Federica Pasquariello, La responsabilità degli amministratori nel fallimento di società di capitali, in Impresa, 2002, 6, 1033
La responsabilità degli amministratori nel fallimento di società di capitali
1. La responsabilità per mala gestio
In caso di fallimento, la frequenza con la quale fattispecie di responsabilità di amministratori di società si presentano all’attenzione degli operatori del diritto, unita alla rilevanza, anche economica, del fenomeno, ripropone riflessioni sul tema.
In particolare, quanto al profilo della responsabilità per inosservanza del dovere di gestire diligentemente l’impresa (art. 2392 del codice civile), sorge l’interrogativo se la circostanza che la società versi in stato di insolvenza possa rappresentare una variabile suscettibile di incidere sulla valutazione del comportamento dell’amministratore. In altri termini, si tratta di verificare la “tenuta” dei principi generali sull’adempimento delle obbligazioni degli amministratori in caso di insolvenza della società.
Nell’esame di un tale profilo occorre evitare di sovrapporre concetti che devono essere tenuti su piani distinti. Ad un distinto ambito concettuale attiene il contenuto concreto e specifico dell’obbligo di gestire la società con la necessaria diligenza professionale, mentre altra è l’indagine sul criterio in base al quale interpretare e valutare l’azione degli amministratori.
Mentre tale ultimo parametro – in qualche modo “qualitativo”- deve restare il medesimo, in qualsiasi circostanza, compresa l’insolvenza della società, nel senso che non vi sono situazioni nelle quali è concesso giudicare con severità, piuttosto che con qualche indulgenza o lassismo, viceversa si può affermare che il fatto in sé che l’impresa Iscriviti alla nostra newsletter per avere accesso immediato Se sei già iscritto, inserisci nuovamente la tua email per accedere Del resto, viene comunemente affermato che, nel valutare in termini generali le obbligazioni di diligenza, occorre trovare un approccio funzionale (3): in questa ottica, è lecito sostenere che l’insolvenza alteri in qualche modo gli equilibri tra gli interessi in campo, dando preponderanza sui fini egoistici dell’impresa alla posizione dei terzi. In mancanza di chiari indirizzi nella legge, incombe sul giudice l’onere di farsi interprete di tale mutato assetto degli interessi coinvolti. Occorre considerare, inoltre, che la condotta dell’amministratore in campo gestionale non è – e non potrebbe essere – tipizzata dalla legge, sicché a fronte di una data situazione di fatto, ampia è la gamma delle scelte lecite che l’amministratore può compiere. Secondo l’insegnamento della più moderna dottrina, il criterio corretto per valutare le scelte gestionali compiute deve attingere a parametri di “ragionevolezza” dei comportamenti. Come realizzare tale verifica senza sconfinare in apprezzamenti nel merito è operazione complessa, che consiste nel verificare che nella fase prodromica all’adozione di una decisione – che resta discrezionale – l’amministratore abbia osservato un comportamento prudente e responsabile, assumendo adeguate informazioni, avvalendosi, se del caso, di esperti, considerando ogni possibile conseguenza del proprio operato e predisponendo idonee misure prudenziali (4). A livello interpretativo, il rischio sta nel sovrapporre i due diversi profili della diligenza ai quali sopra ci si riferiva e ragionare non solo nel senso di vedere modificato per effetto dell’intervenuta insolvenza il contenuto dei compiti degli amministratori, ma anche nel senso di “allentare” il rigore dei principi generali sulle obbligazioni di diligenza. In campo fallimentare accade che nell’applicazione della legge si associ alla condizione di insolvenza della impresa una diversa forma mentis, cioè un criterio di valutazione dell’operato degli organi sociali più punitivo. Il comportamento degli amministratori è genericamente presunto come non conforme ai canoni di prudenza e diligenza richiesti, talora prescindendo dalla individuazione di singoli addebiti, mentre spetta agli amministratori stessi l’onere di fornire la prova contraria. Se ora la giurisprudenza, nel solco dell’unanime dottrina (5), si è resa più accorta nella rilevazione del nesso causale fra mala gestio e danno, nondimeno la posizione tradizionale in tale ambito persevera in un giudizio di presuntività di mala gestio in caso di fallimento, giudizio elusivo di verifica non solo dell’effettiva sussistenza del nesso di causalità, ma addirittura della stessa condotta gestoria negligente (6). Di qui, poi, ad addossare all’amministratore l’intero deficit fallimentare, inteso come ammontare del danno da questi provocato, il passo è breve. Se i principi giuridici che devono governare la quantificazione del danno hanno valenza generale, nell’insolvenza delle società il meccanismo viene talora applicato in maniera distorta, operando la liquidazione del danno mediante differenza algebrica tra attivo e passivo fallimentare (7). Tale orientamento ha avuto un certo seguito in passato, ma è oggi in via di superamento per effetto del cospicuo contributo critico di gran parte della dottrina, che ha messo in luce come il criterio sia errato sia per eccesso che per difetto. Per eccesso, perché è altamente improbabile che l’intero passivo sia stato prodotto da illegittimi comportamenti degli amministratori, ma anche per difetto, considerata la possibilità che non tutti i creditori si siano insinuati al passivo e tenuto conto della svalutazione dei beni in sede di liquidazione fallimentare (8). Inoltre, l’insolvenza potrebbe dipendere dalle più svariate ragioni, quali crisi di liquidità, riflesso di altri fallimenti, congiunture di mercato, crisi di crescita, e numerose altre concause svincolate dall’operato degli amministratori. Per un verso o per l’altro, dunque, la liquidazione del danno fondata sulla differenza tra attivo e passivo fallimentari si rivela insoddisfacente, finendo per imputare agli amministratori responsabilità non loro proprie (9). L’esame della più recente giurisprudenza rivela la consapevolezza dell’imprecisione del descritto criterio e lo sforzo di adottare modalità di liquidazione più fedeli al principio di causalità (10). La liquidazione del danno per differenza tra attivo e passivo trova tuttora applicazione principalmente in due fattispecie, vale a dire quando sia possibile dimostrare che l’insolvenza stessa è dipesa dal comportamento degli amministratori (11), ovvero quando la contabilità è tenuta in modo sommario ed inintelleggibile. 2. Le irregolarità contabili Alla percezione da parte degli amministratori del fatto che l’impresa navighi in cattive acque si accompagna, talora, il tentativo di non rivelare la gravità della situazione, compiendo irregolarità contabili, che frequentemente emergono in sede fallimentare (12). Le irregolarità formali non assumono rilevanza univoca di per sé, in quanto potrebbero persino tradursi in una fonte di vantaggi per la società; ipotesi di danno si configurano nella misura in cui detti comportamenti si rivelino strumentali al compimento di ulteriori e diversi illeciti, a loro volta specifica fonte di danno per società, creditori e terzi (13). Ove, poi, le irregolarità siano tali e tante da impedire la ricostruzione della situazione patrimoniale della società o quando, addirittura, manchi una qualsiasi documentazione contabile, allora è ben difficile sostenere la autonoma irrilevanza di tali inadempimenti degli amministratori e la necessità di dimostrare ulteriori illeciti collegati. Infatti, la tenuta di una contabilità del tutto inintelleggibile non rappresenta una mera irregolarità formale, considerato che nelle imprese moderne tali adempimenti hanno funzioni nevralgiche (14). Si osserva inoltre che violazioni contabili non produttive di danno di per sé rileverebbero al fine di escludere l’ignoranza incolpevole o la buona fede degli amministratori rispetto alla situazione patrimoniale della società, con impossibilità di esonero da responsabilità, ad esempio, in caso di inadempimenti relativi alle riduzioni obbligatorie del capitale ex artt. 2446 e 2447 del codice civile (15). La irregolare tenuta della contabilità incide anche in altri ambiti: la società potrebbe lamentare la preclusione all’accesso all’amministrazione controllata ed al concordato preventivo per mancanza dei requisiti di legge (16). Come detto, in questi casi si presume che il danno risarcibile da parte degli amministratori sia rappresentato dallo “sbilancio fallimentare” (17), applicandosi, in sostanza, un’inversione dell’onere della prova che consente di imputare agli amministratori l’intero deficit fallimentare, mentre incombe sugli stessi la prova della non riferibilità di determinate voci di danno alla propria condotta. Il principio risponde ad intuitive esigenze equitative, ma, dal punto di vista dogmatico, restano le riserve sopra esposte a proposito del citato criterio di quantificazione del danno. 3. Omessa o ritardata istanza di fallimento La legge fallimentare si limita a prevedere una legittimazione del debitore a chiedere il proprio fallimento (art. 6 della legge fallimentare), sanzionando la mancata iniziativa per l’apertura della procedura nella misura in cui ricorrano gli estremi della bancarotta semplice per aggravamento del dissesto, ex art. 217, n. 4), della legge fallimentare. Alcune riflessioni si impongono per l’applicazione alle imprese societarie della disposizione di cui all’art. 6 della legge fallimentare, dettata con riferimento all’imprenditore individuale. Sorge il dubbio se anche in campo societario si possa affermare l’inesistenza di un obbligo giuridico di provocare il fallimento. Inoltre, è lecito domandarsi chi, in una società (di capitali) è legittimato all’istanza di fallimento e quali reciproche responsabilità nei rapporti endosocietari pone un eventuale comportamento omissivo. Si esaminerà per prima la questione se nelle società di capitale sia dato rinvenire un obbligo per gli amministratori di chiedere il fallimento. Mentre l’imprenditore individuale impersona l’impresa stessa e non risponde a terzi del proprio operato, viceversa gli amministratori di società di capitali sono in posizione di alterità rispetto ai soci ed alla società. Se è interesse dell’impresa che un’insolvenza ormai irreversibile sia risolta per via concorsuale e se il debitore deve mirare a non aggravare ulteriormente il dissesto, allora queste sono le istanze delle quali l’amministratore deve farsi interprete in caso di insolvenza della società. La “via concorsuale” per risolvere tale situazione può essere rappresentata da un concordato stragiudiziale (18) ovvero da una procedura minore, ove ne ricorrano i presupposti di legge o, infine, dal fallimento. Si può affermare, allora, che la richiesta di fallimento resta una facoltà/possibilità per il debitore, mentre è un potere/dovere per l’amministratore di società, dovere che ben può essere fatto rientrare nel generale dovere di diligenza nella gestione dell’altrui impresa (19). Questa soluzione appare in sintonia con le tendenze emergenti de iure condendo, secondo la moderna lettura delle procedure concorsuali non più in chiave meramente sanzionatoria, bensì alla luce dell’obiettivo di risanamento dell’impresa e del conseguimento di effetti liberatori del debitore. Sulla ripartizione della competenza tra amministratori ed assemblea sull’istanza di fallimento, la legge non prevede nulla. Tuttavia, non può mettersi in dubbio che la scelta sulla soluzione fallimentare rientri nella competenza dell’amministratore. Non è significativo che la decisione sulla proposta di concordato preventivo spetti all’assemblea straordinaria: infatti, non sembra consentito forzare l’elencazione tassativa circa le competenze dell’assemblea straordinaria di cui all’art. 2365 del codice civile. Inoltre, se l’opportunità e la possibilità di ottenere un concordato preventivo rientra nel campo delle scelte attinenti all’indirizzo straordinario dell’impresa, al contrario l’istanza di fallimento si presenta come atto di gestione dovuto ed obbligato in caso di grave ed irreversibile decozione della società (20). Il danno risarcibile dagli amministratori in caso di violazione del dovere di provocare il fallimento – o altra soluzione concorsuale – potrebbe corrispondere all’ammontare dell’eventuale aggravio del deficit, ove si dimostrasse che una tempestiva liquidazione avrebbe consentito un migliore soddisfacimento dei creditori. 4. Il compimento di nuove operazioni Nonostante il divieto della legge (art. 2449 del codice civile), il compimento da parte degli amministratori di nuove operazioni dopo il verificarsi di una causa di scioglimento della società è quanto mai ricorrente e presenta particolare interesse quando la causa di scioglimento è rappresentata dalla perdita del capitale sociale, perdita che può preludere all’insolvenza. Il divieto di compiere nuove operazioni scatta in un momento che ha valenza sostanziale e non formale, prescindendo da ogni attestazione, riconoscimento o pubblicità, così che la novità dell’operazione è ricostruibile anche a posteriori, al di là della precisa percezione che potessero averne non solo i terzi, ma anche gli stessi amministratori. È la responsabilità di questi ultimi che resta correlata alla consapevolezza o alla colposa ignoranza del verificarsi dell’evento che provoca lo scioglimento della società (21). Dichiarata l’insolvenza, di frequente è possibile individuare un preciso momento storico sensibilmente anteriore, nel quale si poteva considerare perduto il capitale sociale. La sorte degli amministratori dipende allora dall’esito delle operazioni poste in essere, sovente contando sui relativi proventi per risanare l’impresa e mantenendo in vita la società anche per anni: ove a posteriori il tentativo si riveli riuscito e vantaggioso, essi saranno considerati esperti, per quanto spregiudicati; se, viceversa, le condizioni patrimoniali dell’impresa ne escono ulteriormente aggravate e portano all’insolvenza, la responsabilità degli amministratori risulta gravissima. Infatti, per simile condotta [talora espressamente qualificata, mutuando una terminologia penalistica, “plurioffensiva” (22)] la giurisprudenza imputa agli amministratori una triplice responsabilità: la prima sul fronte interno, nei confronti della società stessa, per i danni da questa riportati a seguito del compimento di nuove operazioni, che si siano rivelate svantaggiose; la seconda, sul fronte esterno del risarcimento a favore dei creditori sociali aventi titolo anteriore al compimento di nuove operazioni, per il depauperamento del patrimonio sociale; la terza, come responsabilità patrimoniale diretta, personale ed illimitata verso il terzo, avente causa nella nuova operazione, in forza del disposto di cui all’art. 2449 del codice civile. I primi due casi di responsabilità vanno ricondotti alle fattispecie degli artt. 2393 e 2394 del codice civile e nel fallimento confluiscono nella legittimazione ad agire del curatore ex art. 146 della legge fallimentare; il terzo tipo di azione di responsabilità, invece, conserva nelle procedure concorsuali la propria autonomia e può essere direttamente esercitata dal terzo creditore nei confronti degli amministratori, in concomitanza delle altre azioni della curatela (23). È chiaro che può sussistere a carico della società (e dei suoi creditori) un danno patrimoniale nella misura in cui la nuova operazione possa considerarsi vincolante per la società. Invero, il tema della opponibilità alla società della nuova operazione illegittimamente compiuta dall’amministratore è alquanto complesso. La corrente giurisprudenziale maggioritaria ripete tralatiziamente che, trattandosi di tutelare la posizione del terzo contraente, tale tutela impone di aggiungere alla responsabilità personale degli amministratori – in molti casi, di scarsa utilità effettiva -, quella della società (che peraltro potrebbe avere un patrimonio capiente, se lo scioglimento dipende da cause diverse dalla perdita del capitale) (24). Le ragioni per le quali sia opportuno accordare questo tipo di protezione rafforzata al terzo contraente non sono indagate a fondo nella giurisprudenza stessa. Tra gli interpreti si è affermato che gli amministratori, nell’intraprendere nuove operazioni, non agiscono in proprio, ma pur sempre quali organi della società dotati di poteri di rappresentanza. Siccome tali poteri non sono venuti meno per effetto della liquidazione, le nuove operazioni sono senz’altro ed agevolmente imputate alla società (25). Talora, poi, si ricorre al sistema dell’opponibilità ai terzi dello scioglimento della società, sottoposto ad oneri di pubblicità dal novellato art. 2449, comma 4 e seguenti, del codice civile. La norma consente di individuare le condizioni alle quali il legittimo affidamento del terzo impegna la società “come se” la nuova operazione le appartenesse regolarmente. Diverso è poi il percorso attraverso cui si giustificano i termini di detta opponibilità: secondo alcuni il divieto di nuove operazioni rappresenta una limitazione legale ai poteri degli amministratori (ex art. 2384 del codice civile), sicché la società può fare valere tale limitazione nei confronti dei soli terzi che abbiano agito intenzionalmente in danno della società (26). Altri, invece, optano per la riconduzione del divieto di compiere nuove operazioni al precetto che proibisce attività ultra vires, nel presupposto che la liquidazione della società provochi un mutamento dell’oggetto sociale. Opererebbe così la previsione dell’art. 2384-bis del codice civile e l’estraneità dell’atto alla liquidazione sarebbe opponibile ai terzi in mala fede, ai quali era conosciuto o conoscibile l’intervenuto scioglimento della società, con conseguente esonero da responsabilità della società (27). Resta il problema dell’individuazione del ragionevole ammontare del danno risarcibile. La liquidazione dei danni cagionati dalle nuove operazioni è stata oggetto di un’elaborazione giurisprudenziale che presenta caratteri specifici rispetto al più generale tema dei risarcimenti dovuti dagli amministratori. In una prima fase, la pratica fallimentare non distingueva le diverse fattispecie di inadempimento dalle quali scaturiva la responsabilità e, anche in caso di compimento di nuove operazioni, tendeva a liquidare il danno nella differenza tra attivo e passivo fallimentare (28). Come si è visto sopra, il criterio è stato sottoposto a severa critica, ma secondo alcuni merita di essere comunque osservato nel caso in cui sia possibile dimostrare che fino alla causa di scioglimento il patrimonio della società era capiente e l’insolvenza è interamente dipesa dalle nuove operazioni poste a carico della società (29). Nell’ultimo decennio, recepite le critiche degli studiosi, la tendenza dominante è nel senso di utilizzare il criterio della differenza tra il passivo fallimentare ed il passivo alla data della causa di scioglimento della società, così che il danno venga rapportato a tutto il maggior passivo dipendente dalla ulteriore, illegittima gestione della società (30). Nelle applicazioni giurisprudenziali più accorte si tiene conto anche delle attività ricavate, rapportando il danno risarcibile alla differenza tra i patrimoni netti alla data dello scioglimento della società ed alla data dell’insolvenza – ovvero tra gli importi del passivo alle stesse date, detratto l’attivo ricavato (31). Il criterio rivela lo sforzo di portare la soluzione dei casi alla massima aderenza con la realtà, ma approssima ancora per eccesso l’importo del risarcimento: atti qualificabili come nuove operazioni potrebbero essere stati compiuti dagli amministratori nell’immediatezza della perdita del capitale – o del verificarsi comunque di una causa di scioglimento -, senza che questa fosse percepibile dagli stessi. In tal caso, non è possibile parlare di inadempimento, neppure colposo, ai doveri dell’amministratore e la responsabilità degli stessi non può sussistere, per quanto dannosa si sia rivelata la gestione successiva allo scioglimento della società. Né potrebbe ipotizzarsi una paralisi repentina dell’attività allo scoccare dell’ora dello scioglimento della società, con la conseguenza che gli atti imposti da esigenze di continuità dell’impresa non sono da considerare necessariamente illeciti, pur dando esito negativo (32). Inoltre, non tutte le operazioni poste in essere in epoca successiva all’evento dal quale dipende lo scioglimento sono di per sé “nuove”, occorrendo distinguere quelle estranee ai fini liquidatori da quelle ad essi strumentali, e facendo salvi gli atti legittimamente compiuti dagli amministratori (33). Quanto al creditore sociale, il danno ipotizzabile ex art. 2394 del codice civile in conseguenza della nuova operazione è dato dalla alterazione della garanzia patrimoniale, che impedisce il soddisfacimento del suo credito, nella misura in cui tale garanzia sussisteva al momento del sorgere del credito. L’ammontare del danno risarcibile è dato dal saldo dell’importo del credito stesso, se al momento del sorgere dell’obbligazione vi era la possibilità di una completa soddisfazione, ovvero nella minor somma che il creditore poteva verosimilmente ottenere, in considerazione della consistenza patrimoniale della società all’epoca del perfezionamento del negozio fonte dell’obbligazione (34). 5. L’azione esercitata dal curatore ex art. 146 della legge fallimentare Le disposizioni di legge che individuano nel curatore il soggetto che esercita l’azione di responsabilità (35) fanno uso di espressioni generiche e atecniche, alimentando così il dibattito intorno all’esatta ricostruzione della fattispecie. In particolare, ci si è chiesti se si debba intendere che al curatore sia da riconoscere una legittimazione nuova ed autonoma oppure se si tratti di successione o surrogazione nell’esercizio delle azioni di società e creditori. Nell’applicazione giurisprudenziale è ormai recepito l’insegnamento in base al quale l’art. 146 della legge fallimentare prevede un’azione “unitaria ed inscindibile, che cumula in sé i presupposti e gli scopi di entrambe le azioni”, ossia delle azioni di cui agli artt. 2393 e 2394 del codice civile (36). La formula è ormai da anni ripetuta e trascritta con tale frequenza da essere divenuta quasi assiomatica e da essere accolta con scarsa consapevolezza circa le proprie esatte implicazioni. Questa impostazione non va esente da critiche e pare contraddittoria nella parte in cui in linea di principio nega che l’istituto di cui all’art. 146 della legge fallimentare preveda una nuova azione, ma ne fa poi un ibrido – una specie di “centauro” secondo una felice espressione (37) – rispetto alle norme esistenti. La concreta regolamentazione di detta azione si realizza, infatti, con una tecnica di collage, che consiste nell’attingere a questo o a quell’elemento che regola o l’azione di cui all’art. 2393 del codice civile o quella di cui all’art. 2394 del codice civile, a tutto vantaggio della curatela attrice. Il vantaggio è rappresentato dalla possibilità di supplire alla mancanza di un elemento dell’una fattispecie usufruendo dei presupposti dell’altra, visto che si “cumulano i presupposti e gli scopi di entrambe le azioni”, in modo da giungere a consentire sempre (o, comunque, nella più ampia serie di ipotesi) l’esercizio dell’azione. Qualsiasi eccezione opponibile dall’amministratore per paralizzare l’una azione resta vanificata dal proponimento, assunto per contestuale ed inevitabile, anche dell’altra. In altri termini, la conseguenza è che mai l’azione del curatore è bloccata dalle eccezioni che il convenuto amministratore trarrebbe dal rapporto sottostante che lo lega alla società e ai creditori, perché l’effettività dell’azione intentata è comunque garantita dal secondo dei due titoli di responsabilità (quello non interessato dall’eccezione dell’amministratore). Per esemplificare, si consideri il caso della rinuncia o della transazione, che siano intervenute prima del fallimento tra società ed amministratori (o anche, sebbene l’ipotesi sia rara, tra creditori ed amministratori), nonché l’autorizzazione o la ratifica assembleare all’operato degli amministratori, che priverebbero la società delle relative azioni (38). Ogni negozio in tal senso, per quanto in linea di principio valido ed opponibile al fallimento, è dalla giurisprudenza vanificato, in quanto l’azione del curatore non ne resta paralizzata, nella misura in cui l’altra azione, quella non transatta o non rinunciata, sia esercitabile (39). Va considerato, altresì, il tema dell’eccezione di prescrizione: se l’azione della società si prescrive decorsi cinque anni dal prodursi del danno alla stessa cagionato dall’operato degli amministratori, salva la sospensione (che fa sì che il termine decorra praticamente sempre dalla cessazione dalla carica), per i creditori l’azione di risarcimento si prescrive da quando essi, dall’esterno, hanno percezione del verificarsi del presupposto della insufficienza del patrimonio della società (40). In giurisprudenza ci si preoccupa sovente di individuare con esattezza inizio e fine di un solo periodo di prescrizione, caratterizzante l’azione del curatore ex art. 146 della legge fallimentare. Nel fare ciò, si attinge al quadro di riferimento dato dalle separate discipline delle azioni ex artt. 2393 e 2394 del codice civile, sovrapponendo i diversi termini di prescrizione o, meglio, facendo riferimento all’uno o all’altro nella ricerca della soluzione più utile per la curatela. In genere la più vantaggiosa e rapida soluzione è quella di computare i cinque anni dalla data di dichiarazione del fallimento, assumendo in quel momento conosciuta da parte dei creditori l’insolvenza, e ritenendo assorbita da tale circostanza la (diversa) situazione soggettiva in cui versasse la società rispetto al verificarsi dell’evento dannoso a suo carico (41). L’impostazione è criticabile: nel riaffermare la necessità che l’azione di responsabilità esercitata dal curatore conservi nel fallimento presupposti e connotati delle richiamate azioni di cui agli artt. 2393 e 2394 del codice civile, nella specie, andranno rispettati i relativi termini di prescrizione, senza disperderne la reciproca individualità (42). Si intende stigmatizzare non tanto e di per sé l’invocazione promiscua degli elementi delle due fattispecie, quanto il rischio che, nell’applicazione concreta, si adottino soluzioni prive di coerenza sistematica, che insidiano la concettuale autonomia delle due azioni attraverso l’elaborazione di una nuova fattispecie di responsabilità non prevista dalla legge, costruita su misura per avvantaggiare la curatela attrice, consegnandole uno strumento particolarmente efficace, quale quello che esce dalla descritta ricostruzione dell’art. 146 della legge fallimentare. In realtà, è lecito nutrire dubbi sulla fondatezza del presunto favor della legge per l’azione ex art. 146 della legge fallimentare In effetti, il disposto delle norme che regolano la materia non sembra autorizzare tale valutazione di merito, in ordine alla preferenza accordata alle ragioni del curatore nel gioco delle forze in campo. La ratio dell’attribuzione al curatore della legittimazione ad esercitare l’azione di responsabilità è strettamente tecnica e non riflette alcuna scelta di carattere, per così dire, politico. L’art. 146 della legge fallimentare, infatti, non fa che rendere espliciti principi che in potenza si trovano già nel sistema della legge. Non sarebbe possibile che l’intervenuto fallimento non spiegasse alcun effetto sulle azioni di responsabilità verso gli amministratori. Quanto all’azione di responsabilità spettante alla società fallita, per effetto della previsione dell’art. 43 della legge fallimentare, il risvolto processuale dello spossessamento fa sì che anche il diritto ad agire in responsabilità verso gli amministratori della società, in quanto esistente nel patrimonio della fallita all’apertura della procedura, competa al curatore (43). Non si tratta che di un profilo del più ampio fenomeno della sostituzione del curatore nelle situazioni giuridiche soggettive del fallito, che si caratterizza per la natura esclusiva e non concorrente della legittimazione del sostituto, nonché per il carattere omnicomprensivo della sostituzione stessa (44). Quanto all’azione dei creditori ex art. 2394 del codice civile, la perdita della legittimazione in capo agli stessi non deriva dal disposto degli artt. 51 e seguenti della legge fallimentare, che paralizzano le aggressioni sul patrimonio del fallito da parte dei suoi creditori (45), in quanto l’azione è diretta contro un soggetto terzo rispetto al fallito. È piuttosto il carattere “di massa” dell’azione, che riflette i propri vantaggi verso l’intero ceto creditorio, a giustificare l’intervento del curatore con poteri di legittimazione esclusiva. In questi casi la sostituzione del curatore ai creditori si riallaccia alle esigenze della par condicio ed ai fini di un’unitaria esecuzione e liquidazione concorsuale (46). È dunque implicito nel sistema che, intervenuto il fallimento della società, le azioni di cui agli artt. 2393 e 2394 del codice civile spettino, seppur a diverso titolo, al curatore (mentre l’azione dell’art. 2395 del codice civile resta in capo all’originario titolare). Il curatore può, dunque, iniziare o proseguire tali e quali le azioni di responsabilità che trovano disciplina rispettivamente negli artt. 2393 e 2394 del codice civile. Ove ricorrano gli estremi di entrambe, si potrà affermare che le due azioni verranno esercitate in modo “unitario ed inscindibile”; laddove, viceversa, sussistano gli estremi solo dell’una o solo dell’altra, spetterà a chi agisce in giudizio dare il nomen iuris alla azione intentata, osservando la relativa disciplina e sopportando le conseguenze della mancanza dei presupposti corrispondenti. Il curatore dovrà dichiarare a che titolo intende fare valere la responsabilità degli amministratori, rispettando termini e condizioni della relativa azione, senza utilizzare promiscuamente elementi dell’una e dell’altra, ma osservando la regola per cui le due azioni, anche se esercitate nel fallimento, devono mantenere inalterate le proprie caratteristiche (47). 6. Considerazioni conclusive Il quadro della prassi applicativa, così come delineato, si caratterizza per il fatto di rivelare un atteggiamento particolarmente severo nei confronti degli amministratori di società, in qualche modo giustificato dalla diffusa convinzione che occorra creare un contrappeso al loro potere, svincolato dalla proprietà della ricchezza. Sarebbe proprio in caso di insolvenza della società che si realizza l’occasione più propizia per fare valere una simile contropartita. L’effetto è che, specie nelle realtà imprenditoriali di maggiore rilevanza, a fronte dei considerevoli rischi cui ci si trova personalmente esposti (tali da trasformare quasi una responsabilità per danni in una responsabilità patrimoniale per debiti), gli incarichi amministrativi tendono ad essere attribuiti a persone sprovvedute o incompetenti. D’altronde, il rigore dei principi è frustrato dalla circostanza che raramente il patrimonio degli amministratori è capiente e l’ammontare del ristoro per società e creditori finisce per limitarsi ai beni sequestrati in via cautelare exart. 146, comma 3, della legge fallimentare (48) o comunque, ad un importo minimo spesso definito in via transattiva. Resta la funzione di deterrente delle azioni di responsabilità, che peraltro vede anche tra i managers la diffusione della prassi della copertura assicurativa contro i rischi di responsabilità civile professionale (49). ———————– (1) Trib. Milano, 10 luglio 1997, in “Società”, 1997, pag. 1. (2) Trib. Reggio Emilia, 12 giugno 1996, in “Dir. fall.”, 1996, II, pag. 718; App. Milano, 14 gennaio 1992, in “Fall.”, 1992, pag. 1146. (3) Allegri, Contributo allo studio della responsabilità civile degli amministratori, Milano, 1979, pag. 131; Weigmann, Responsabilità e potere legittimo degli amministratori, Torino, 1974, pag. 122. (4) Le più recenti pronunce in tal senso sono Cass., 4 aprile 1998, n. 3483, in “Dir. fall.”,1999, II, pag. 252; Cass., 28 aprile 1997, n. 3652, in “Giur. it.”, 1998, pag. 287. (5) Si vedano Trib. Como, 16 giugno 2001, in “Giur. it.”, 2002, pag. 568; Trib. Padova, 22 agosto 1989, in “Foro pad.”, 1990, I, 47; Trib. Milano, 3 gennaio 1985, in “Società”, 1985, pag. 619; Trib. Milano, 24 novembre 1984, in “Società”, 1985, pag. 504; App. Milano, 9 ottobre 1984, in “Società”, 1985, pag. 177; Cass., 6 marzo 1970, n. 558, in “Dir. fall.”, 1971, II, pag. 814. (6) Alcune pronunce applicano dichiaratamente tale inversione dell’onere della prova: si veda Trib. Pisa, 9 aprile 1980, in “Giur. comm.”, 1982, II, pag. 406. (7) Assai ampia è la casistica sul punto: vd., tra gli altri, Trib. Milano, 14 novembre 1993, in “Fall.”, 1994, pag. 1051; Trib. Genova, 19 settembre 1988, in “Foro pad.”, 1989, 158; Trib. Torino, 11 febbraio 1989, in “Fall.”, 1989, pag. 668; Trib. Venezia, 5 novembre 1987, in “Fall.”, 1988, pag. 1202; Trib. Como, 25 agosto 1987, in “Società”, 1987, pag. 179; Trib. Roma, 10 febbraio 1987, in “Dir. fall.”, 1988, II, pag. 338. (8) Secondo un’opinione (Iorio, Perdita del capitale sociale, responsabilità degli amministratori e par condicio creditorum, in AA.VV., Il fallimento delle società nelle prospettive di riforma, Milano, 1986, pag. 118, ed in “Giur. comm.”, 1986, I, pag. 175), la svalutazione fallimentare delle attività, con conseguente lievitazione del disavanzo e dunque del danno risarcibile, sarebbe ulteriore conseguenza dannosa del comportamento illegittimo degli amministratori, che conseguentemente e giustamente va loro addossata. (9) Per opinioni sul punto si vedano AA.VV., Le procedure concorsuali. Il fallimento, a cura di Tedeschi, Torino, 1966, II, 1330; Bonsignori, Il fallimento delle società, in “Tratt. di dir. comm. e dir. pubbl. dell’econ.” diretto da Galgano, IX, Padova, 1986, pag. 262; Cassottana, La responsabilità degli amministratori, in Le procedure concorsuali. Il fallimento, in “Tratt.” diretto da Ragusa Maggiore e Costa, Torino, 1997, II, pag. 799; Franzoni, La responsabilità degli amministratori e dei sindaci, in “Tratt. di dir. comm. e dir. pubbl. dell’econ.” diretto da Galgano, XIX, Padova, 1994, pag. 100; Lo Cascio, Il fallimento e le altre procedure concorsuali, Milano, 1995, pag. 516; Nigro, Profili tributari e profili concorsuali, in “Tratt. delle soc. per azioni” diretto da Colombo e Portale, 9**, Torino, 1993, pag. 380; Panzani, Responsabilità degli amministratori: rapporto di causalità fra atti di mala gestio e danno. Lo stato della giurisprudenza, in “Fall.”, 1989, pag. 973; Patti, Quantificazione del danno nell’azione contro gli amministratori, in “Fall.”, 1996, pag. 220; Rordorf, Il risarcimento del danno nell’azione di responsabilità contro gli amministratori, in “Società”, 1993, pag. 618. (10) Per l’esigenza di rispettare scrupolosamente il principio di effettiva causalità, vd. Cass., 22 ottobre 1998, n. 10488, in “Giur. it.”, 1999, pag. 773 ed in “Foro it.”, 1999, I, 1967; Trib. Milano, 18 maggio 1995, in “Società”, 1995, pag. 1597. (11) È alquanto raro che si possa sostenere e provare che il comportamento degli amministratori sia stato causa determinante del fallimento: per alcuni precedenti, vd. Cass., 17 settembre 1997, n. 9252, in “Fall.”, 1998, pag. 666; App. Torino, 9 luglio 1975, in “Giur. comm.”, 1976, II, pag. 871; Trib. Roma, 13 maggio 1964, e Trib. Roma, 7 luglio 1964, in “Dir. fall.”, 1965, II, pag. 166. (12) L’intera materia dei reati societari è stata riformata dal D.Lgs. 11 aprile 2002, n. 61. Per un primo commento, si veda Salafia, Bilancio falso e bilancio irregolare, in “Società”, 2002, pag. 533. (13) Cfr. Bonelli, Gli amministratori di società per azioni, cit., pag. 185; Id., Violazioni in tema di bilancio e responsabilità degli amministratori, in “Giur. comm.”, 1975, I, pag. 316; Colombo, Il bilancio di esercizio nelle società per azioni, Padova, 1965, pag. 236; Sasso, Irregolarità di bilancio e responsabilità di amministratori e sindaci, Milano, 2000. (14) Vd. Cass. 19 dicembre 1985, n. 6493, in “Giur. comm.”, 1986, II, pag. 813 e Trib. Genova, 19 settembre 1988, in “Foro pad.”, 1989, I, 158. (15) Cfr. Bonelli, Violazioni in tema di bilancio, cit., pagg. 309 e 317. (16) L’art. 160 della legge fallimentare richiede per l’accesso alle citate procedure che l’imprenditore abbia tenuto una “regolare contabilità” nei due anni anteriori all’istanza di apertura. (17) Hanno applicato tale principio App. Bologna, 5 febbraio 1997, in “Foro it.”, 1997, I, 2284; Trib. Milano, 15 luglio 1991, in “Fall.”, 1991, pag. 1286; Trib. Genova, 19 settembre 1988, in “Foro pad.”, 1989, 158. (18) Sui concordati stragiudiziali, si veda per tutti Frascaroli Santi, Effetti della composizione stragiudiziale dell’insolvenza, Padova, 1995. (19) In senso contrario si vedano Corsi, La revocatoria ordinaria nel fallimento, Napoli, 1965, pag. 158; Tedeschi, Disposizioni generali della dichiarazione di fallimento, in “Comm. cod. civ.” a cura di Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1974, sub art. 6, pag. 228. (20) Per la competenza dell’assemblea a decidere dell’istanza di fallimento, vd. Minervini, Gli amministratori di società per azioni, Milano, 1956, pag. 306; Nigro, op. cit., pag. 200. (21) Nel caso di scioglimento dell’ente per perdita di capitale tale consapevolezza si può presumere per lo meno al momento della redazione del bilancio di esercizio: vd. Bonelli, Gli amministratori di società per azioni,cit., pag. 332, ove ampi riferimenti. (22) Hanno evidenziato la natura “plurioffensiva” della condotta di cui all’art. 2449 del codice civile, Cass., 20 giugno 2000, n. 8368, in “Fall.”, 2001, pag. 745 ed in “Società”, 2001, pag. 55; Trib. Napoli, 27 novembre 1993, in “Fall.”, 1994, pag. 861. (23) Si sono espressamente pronunciate nel senso della assenza di legittimazione ad agire del curatore nell’azione ex art. 2449 del codice civile le sentenze Trib. Napoli, 27 novembre 1993, cit.; App. Bologna, 23 ottobre 1993, in “Società”, 1994, pag. 337. (24) Sulla responsabilità solidale tra amministratori e società per le nuove operazioni, tra le pronunce di legittimità, il riferimento principale è dato da Cass., 22 novembre 1971, n. 3371, in “Giust. civ.”, 1972, I, pag. 18 e in “Riv. dir. civ.”, 1972, II, pag. 22, poi ripresa da Cass., 5 gennaio 1972, n. 21, in “Giust. civ.”, 1972, pag. 246; Cass., 29 aprile 1986, n. 2970, in “Società”, 1986, pag. 1005; Cass., 12 giugno 1997, n. 5275, in “Foro it.”, 1997, I, 2908, ed in “Società”, 1997, pag. 1394. (25) In tal senso cfr. Caselli, Vicende del rapporto di amministrazione, in “Tratt. delle soc. per azioni” diretto da Colombo-Portale, 4, Torino, 1994, pag. 95. (26) Seguono questo indirizzo Campobasso, Manuale di diritto commerciale, Torino, 2001, pag. 473; Graziani, Diritto delle società, Napoli, 1962, pag. 543. (27) Vd. Cavallo Borgia, Lo scioglimento e la liquidazione nella S.p.a., in “Tratt. di dir. priv.” diretto da Rescigno, 17, Torino, 1986, pag. 155; Cottino, Diritto commerciale, I, 2, Padova, 1994, pag. 667; Di Brina, La responsabilità per le nuove operazioni successive allo scioglimento della società per azioni, Milano, 1996, pag. 297. (28) Vd. Trib. Genova, 16 settembre 1992, in “Fall.”, 1993, pag. 227; Trib. Milano, 15 luglio 1991, in “Fall.”, 1991, pag. 1286; Trib. Torino, 14 maggio 1991, in “Fall.”, 1991, pag. 867; Cass., 30 luglio 1980, n. 4891, in “Giur. comm.”, 1980, I, pag. 2082. (29) Per un’applicazione di quella che parrebbe quasi ipotesi di scuola, vd. Trib. Genova, 20 gennaio 1992, in “Fall.”, 1992, pag. 538. Si attiene a tale principio anche Cass., 17 settembre 1997, n. 9252, in “Società”, 1998, pag. 1025. (30) Sono espressione di questo più moderno indirizzo Trib. Genova, 24 gennaio 2000, in “Fall.”, 2000, pag. 813; Trib. Catania, 8 maggio 1998, in “Giur. it.”, 1998, pag. 2347; Trib. Milano, 18 gennaio 1990, in “Fall.”, 1990, pag. 560; Cass., 4 aprile 1977, n. 1281, in “Giur. comm.”, 1977, II, pag. 449. (31) Su questo criterio si vedano Trib. Milano, 7 giugno 2001, in “Fall.”, 2001, pag. 1185; Trib. Genova, 24 novembre 1997, in “Fall.”, 1998, pag. 843. (32) In giurisprudenza un isolato precedente è dato da Cass., 26 luglio 1966, n. 2076, in “Dir. fall.”, 1967, II, pag. 86. (33) Si sono attenuti ad un accertamento causale rigoroso Cass., 22 ottobre 1998, n. 10488, in “Dir. fall.”, 1999, II, pag. 1001; Trib. Padova, 16 luglio 2000, in “Fall.”, 2000, pag. 895; Trib. Torino 24 dicembre 1994, in “Dir. fall.”, 1995, II, pag. 857; Trib. Milano, 22 settembre 1988, in “Dir. fall.”, 1989, II, pag. 449. (34) Cfr. Iorio, op. cit., pag. 27. (35) Il riferimento è all’art. 2394, comma 3, del codice civile (“in caso di fallimento o di liquidazione coatta amministrativa della società, l’azione spetta al curatore del fallimento o al commissario liquidatore”) ed all’art. 146, comma 2 della legge fallimentare (“l’azione di responsabilità contro gli amministratori …, a norma degli articoli 2393 e 2394 del codice civile, è esercitata dal curatore, previa autorizzazione del giudice delegato, su parere del comitato dei creditori”). (36) Si veda la fondamentale pronuncia Cass., 21 marzo 1974, n. 790, cit. L’orientamento si è poi consolidato: da ultimo, vd. Cass., 24 marzo 1999, n. 2772, in “Dir. fall.”, 2000, II, pag. 569. (37) Jaeger, La responsabilità degli amministratori e dei sindaci nelle procedure concorsuali: una valutazione critica, in “Fall.”, 1989, pag. 969. (38) Il tema in esame presenta una certa connessione con quello della presunta posizione di “terzietà” del curatore rispetto al fallito ed i creditori: sostenendo tale terzietà, si arriva a rendere irrilevanti per il curatore gli atti di disposizione di diritti – dunque, anche le rinunce e transazioni – già compiuti da fallito e creditori: vd. Cass., 21 marzo 1974, n. 790, cit. Tuttavia, se sussistono fattispecie nelle quali è dato attribuire alla curatela il ruolo di depositario di generali interessi, quando al contrario, come nel caso di esercizio della azione sociale di responsabilità, il curatore esercita in giudizio diritti che trova già nel patrimonio del fallito, egli subentra a questo come avente causa e la detta terzietà, argomentata dal presunto risvolto pubblicistico delle funzioni esercitate, viene a mancare. Sulla distinzione delle funzioni del curatore, vd. Maffei Alberti, in “Comm. alla legge fallimentare“, Padova, 2000, sub art. 28. (39) Nel senso del testo si veda Trib. Milano, 21 aprile 1975, in “Giur. comm.”, 1976, II, pag. 712. (40) Va sottolineato che con le locuzioni “stato di insolvenza” e “insufficienza patrimoniale”, (che la legge indica come presupposto della azione di responsabilità ex 2394 del codice civile) si fa riferimento a categorie giuridicamente ed economicamente distinte, sicché la conoscibilità, secondo criteri di diligenza media, della insufficienza patrimoniale, non coincide con il palesarsi dello stato di insolvenza. (41) Ha così deciso, nell’ottica della reductio ad unum dei termini per le azioni di responsabilità Cass. 28 maggio 1998, n. 5287, in “Mass.”, 1998; Cass., 7 novembre 1997, n. 10937, in “Fall.”, 1998, pag. 697; Cass., 15 maggio 1991, n. 5445, in “Fall.”, 1991, pag. 1141. (42) Quanto alla prescrizione, ha applicato tale criterio Trib. Milano, 14 novembre 1993, in “Fall.”, 1994, pag. 1051; Trib. Torino, 23 novembre 1990, in “Fall.”, 1991, pag. 631. (43) La Suprema Corte ha avuto modo di affermare la proseguibilità dell’azione sociale di responsabilità già deliberata da parte della società fallita e poi tornata in bonis: Cass., 28 luglio 2000, n. 9904, in “Giur. comm.”, 2001, II, pag. 221. (44) Il riferimento normativo sulla sostituzione processuale è dato dall’art. 81 del codice di procedura civile. (45) Sull’art. 51 della legge fallimentare vd. per tutti Gualandi, Gli effetti per i creditori, in “Diritto fallimentare”, cit., pag. 135. (46) La natura di azione di massa relativamente all’azione di responsabilità verso gli amministratori nel fallimento è affermata in giurisprudenza fin dalla remota pronuncia Cass., 22 marzo 1947, n. 417, in “Dir. fall.”, 1947, II, pag. 109. (47) In dottrina la posizione è condivisa da Bonelli, La responsabilità degli amministratori di S.p.a., cit., pag. 213; Id., Gli amministratori di società per azioni, in “Tratt. di dir. priv.” diretto da Rescigno, cit., pag. 530. (48) Ai sensi dell’art. 40 del disegno di legge per la modifica della Legge fallimentare approvato dal Consiglio dei Ministri in data 1° marzo 2002 (in “Impresa c.i.” n.3/2002, pag. 475), il comma 3 dell’attuale art. 146 dellalegge fallimentare, recante le misure cautelari speciali a carico dell’amministratore, andrebbe abrogato. Al proposito, nella Relazione di accompagnamento si legge che le ragioni della abrogazione si ritrovano “nel più pieno rispetto del principio di terzietà del giudice, espressamente sancito dal nuovo art. 111 della Costituzione” Per un commento, vd. Panzani, La miniriforma della legge fallimentare, in “Fall.”, 2002, pag. 469. In effetti, si è formata una certa giurisprudenza costituzionale intorno al problema della terzietà del giudice delegato, in veste di giudice cautelare del sequestro ex art. 146 della legge fallimentare, a seguito della L. 23 novembre 1999, n. 2 di riforma dell’art. 111 della Costituzione nel segno del “giusto processo”. Per contributi sul tema si vedano le relazioni tenute al Convegno di studi “Fallimento e giusto processo” (Alba, novembre 2001), in “Fall.”, 2002, pag. 237. (49) Le polizze assicurative in questione sono stipulate talora dallo stesso amministratore, talaltra dalla società per conto del terzo, a titolo di benefit: vd. Bruno, Sul rischio assicurabile dagli amministratori di società per azioni, in Quaderni CERADI, Ricerche, 23, nonché Franzoni, intervento al convegno di studi Le responsabilità nel fallimento societario, Bologna, 27-28 ottobre 2000, in corso di pubblicazione.Contenuto Riservato!
Alla stregua del criterio indicato, è stato considerato fonte di responsabilità “il discostarsi ingiustificatamente dalle istruzioni ricevute” (Trib. Milano, 28 dicembre 1989, in “Società”, 1990, pag. 638), compiere “operazioni speculative ad alto rischio” (App. Milano, 28 marzo 1980, in “Giur. it.”, 1982, I, 2, pag. 219; Trib. Milano, 28 marzo 1985, in “Fall.”, 1985, pag. 1287, in “Foro it.”, 1986, I, 256, ed in “Società”, 1985, pag. 1083),”la concessione di finanziamenti senza un’apparente giustificazione” (Trib. Milano, 22 dicembre 1983, in “Società”, 1984, pag. 883), fare “operazioni di pura sorte prive di qualunque garanzia” (Trib. Milano, 30 maggio 1977, in “Giur. it.”, 1978, I, 2, pag. 81), “la vendita senza una valida giustificazione del maggior cespite della società” (Cass., 12 novembre 1965, n. 2359, in “Giur. it.”, 1966, I, 1, pag. 401 ed in “Foro it.”, 1965, I, 1820), porre in essere una “azione palesemente irrazionale e contraria agli elementari principi di regolare amministrazione” (App. Genova, 5 luglio 1986, in “Giur. comm.”, 1988, II, pag. 730; Trib. Milano, 9 giugno 1977, in “Giur. comm.”, 1977, II, pag. 660), il fatto che “l’azione e le scelte non sono state sorrette da quel riconoscibile coefficiente di diligenza e ragionevolezza che deve connotare la figura giuridica stessa dell’imprenditore” (Trib. Milano, 26 giugno 1989, in “Società”, 1989, pag. 1179 ed in “Giur. comm.”, 1990, II, pag. 122).
In dottrina, AA.VV., Amministrazione e amministratori di società per azioni, a cura di Libonati, Milano, 1995; Cassottana, La responsabilità degli amministratori nel fallimento di S.p.a., Milano, 1984, pag. 90; Quatraro, La responsabilità degli amministratori e dei sindaci nelle procedure concorsuali, in AA.VV., Il fallimento delle società nelle prospettive di riforma, Milano, 1986, pag. 81.
In mancanza di altre prove specifiche, si suggerisce di affidarsi all’equità del giudice: Weigmann, op. cit., pag. 206. In giurisprudenza, Trib. Milano, 8 febbraio 1999, in “Guida al dir.”, 1999, n. 8, pag. 84.
In dottrina, la posizione è sostenuta da Guglielmucci, Danno per responsabilità di amministratori e sindaci, in “Fall.”, 1996, pag. 1067.
La casistica giurisprudenziale comprende condanne a carico degli amministratori per il risarcimento dei danni rappresentati da sanzioni civili o fiscali inflitte alla società (Trib. Milano, 3 giugno 1988, in “Giur. comm.”, 1989, II, pag. 945; Trib. Roma, 19 novembre 1984, in “Società”, 1985, pag. 1175; Trib. Milano, 20 settembre 1976, in “Dir. fall.”, 1977, II, pag. 134 ed in “Giur. comm.”, 78, II, pag. 288). Il danno può altresì essere rappresentato dalla maggiore tassazione per sopravvalutazione dell’attivo (Cass., 6 marzo 1970, n. 558, in “Foro it.”, 1970, I, 1728, in “Dir. fall.”, 1970, I, pag. 814 ed in “Giust. civ.”, 1971, I, pag. 933) o derivare dalla creazione di “fondi neri” (Cass., 22 giugno 1990, n. 6278, in “Foro it.”, 1992, I, 1892, in “Giur. it.”, 1991, I, pag. 182 ed in “Giust. civ.”, 1990, I, pag. 2265; App. Brescia, 25 giugno 1987, in “Foro it.”, 1988, I, 2474), o dalla distrazione di beni della società (Trib. Milano, 18 maggio 1995, in “Società”, 1995, pag. 1597; Cass., 9 luglio 1979, n. 3925, in “Dir. fall.”, 1979, II, pag. 453).
Una minoritaria corrente giurisprudenziale ravvisa nella irregolare tenuta della contabilità una fonte autonoma di responsabilità civile: il leading case è rappresentato da Cass., 21 marzo 1974, n. 790, in “Foro it.”, 1975, I, 429, in “Giust. civ.”, 1974, I, pag. 847, in “Dir. fall.”, 1975, II, pag. 34, ed in “Giur. comm.”, 1974, II, pag. 509; si veda altresì Cass. 19 novembre 1976, n. 4338, in “Mass.”, 1976.
In dottrina in senso conforme si vedano Del Vecchio, La responsabilità degli amministratori a norma dell’art. 146 comma 2 della legge fallimentare, in “Giur. merito”, 1990, pag. 505; Proto, Responsabilità e danno nell’azione del curatore contro amministratori e sindaci, in “Fall.”, 1998, pag. 1067.
Il Tribunale di Milano si distingue per la particolare sensibilità al problema dell’accertamento causale della condotta, rifuggendo, anche nel caso limite dell’assenza di contabilità, dal ricorso a criteri presuntivi: cfr. App. Milano, 9 ottobre 1984, in “Società”, 1985, pag. 177.
Favorevole a quanto qui sostenuto l’unica pronuncia della Suprema Corte sul punto: Cass., 5 aprile 1971, n. 970, in “Dir. fall.”, 1972, II, pag. 73. In dottrina, accolgono la tesi qui esposta Bonelli, Gli amministratori di società per azioni, cit., pag. 301; Pajardi, Manuale di diritto fallimentare, Milano, 1993, pag. 110.
Nel senso proposto nel testo, invece, Bonsignori, Il fallimento delle società, cit., pag. 244; Ferrara-Borgioli, Il fallimento, Milano, 1995, pag. 239; Ricci, Lezioni sul fallimento, Milano, 1998, pag. 168.
Rare le pronunce giurisprudenziali, in materia, e tutte conformi a quanto qui sostenuto: vd. Trib. Alba, 8 settembre 1994, in “Fall.”, 1995, pag. 96. Il dibattito sulla competenza a richiedere il fallimento è aperto anche per quanto riguarda le società di persone: si veda Costi, Il fallimento delle società, in “Giur. comm.”, 1976, I, pag. 446.
Sull’art. 146 della legge fallimentare vd. Bertacchini, Il fallimento delle società, in AA.VV., Diritto fallimentare coordinato da Maffei Alberti, Bologna, 2002, pag. 387.
È innegabile che vi possa essere una sfasatura tra i momenti concettualmente diversi dell’ insufficienza patrimoniale e dell’ insolvenza. Possono sussistere margini per retrodatare rispetto alla dichiarazione di fallimento il momento in cui l’insufficienza patrimoniale si è rivelata ai creditori (con conseguente decorso della prescrizione della azione dell’art. 2394 del codice civile), così come è possibile che, a fallimento dichiarato, non sussistano ancora i presupposti di legge per l’esercizio di tale azione.
Per la tendenza a fare coincidere, empiricamente, il decorso della prescrizione con la dichiarazione di fallimento, vd. altresì Paola, In tema di prescrizione dell’azione di responsabilità contro gli amministratori di una società di capitali fallita, in “Fall.”, 1979, II, pag. 648.
In caso di responsabilità penale, il termine di cinque anni per l’azione civile va assoggettato al più ampio termine di prescrizione del reato (art. 2947, comma 3, del codice civile).
Un simile fenomeno di sostituzione ha luogo anche nella liquidazione coatta amministrativa: il commissario liquidatore ha facoltà di “assumere la posizione dell’ente in liquidazione utendo suo jure“, Bavetta, Liquidazione coatta amministrativa, Milano, 1974, pag. 496.
Per ulteriori riferimenti sulla legittimazione sostitutiva del curatore, vd. Buonocore, voce Il fallimento delle società, in “Enc. giur. Treccani”, III, Roma, 1989.
La tesi è anche stata contestata da chi, sottolineando le distorsioni che la azione di responsabilità subisce nel fallimento, ne deduce la sua alterità rispetto alle azioni di cui al codice civile: cfr. Bonsignori, Il fallimento delle società. Aspetti processuali, cit., pag. 252.