercitate (nella specie: tenuta dei libri contabili, registrazione di fatture, predisposizione della modulistica per la dichiarazione dei redditi, chiusura della contabilità e assistenza nell’atto di cessione dell’azienda), formano oggetto della professione di ragioniere e perito commerciale (e di dottore commercialista), per il loro esercizio è necessaria l’iscrizione all’albo (secondo la previsione di cui all’art. 1, lett. a) e b), del decreto ministeriale concernente l’ordinamento delle dette professioni: d.p.r. 27.10.1953 n. 1067 e n. 1068). Analogamente, Cass., 2.12.1993, n. 11947, in Giust. civ. mass., 1993, 1708, è giunta a negare il rimborso dopo aver vagliato la pertinenza dell’attività espletata all’interno di quelle per cui era richiesta dalla legge l’iscrizione: la S.C. ha confermato la decisione di merito, la quale aveva ritenuto che l’attività consistita nell’approntare la documentazione necessaria per un affidamento bancario, redigendo una relazione sulla gestione di un’azienda ed un’analisi della situazione patrimoniale, con studio e presentazione del bilancio, rientrasse tra le attività professionali esclusivamente riservate agli iscritti nell’albo dei ragionieri ai sensi dell’art. 1 lett. b) e c) del d.P.R. 27.10.1953 n. 1068).
[7] Cass., S.U., 28.1.2005, n. 1727, in Mass. Giust. civ., 2005, 311. Nella specie, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Bergamo aveva inflitto al professionista la sanzione della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale per la durata di dodici mesi. Contro la decisione del Consiglio dell’Ordine era stato proposto ricorso al Consiglio Nazionale Forense, che però lo respinse, ritenendo sussistere la prova che lo studio apparteneva al ricorrente e che le collaborazioni degli altri avvocati avevano la funzione di permettere a costui l’esercizio di un’attività per la quale non era abilitato. Secondo il Consiglio Nazionale Forense, questo comportamento violava la norma di cui all’art. 21 del codice deontologico, atteso che l’organizzazione e la gestione di uno studio professionale articolato devono ritenersi attività proprie dell’esercizio professionale e pertanto consentite esclusivamente agli iscritti all’albo, mentre i praticanti avvocati abilitati al patrocinio possono gestire la loro limitata attività professionale e possono partecipare a studi organizzati, ma non possono dirigere un’attività professionale complessa, soprattutto quando l’assunzione degli incarichi non rispetti i limiti dell’abilitazione provvisoria al patrocinio; infatti, secondo il Consiglio Nazionale Forense, l’attività professionale non si esaurisce nella rappresentanza e difesa in giudizio, ma è costituita anche da tutte quelle operazioni intellettuali precedenti e preparatorie delle attività processuali e soprattutto dalle relazioni con il cliente, che ha diritto di avere rapporti, anche per quanto riguarda gli aspetti economici, con un professionista legittimamente esercente.
[8] Pertanto, nel caso di consulenza legale extragiudiziale svolta da soggetto, anche straniero, non iscritto all’albo professionale forense, la prestazione contrattuale è pienamente lecita e va retribuita, senza che per il compenso possa applicarsi obbligatoriamente la tariffa professionale: cfr. Cass., 7.7.1987 n. 5906, in Giust. civ. Mass., 1987, 1697.
Cass., 30.5.2006, n. 12840, in Giur. Bollettino legisl. Tecnica, 2006, 460, ha ritenuto incensurabile la sentenza di merito che aveva riconosciuto il diritto al compenso per l’attività stragiudiziale svolta dal segretario di una organizzazione sindacale in favore di un lavoratore nei confronti del datore di lavoro, genericamente qualificata come di assistenza sindacale, non avendo peraltro il ricorrente neppure dedotto in quale specifico albo professionale il prestatore di lavoro avrebbe dovuto essere iscritto. Trib. Venezia, 6.9.2002, in www.deaprofessionale.it, ha affermato che l’attività stragiudiziale in una pratica di risarcimento danni svolta da soggetto non iscritto all’albo degli avvocati non rientra nei divieti previsti dall’art. 2231 c.c., giacché l’assistenza e la consulenza legale può essere prestata anche da professionisti diversi dagli avvocati, ed il compenso deve essere determinato ai sensi dell’art. 2225 c.c.
[9] Cass., 8.8.1997, n. 7359, in Giust. civ. mass., 1997, 1370, la quale ha ribadito che, al contrario, al di fuori di tali limiti, l’attività di assistenza e consulenza legale non può considerarsi riservata agli iscritti negli albi professionali e conseguentemente non rientra nella previsione dell’art. 2231 c.c. e dà diritto a compenso a favore di colui che la esercita.
[10] Sono, queste, le argomentazioni portate dalla difesa del cliente, alle quali aderisce il Collegio adito, in Cass., 19.2.2007, n. 3740, cit.
[11] Cfr. Cass., 19.5.2000, n. 6519, in Giust. civ. mass., 2000, 1065, sebbene relativa al diverso caso in cui si chiedeva il compenso (nella specie negato dai giudici) per l’attività svolta dal procuratore legale dinanzi ad un’autorità giudiziaria extra districtum, nella vigenza dell’art. 5 r.d.l. 27.11.1933 n. 1578 (abrogato dall’art. 6 l. 24.2.1997 n. 27).
[12] Cass., 19.2.2007, n. 3740, cit.
[13] Cass., 6.6.2006, n. 13214, in Obbl. e Contr., 2006, 936, con nota di Gennari, ha affermato che ai sensi dell’art. 2231 c.c. l’esecuzione di una prestazione d’opera professionale di natura intellettuale effettuata da chi non sia iscritto nell’apposito albo previsto dalla legge, dando luogo a nullità assoluta del rapporto tra professionista e cliente rilevabile anche d’ufficio, priva il contratto di qualsiasi effetto. Pertanto, nel caso di esercizio della professione forense in difetto dell’iscrizione all’albo professionale al momento in cui il contratto d’opera è stato stipulato e sono state poste in essere le relative attività (nella specie, il legale era assegnato a un tribunale compreso in un distretto di Corte di appello diverso da quello in cui aveva svolto la attività), il professionista non ha diritto al compenso; né, d’altra parte, sulla validità del rapporto professionale intercorso (vigente l’art. 5 r.d n. 1578 del 1993, prima dell’abrogazione di cui all’art. 6 della legge n. 27 del 1997) spiega influenza l’efficacia retroattiva attribuita dalla legge 479 del 1999 alla sanatoria disposta con effetti esclusivamente processuali dalla citata legge n. 27 del 1997 che, nel disporre la soppressione dell’albo dei procuratori, ha stabilito la decorrenza dell’iscrizione all’albo degli avvocati (art. 2) senza alcun riconoscimento dell’attività professionale extra-districtum svolta in violazione della legge professionale.
[14] Cfr. Trib. Milano, 16.5.1991, in Giur. it., 1991, I, 2, 737.
[15] Cass., 22.6.1982, n. 3794, in Giust. civ., 1982, I, 2575. Cass., 2.10.1999, n. 10937, in Giust. civ. Mass., 1999, 2059, ha ritenuto applicabili i medesimi principi anche quando la prestazione resa sia riferibile ad una società di capitali, per essersi essa assunta contrattualmente tale impegno, a nulla rilevando che la società si sia servita, per l’espletamento di detta attività, di tecnici iscritti ai relativi albi.
Per il caso invece in cui venga concessa l’azione di arricchimento, va comunque sottolineato, che la quantificazione dell’indennizzo spettante al professionista va effettuata secondo i criteri fissati dall’art. 2041 c.c., mentre resta esclusa la possibilità di un’applicazione diretta della tariffa professionale, la quale spiega rilievo solo come parametro di valutazione oltre che come limite massimo di quella liquidazione. Cfr. Cass., 27.6.1994, n. 6182, in Giust. civ. mass., 1994, 898.
[16] Trib. Cagliari, 9.1.1991, in Riv. giur. Sarda, 1991, 765. Contra, però, Rescigno, Note a margine dell’ultima legge sulla mediazione, in Riv. dir. comm., 1990, I, 250, il quale osserva che la legge si limita a negare l’azione per il compenso al professionista non abilitato. È opinione, pienamente condivisibile, di questo autore (Id., Professioni «protette» e lavoro subordinato, in Dir. e Giur., 1996, 209 ss.) che, nel caso che le attività protette siano oggetto di un contratto di lavoro subordinato, al professionista lavoratore subordinato si applichi, oltre che l’art. 2231 c.c., anche l’art. 2126 c.c.
[17] Maffeis, Contratti illeciti o immorali e restituzioni, Milano, 1999, 137-152.
[18] Maffeis, Contratti illeciti, cit., 147, considera inoltre decisivo che soltanto all’art. 2035 c.c. la legge vieta espressamente la restituzione, e poiché l’art. 2035 c.c. è norma eccezionale, occorrerebbe escludere la irripetibilità nei casi, come quello ex art. 2231 c.c., in cui non si ha immoralità. Ma, mi pare, il fatto che la causa turpe sia necessaria affinché operi l’art. 2035 c.c., non dovrebbe escludere che anche per le prestazioni non connotate da immoralità possano sussistere ragioni assolutamente differenti atte a pervenire allo stesso risultato, ossia all’irripetibilità della prestazione
[19] Gallo, Arricchimento senza causa e quasi contratti, cit., 209, 183 s.
[20] Maffeis, Contratti illeciti, cit., 148 s.
[21] Galgano, Alla ricerca delle sanzioni civili indirette, premesse generali, cit., 536.
[22] App. Brescia, 27.5.1953, in Corti Brescia e Venezia, 1953, 522.
Pret. Torino, 16.3.1996, in Gius, 1996, 1544, ha però affermato che «il pagamento di provvigioni, effettuato in esecuzione di un contratto di agenzia nullo per difetto di iscrizione all’albo dell’agente, configura un adempimento di obbligazione naturale, con conseguente irripetibilità delle somme spontaneamente pagate». Ma la pronuncia non smentisce quanto riportato nel testo, poiché la giurisprudenza ritiene che all’agente non iscritto nell’apposito ruolo (dapprima istituito dalla legge 12 marzo 1968, n. 316, e in seguito sostituito da quello ex legge 3 marzo 1985, n. 204) non si applichi l’art. 2231 c.c. Detto ruolo è ritenuto, infatti, per valore e caratteristiche, diverso dagli albi o elenchi cui si applica l’art. 2231 c.c., avendo esso un valore circoscritto al settore economico, non raggiungendo alcuna finalità o funzionalità di carattere sociale e collettivo e non assumendo rilievo di interesse generale (Cass., sez. un., 3.4.1989, n. 1613, in Nuova giur. civ. commen., 1990, I, 1 ed in Foro it., 1989, I, 1420; Cass., sez. lav., 19.8.1992, n. 9675, in Foro it., 1993, I, 428, con nota di Pardolesi, ed in Giust. civ., 1993, I, 1583, con nota di D’Amore. Conf.: Cass. lav., 10.6.1992, n. 7112, in Giust. civ. Mass., 1992, 954; Trib. Torino, 3.10.1997, in Giur. piemontese, 1997, 460; Trib. Milano, 31.5.1996, in Gius, 1996, 3236; Cass., sez. lav., 13.11.1991, n. 12093, in Giust. civ. Mass., 1991, 1637). Va peraltro ricordato che, a seguito dell’emanazione della direttiva del Consiglio 18 dicembre 1986, n. 86/653 Cee, relativa al coordinamento dei diritti degli Stati membri concernenti gli agenti commerciali indipendenti, e in conseguenza delle decisioni della Corte di Giustizia delle Comunità Europee, la Cassazione (Cass., 18.5.1999, n. 4817, in Foro it., 1999, I, 2542, con nota di A. Palmieri; Cass., 17.4.2002, n. 5505, in Giur. comm., 2003, II, 467, con nota di Lomonaco) ha potuto affermare che l’agente non iscritto al ruolo può esercitare direttamente l’azione contrattuale per ottenere il compenso dal cliente. Per maggiori approfondimenti rinvio a Albanese, I contratti conclusi con professionisti non iscritti all’albo, in Contr. e impr., 2006, 226 ss.
[23] Così, testualmente, Cass. pen., sez. VI, 5.3.2001, n. 16230, in Studium Juris, 2002, 104.
Perché possa essere ritenuto sussistente il reato di abusivo esercizio di una professione, tuttavia, non è sufficiente che l’agente non abilitato abbia illegittimamente provveduto alla iscrizione nell’albo professionale, né che egli abbia allestito uno studio, trattandosi di meri atti prodromici ed essendo viceversa necessario almeno un atto concreto in cui l’abusivo esercizio si sia manifestato (Cass. pen., sez. V, 18.2. 2002, n. 12177, in Dir. e Giust., 2002, f. 19, 72).
Inoltre, si tenga presente che al reato in esame potrebbe affiancarsi anche quello di usurpazione di titolo o di onori (art. 498 c.c.), che non può ritenersi assorbito da quello di abusivo esercizio di una professione.
[24] Musolino, Il «monopolio» del professionista: la nullità del contratto d’opera intellettuale per mancanza di iscrizione all’albo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1994, 964 s.
[25] Il tema è stato affrontato con particolare incisività da Cass., 13.1.1984, n. 286, in Giust. civ. Mass., 1984, 109. La materia del contendere riguardava l’applicazione dell’art. 16 del regolamento professionale di cui al R.D. 11 febbraio 1929 n. 274: in base a questa norma, i geometri possono redigere progetti (di massima o esecutivi) ed assumere la direzione, vigilanza e liquidazione solo per «costruzioni rurali e di edifici per uso d’industrie agricole di limitata importanza» e «modeste costruzioni civili», a condizione che le relative opere non comportino l’impiego di conglomerati cementizi, semplici o armati, in strutture statiche e portanti astrattamente suscettibili di arrecare pericolo per l’incolumità delle persone. All’infuori di tale caso, la progettazione e direzione dell’opera è riservata alla competenza degli ingegneri e degli architetti. Nella specie, in effetti, l’effettivo calcolo e la direzione delle opere in cemento armato erano state eseguite da un ingegnere; tuttavia ciò non era avvenuto in base a delega del committente, bensì su richiesta del geometra stesso. La corte ha valutato negativamente questo modo di procedere, in ragione del fatto che trattavasi «di incombenze che devono essere inderogabilmente affidate dal committente al professionista abilitato secondo il proprio statuto professionale, sul quale gravano le relative responsabilità». Ha quindi ritenuto illegittime la progettazione e l’attività direzionale del geometra, condannandolo al risarcimento dei danni nei confronti del committente.
[26] Franzoni, L’illecito, in Tratt. della resp. civ. dir. da M. Franzoni, Milano, 2004, 239.
[27] Trib. Verona, 15.11.1989, in Giur. merito, 1991, 751.
[28] Sul punto: Ciocia, L’obbligazione naturale. Evoluzione normativa e prassi giurisprudenziale, Milano, 2000, 157.
[29] È il caso all’attenzione di Trib. Trento, 21.3.2002, in Giur. Merito, 2003, 141.
[30] Cass. pen, VI, 23.11.2000, in Cass. pen., 2001, 2344, ha ritenuto integrasse il delitto in questione la sottoscrizione di una procura a margine della comparsa di costituzione in un giudizio civile da parte di un praticante avvocato.
[31] Galgano, Le professioni intellettuali e il concetto comunitario di impresa, in Contr. impr., 1997, 20.
[32] Galgano, Le professioni intellettuali e il concetto comunitario di impresa, cit., 20.
[33] Cass. pen., sez. VI, 18.10.1990, in Riv. it. medicina legale, 1991, 264. Conf.: Cass. pen., sez. VI, 18.10.1988, in Giur. it., 1989, II, 316 ed in Cass. pen., 1989, 1983.
[34] Cass. pen., sez. II, 12.10.2000, in Cass. pen., 2001, 2346.
[35] Cass. pen., sez. V, 11.7.2001, in Resp. civ. e prev., 2002, 122, con nota di Feola.
[36] Cass. pen., sez. V, 1.6.1989, in Cass. pen., 1991, I, 743 ed in Riv. pen. Economia, 1990, 316.
[37] App. Trento, 18.12.1985, in Dir. lav., 1986, II, 124, dopo aver premesso che integra la fattispecie criminosa di esercizio abusivo di una professione o arte, punita dall’art. 348 c.p., l’ipotesi di chi, non essendo iscritto all’albo dei consulenti del lavoro, svolge, sia pure in misura limitata e marginale, attività di assistenza ai datori di lavoro negli adempimenti in materia di lavoro previdenza ed assistenza sociale dei lavoratori dipendenti (attività prevista espressamente dalla l. 11 gennaio 1979 n. 12, sull’ordinamento della professione di consulente del lavoro), ha affermato che «il consiglio provinciale dei consulenti del lavoro, ente esponenziale degli interessi della categoria dei singoli iscritti all’ordine, è legittimato a costituirsi parte civile per il risarcimento di danni morali connessi al reato di cui sopra».
[38] Cass. pen., sez. V, 1.6.1989, cit.