Enrico Al Mureden, Il parametro del tenore di vita coniugale nel “diritto vivente” in materia di assegno divorzile tra persistente validità, dubbi di legittimità costituzionale ed esigenze di revisione in Famiglia e Diritto, 2014, 7, 687
Il Tribunale di Firenze ha rimesso alla Corte costituzionale la questione relativa all’incostituzionalità del “diritto vivente” formatosi in materia di assegno divorzile soprattutto con riferimento al “dogma del ” come criterio per decidere riguardo all’attribuzione ed alla misura del mantenimento richiesto dalla parte economicamente debole, assumendo che esso risulterebbe anacronistico in quanto riferito “ad una gerarchia di valori non più adeguati alla contemporanea legalità costituzionale”. Le argomentazioni addotte, pur risultando solo in parte condivisibili, meritano attenta considerazione, soprattutto laddove inducono ad una riflessione sull’opportunità di valorizzare il principio della autoresponsabilità del richiedente e sulla necessità di limitare la tutela offerta al coniuge economicamente debole al termine di matrimoni di breve durata e nei quali non si riscontrino esigenze di cura di figli non autosufficienti.
Il parametro del tenore di vita coniugale nel “diritto vivente” in materia di assegno divorzile tra persistente validità, dubbi di legittimità costituzionale ed esigenze di revisione in Famiglia e Diritto
Sommario: 1. La questione di legittimità costituzionale posta dal giudice remittente – 2. L’assegno divorzile nel “diritto vivente”. La natura assistenziale ed il riferimento al tenore di vita coniugale – 3. L’assegno post-matrimoniale come unico strumento di attuazione del principio di parità tra i coniugi al momento della dissoluzione del matrimonio – 4. Il riferimento al tenore di vita coniugale ed i suoi profili critici: la prospettiva delle famiglie che si sovrappongono nel tempo – 5. Il riferimento al tenore di vita coniugale tra mutamenti sociali, modificazioni del contesto normativo e prospettive di “revisione” – 6. Le differenti forme di attuazione della funzione assistenziale come riflesso delle differenti esigenze di tutela del coniuge debole. Dalla funzione assistenziale alle “funzioni assitenziali”? – 7. Il parametro del tenore di vita coniugale tra persistente attualità ed esigenze di coordinamento con il principio dell’autoresponsabilità
1. La questione di legittimità costituzionale posta dal giudice remittente
Un’ordinanza del Tribunale di Firenze ha posto in dubbio la conformità al principio costituzionale di ragionevolezza (art. 3 Cost.)(1) del consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale le decisioni relative alla spettanza ed all’entità dell’assegno divorzile dovrebbero essere assunte in funzione dell’obiettivo di garantire al coniuge economicamente debole la persistenza di un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio.
Più specificamente, la questione di costituzionalità riguarda la regola di “diritto vivente” formatasi con riferimento all’art. 5 l. n. 898/1970. Tale regola si caratterizza, a parere del giudice remittente, per “una palese contraddizione” logica oltre che giuridica – che appare irragionevole, secondo i canoni della giurisprudenza costituzionale – fra l’istituto del divorzio, che ha come scopo proprio quello della cessazione del matrimonio, ed una disciplina delle conseguenze economiche “che di fatto proietta oltre l’orizzonte matrimoniale il in costanza di matrimonio quale elemento attributivo e quantificativo dell’assegno”. In questo modo, continua il Tribunale di Firenze, vengono prolungati “all’infinito i vincoli economici derivanti da un fatto (il matrimonio) che non esiste più proprio a seguito del divorzio”; e ciò “senza che vi sia necessariamente una giustificazione adeguata sotto il profilo della tutela di interessi e diritti costituzionali o garantiti dalla Costituzione”. Proprio in questa prospettiva, quindi, il diritto vivente formatosi con riferimento ai presupposti di attribuzione dell’assegno divorzile appare irragionevole in quanto “conduce ad esiti palesemente irrazionali” ed “incompatibili con la stessa ratio legis” della disciplina delle conseguenze economiche del divorzio.
L’interpretazione dell’art. 5, comma 6 della legge n. 898/1970 prevalsa nel diritto vivente – attribuendo al coniuge economicamente debole la garanzia di mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio – travalicherebbe, ad avviso del giudice remittente, la funzione assistenziale che dovrebbe essere propria dell’assegno divorzile.
In definitiva, prosegue l’ordinanza, individuare il presupposto dell’assegno post-coniugale nello sbilanciamento delle situazioni patrimoniali degli ex coniugi e poi quantificarlo nella cifra congrua a “mantenere il tenore di vita coniugale”, non costituirebbe “un della funzione assistenziale indicata dalla legge, ma una sua alterazione, che travalica il dato normativo e la stessa intenzione del legislatore”.
Ulteriori profili di contrasto con il principio di ragionevolezza vengono individuati anche laddove si sottolinea che “a differenza del dovere di mantenimento verso i figli, che cessa al raggiungimento della loro autosufficienza economica, l’obbligo di mantenimento del coniuge divorziato, nella lettura giurisprudenziale di cui qui si tratta, non viene meno neppure in caso di raggiunta autosufficienza del coniuge”.
In ultima analisi, l’esigenza di garantire che successivamente alla cessazione del matrimonio sia adeguatamente garantita la posizione economica del coniuge, pur trovando il suo fondamento costituzionale nell’art. 2 Cost., sembra attuata secondo il diritto vivente formatosi con riferimento all’art. 5, comma 6, l. div., attraverso uno “strumento eccessivo rispetto a quanto necessario” a realizzare un equilibrato contemperamento dei contrapposti interessi in gioco.
I profili di irragionevolezza insiti nell’attuale diritto vivente vengono ulteriormente testimoniati anche nella prospettiva del raffronto con i principi emergenti in altri Paesi dell’Unione europea. La motivazione del provvedimento che si commenta, infatti, pone in luce che la Commissione europea sul diritto di famiglia ha stabilito il principio secondo il quale “dopo il divorzio ciascun coniuge provvede ai propri bisogni” (principio 2.2)(2). Da questo principio, continua la motivazione del Tribunale di Firenze, “deriva che dopo il matrimonio, gli unici legami a rimanere in vita sono quelli che riguardano i figli”; in ogni caso, qualora siano effettivamente mantenuti rapporti di tipo patrimoniale tra i coniugi, essi dovrebbero rivestire il carattere della temporaneità (principio 2.8).
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Da ultimo l’irragionevolezza dell’attuale diritto vivente in materia di assegno divorzile viene motivata sotto il profilo dei profondi mutamenti che hanno interessato l’istituto matrimoniale e che possono essere sintetizzati nella c.d. “privatizzazione della relazione di coppia”. Proprio sotto questo aspetto sembra ravvisarsi, ad opinione del giudice remittente, un contrasto tra la previsione di un vincolo matrimoniale che può essere dissolto per iniziativa unilaterale di uno dei coniugi ed una disciplina delle conseguenze economiche che garantisca a tempo indeterminato il persistente godimento del tenore di vita coniugale alla parte economicamente debole, in omaggio ad una “concezione del matrimonio che appare oggi anacronistica” e che non tiene conto del dato che vede la donna pienamente protagonista della “vita economica e sociale della famiglia”.
Il profilo del cosiddetto “anacronismo legislativo” sembra costituire – ad opinione del giudice remittente – un’ulteriore e fondamentale ragione che fa apparire necessaria “una revisione critica del dogma del tenore di vita”; dogma che, secondo l’ordinanza del Tribunale di Firenze, “ormai appartiene ad un’altra epoca, ad un’altra gerarchia di valori non più adeguati alla contemporanea legalità costituzionale”.
2. L’assegno divorzile nel “diritto vivente”. La natura assistenziale ed il riferimento al tenore di vita coniugale
Seguendo un orientamento delineato quasi venticinque anni or sono dalle Sezioni Unite(3), la giurisprudenza di legittimità ha costantemente confermato che l’assegno divorzile ha natura assistenziale e dovrebbe costituire per il coniuge economicamente debole un rimedio al deterioramento delle precedenti condizioni economiche in dipendenza del divorzio(4). Proprio all’attuazione di queste esigenze è funzionale l’idea di concepire un giudizio scomposto in una prima fase nella quale il giudice – dopo aver comparato la condizione economica del richiedente goduta nel momento precedente la cessazione della convivenza e quella determinatasi al momento della pronuncia di divorzio – individua quanto astrattamente necessario al fine di evitare a quest’ultimo un sensibile deterioramento del tenore di vita ed una seconda fase in cui il “tetto massimo” della misura dell’assegno determinato in astratto, viene poi sottoposto al vaglio degli altri criteri predisposti dall’art. 5, comma 6, l. div., al fine di quantificarne in concreto la misura(5). Nella fase di accertamento del diritto all’assegno divorzile, quindi, il giudice è chiamato a verificare l’esistenza del diritto in astratto, “in relazione all’inadeguatezza dei mezzi o all’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, o che poteva legittimamente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matrimonio, fissate al momento del divorzio”(6).
Le indicazioni su quale fosse il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio possono essere desunte “dalle potenzialità economiche dei coniugi, ossia dall’ammontare complessivo” dei loro redditi e delle loro disponibilità patrimoniali(7). La S.C. ha ulteriormente precisato, anche di recente, che occorre tenere distinto lo stile di vita dal tenore di vita. Infatti anche qualora la coppia disponga di rilevanti potenzialità economiche è possibile che venga deciso di comune accordo tra i coniugi un ménage familiare improntato ad uno stile di “understatement” o di rigore; tale scelta, ad avviso della Cassazione, non può privare di rilievo le potenzialità che scaturiscono da una condizione economica agiata, che comunque deve essere considerata allorché si tratti di decidere riguardo alla spettanza ed alla misura dell’assegno divorzile(8).
Pertanto l’adeguatezza dei redditi del coniuge che richiede l’assegno divorzile dovrà essere valutata in funzione del tenore di vita che le potenzialità economiche della coppia avrebbero consentito e non del più modesto tenore di vita effettivamente goduto durante il matrimonio(9).
Si è da più parti messo in luce che il modello di assegno post-matrimoniale delineato dal legislatore ed i cui lineamenti sono stati ulteriormente definiti dagli orientamenti consolidati della giurisprudenza di legittimità può risultare sotto diversi profili scarsamente funzionale a realizzare un’equilibrata ripartizione delle risorse della famiglia dopo la rottura del matrimonio.
Da un lato si è osservato che la scelta di porre in risalto la funzione assistenziale, valorizzando il profilo dell’incapacità del richiedente di procurarsi mezzi adeguati e relegando ad un ruolo marginale gli altri criteri, compromette l’idoneità dell’assegno post-matrimoniale ad attuare una effettiva compensazione del coniuge che ha dedicato un considerevole periodo di tempo alla cura della famiglia(10). Sotto questo profilo, quindi, arricchire la funzione assistenziale mediante il riferimento al tenore di vita coniugale inteso nel senso più ampio può apparire opportuno al fine di garantire al coniuge economicamente debole una tutela adeguata. Per altri aspetti, tuttavia, l’intera disciplina dei rapporti patrimoniali tra ex coniugi divorziati è stata vista come “un complesso normativo che evidenzia la dilatazione dell’ultrattività, sul piano dei rapporti patrimoniali, del matrimonio sciolto per divorzio”(11) e, nel complesso, appresta una tutela che con specifico riferimento ai matrimoni di breve durata può risultare ingiustificatamente estesa. In quest’ottica si è anche affermato che l’orientamento secondo cui l’adeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente andrebbe commisurata al tenore di vita matrimoniale appare difficilmente sostenibile “perché denunzia una ultrattività del matrimonio, ormai sciolto, in contrasto con qualsivoglia logica, vuoi perché snatura il dato normativo riformato, diretto a prestare aiuto all’ex coniuge bisognoso, non già a consentirgli lo stesso tenore di vita goduto durante la vita matrimoniale”(12).
Il riferimento al parametro del tenore di vita matrimoniale, quantomeno riguardo a queste fattispecie, non sarebbe funzionale a promuovere la pari dignità sociale dei coniugi e potrebbe costituire addirittura un ostacolo al raggiungimento dell’indipendenza economica da parte del coniuge debole; esso potrebbe costituire una “rendita post-coniugale, direttamente proporzionata al livello economico matrimoniale”, o, in altre parole, “una sorta di assicurazione, tendenzialmente vitalizia, al godimento di uno standard di vita economico esteso al tempo successivo al rapporto matrimoniale”(13).
Le esigenze appena illustrate, in effetti, sono emerse da tempo in altri ordinamenti europei nei quali la valorizzazione del principio dell’autoresponsabilità ha condotto a limitare significativamente l’assistenza fornita al coniuge economicamente debole al termine di matrimoni di breve durata, soprattutto qualora non siano presenti figli non autosufficienti(14).
In conclusione, la disciplina dell’assegno post-matrimoniale, così come attualmente interpretata nel “diritto vivente”, può apparire da una parte insoddisfacente in quanto l’affermazione della natura assistenziale sembra costituire un limite alla capacità di compensare il coniuge che ha dedicato molti anni della propria vita al matrimonio(15); d’altra parte il riferimento al tenore di vita coniugale può condurre al rischio di attribuire una tutela eccessiva a favore di chi, dopo un matrimonio relativamente breve, si trovi a beneficiare di una rendita tendenzialmente vitalizia. Indubbiamente sotto questo profilo riveste interesse l’idea, particolarmente sviluppata nei sistemi di common law, di concepire un trattamento nettamente differenziato delle conseguenze patrimoniali del divorzio valorizzando l’elemento della durata del matrimonio.
3. L’assegno post-matrimoniale come unico strumento di attuazione del principio di parità tra i coniugi al momento della dissoluzione del matrimonio
Alcune delle motivazioni poste alla base della questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Firenze destano perplessità. In particolare non sembra da condividere l’assunto secondo cui la c.d. “privatizzazione della relazione di coppia” e la previsione di un vincolo matrimoniale che può essere dissolto per iniziativa unilaterale di uno dei coniugi(16)risulta incompatibile con una disciplina delle conseguenze economiche che garantisca a tempo indeterminato il persistente godimento del tenore di vita coniugale alla parte economicamente debole, in omaggio ad una “concezione del matrimonio che appare oggi anacronistica” e che non tiene conto del dato che vede la donna pienamente protagonista della “vita economica e sociale della famiglia”.
In realtà l’osservazione comparatistica rivolta verso gli ordinamenti di common law testimonia che, al contrario, all’abdicazione da parte dello Stato del ruolo di gatekeeper of access to divorce abbia fatto da contrappeso l’assunzione di quello di guardian of the economic interest of divorcing spouses and their children(17); in altri termini, proprio l’indebolimento del vincolo matrimoniale ha posto in particolare evidenza l’esigenza di garantire che ciascuno dei coniugi lasci il matrimonio “on terms of financial equality”(18). Non a caso negli Stati Uniti e in Inghilterra l’introduzione dell’Equitable Distribution System – ossia della regola della divisione tendenzialmente paritaria delle risorse della famiglia al momento della rottura del matrimonio – ha coinciso con il passaggio dal divorzio basato sulla colpa al c.d. no fault divorce(19).
Anche l’assunto secondo il quale il riferimento al tenore di vita coniugale come criterio per decidere riguardo alla spettanza ed alla attribuzione dell’assegno divorzile appare inadeguato in quanto non tiene conto del dato che vede la donna pienamente protagonista della “vita economica e sociale della famiglia” appare, invero, contraddetto dagli studi statistici e sociologici. I dati statistici recenti(20), infatti, dimostrano che nelle società in cui la parità tra uomo e donna può dirsi raggiunta in una prospettiva individuale il problema della uguaglianza tra i coniugi è tuttora irrisolto(21).
Così, in particolare, la nascita dei figli incide negativamente sui tassi di occupazione delle madri e positivamente su quelli dei padri(22), si riscontra un chiaro rapporto di proporzionalità inversa tra il numero di figli e il tasso di occupazione femminile(23) ed anche la scelta di optare per un lavoro part-time risulta decisamente più accentuata per le madri(24). L’accesso delle donne al mondo del lavoro, quindi, non determina il superamento delle asimmetrie all’interno della coppia, né pone in secondo piano le esigenze di tutela del coniuge debole; al contrario, il problema di conciliare le esigenze di lavoro con quelle della cura della famiglia(25) diviene un tema tanto più importante e sentito quanto maggiore è la partecipazione femminile al mondo del lavoro e la diffusione delle c.d. “dual-income couples”. Dunque, in altre parole, si può ribadire che proprio nei Paesi in cui è più risalente e sviluppata la presenza delle donne nel mondo del lavoro, il tema della gender justice ha cominciato a porsi con specifico riguardo al problema della allocazione dei costi connessi alla cura della famiglia.
Queste osservazioni inducono a sottolineare la fondamentale importanza assunta dagli strumenti di riequilibrio delle posizioni economiche dei coniugi al momento della rottura del matrimonio e, per quanto concerne il nostro ordinamento, dell’assegno divorzile (e dell’assegno di mantenimento). In quest’ottica occorre rimarcare che il nostro ordinamento da un lato enuncia il principio della eguaglianza tra i coniugi (art. 29 Cost.)(26), e, al tempo stesso, lascia “la stabilità della famiglia (…) nelle mani” di questi ultimi non ponendo regole per garantirla contro la loro volontà(27); appare fondamentale, pertanto, assicurare un’equa divisione delle risorse proprio al momento della rottura del matrimonio ed evitare che, in una fase della vita della familiare caratterizzata da una accentuata dispersione delle risorse patrimoniali e umane, le conseguenze negative derivanti da una divisione del lavoro concordemente adottata ricadano sul coniuge più debole, il quale, nella maggior parte dei casi si è prevalentemente dedicato all’attività casalinga(28).
Le basi più solide sulle quali fondare l’assunto secondo cui il principio di parità deve essere necessariamente garantito anche al momento della rottura del matrimonio risiedono nelle norme che mirano a garantirne l’attuazione nella fase fisiologica del rapporto. Dall’analisi di queste disposizioni emerge l’idea per cui il legislatore – consapevole del fatto che la divisione del lavoro nella famiglia si caratterizza per una ripartizione tendenzialmente asimmetrica e per una persistente distinzione dei ruoli – detta regole attuative del principio costituzionale della parità (art. 29 Cost.). Ciò traspare in modo evidente laddove – sancendo inderogabilmente il principio della equiparazione tra lavoro casalingo ed extradomestico – si stabilisce che “con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri”, “sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia” (art. 143 c.c.) e devono adempiere l’obbligo di mantenere i figli (artt. 147 e 315 bis c.c.) “in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo” (artt. 148 e 316 bis c.c.).
Considerazioni analoghe hanno accompagnato anche l’introduzione del regime legale della comunione, in cui la logica perequativa sottesa all’istituto viene presentata come un contrappeso rispetto ad una situazione di “evidente ingiustizia nei confronti della donna; il cui lavoro domestico si sostanzia in una dura, se pur non appariscente fatica”(29).
Poiché la possibilità di optare per il diverso regime della separazione dei beni non compromette l’attuazione inderogabile del principio di parità, che viene assolta dal regime primario contributivo(30), si può dire che nella fase fisiologica del rapporto matrimoniale la divisione asimmetrica del lavoro all’interno della famiglia trovi un adeguato contrappeso. Proprio muovendo da questa constatazione, si deve affermare che anche nel momento in cui il matrimonio si rompe il principio della parità tra coniugi deve trovare applicazione e governare la divisione delle ricchezze. In altre parole è necessario che anche – e soprattutto – le norme che disciplinano gli effetti patrimoniali della crisi coniugale e dello scioglimento del matrimonio costituiscano un efficace contrappeso rispetto alle conseguenze negative che si ricollegano ad una divisione asimmetrica del lavoro domestico nella famiglia e che proprio nel momento della rottura del matrimonio possono manifestarsi in tutta la loro gravità. Se così non fosse l’attuazione del principio costituzionale dell’eguaglianza tra i coniugi risulterebbe gravemente compromessa e si darebbe vita ad una situazione quasi paradossale in quanto gli strumenti che dovrebbero controbilanciare una divisione asimmetrica dei pesi della famiglia assisterebbero il coniuge debole in un momento (la fase fisiologica) nel quale normalmente la comunione di vita rende l’esigenza di tutela superflua, per poi abbandonarlo proprio quando gli effetti negativi connessi alla prolungata dedizione alla cura della famiglia si possono manifestare – e generalmente si manifestano – con maggiore asprezza.
L’insieme di queste considerazioni induce a sottolineare che l’assegno divorzile (e l’assegno di mantenimento) debbano essere visti come un vero e proprio architrave sul quale si deve reggere un sistema che miri a realizzare quella equa condivisione delle risorse della famiglia funzionale all’attuazione del principio della parità tra coniugi. Dunque proprio la rilettura delle norme in tema di assegno di mantenimento e assegno di divorzio alla luce del principio costituzionale della parità tra i coniugi (art. 29 Cost.) e dell’esigenza di garantire adeguata tutela al singolo che abbia investito le proprie energie e sacrificato le proprie aspirazioni professionali per la cura della famiglia (art. 2 Cost.)(31) dovrebbe costituire una prospettiva ineludibile in funzione della quale ricostruire un’efficace tutela della parte debole(32).
Le osservazioni appena svolte inducono a confermare – quantomeno con riferimento ai matrimoni di lunga durata ed a quelli nei quali siano presenti figli non autosufficienti – la persistente ragionevolezza dell’orientamento formatosi nel diritto vivente secondo cui l’adeguatezza dei mezzi del coniuge che richiede l’assegno divorzile deve essere commisurata al tenore di vita che le potenzialità economiche della famiglia hanno consentito di godere in costanza di matrimonio ed avrebbero consentito di continuare a godere nel caso in cui questo fosse proseguito.
Occorre considerare, d’altra parte, anche una diversa prospettiva che impone di rivisitare criticamente il riferimento al tenore di vita coniugale costantemente operato dalla giurisprudenza e che assume una significativa rilevanza sopratutto con riferimento ai matrimoni di breve durata nei quali non siano presenti figli.
4. Il riferimento al tenore di vita coniugale ed i suoi profili critici: la prospettiva delle famiglie che si sovrappongono nel tempo
Un primo elemento di criticità insito nell’adozione del tenore di vita coniugale come criterio in funzione del quale decidere riguardo alla spettanza ed all’ammontare del contributo dovuto per il mantenimento del coniuge e dei figli era stato messo efficacemente a fuoco da un’interessante decisione di merito nella quale il giudice aveva fatto ricorso ad un metodo di calcolo basato sui principi dell’econometria che avrebbe dovuto consentire di individuare con obiettività quanto necessario al mantenimento del coniuge economicamente debole e dei figli. Proprio la prospettiva scientifica consentì di precisare che la misura dell’assegno di mantenimento da corrispondere al coniuge economicamente debole “deve essere determinata in modo da consentire che ai nuovi nuclei familiari che si formano in capo a ciascun coniuge sia possibile mantenere un tenore di vita equivalente a quello goduto in costanza di matrimonio, se compatibile con il reddito attuale complessivamente disponibile”; diversamente, ove ciò non fosse realizzabile, l’obiettivo da perseguire dovrebbe essere quello di individuare l’entità del mantenimento in modo da “garantire ai due nuovi nuclei un tenore di vita analogo tra loro”(33).
L’esigenza di commisurare la spettanza e l’entità del mantenimento dovuto alla parte economicamente debole abbandonando il riferimento al tenore di vita goduto nel momento in cui la famiglia era unita e perseguendo il diverso obiettivo di garantire ai nuovi nuclei familiari che si formano a seguito della separazione un tenore di vita simile tra loro si è manifestata con evidenza nelle fattispecie in cui, successivamente alla rottura del matrimonio, il coniuge economicamente forte formi una seconda famiglia. In tal caso può porsi il problema di un’equilibrata ripartizione delle risorse tra l’ex coniuge beneficiario dell’assegno divorzile (soprattutto se reduce da un matrimonio di breve durata) e la seconda famiglia che l’ex coniuge obbligato al pagamento dell’assegno divorzile abbia ricostituito successivamente al divorzio(34).
Un precedente ormai datato aveva adottato una soluzione, invero criticabile, che si basava sull’assunto secondo cui la decisione di formare una seconda famiglia costituisce una scelta e non una necessità. Muovendo da questo presupposto, la S.C. aveva concluso che il diritto dei componenti della prima famiglia di mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio non potesse subire limitazioni a seguito della decisione del familiare economicamente forte di dare vita ad una nuova famiglia(35). Questo orientamento, a ben vedere, risultava difficilmente conciliabile con i principi fondamentali dell’ordinamento in quanto la sua applicazione avrebbe condotto a privilegiare ingiustificatamente i componenti del nucleo familiare originario a scapito dei componenti del nuovo nucleo familiare formato successivamente al divorzio. Così, seguendo un orientamento diverso e sicuramente condivisibile, la S.C. ha preso atto del dato per cui la presenza di una nuova famiglia costituita dall’ex coniuge tenuto al pagamento dell’assegno divorzile ex art. 5 l. div. comporta una variazione degli assetti pregressi di cui non può non tenersi conto. In questi casi, pertanto, si impone un “temperamento dei diritti della prima famiglia” necessario ad “evitare un trattamento deteriore della seconda”. Dunque il secondo matrimonio e, più in generale, la nascita di figli dell’obbligato rendono in linea di principio necessaria una rinnovata valutazione comparativa della situazione delle parti da cui può scaturire una rideterminazione dell’assegno dovuto all’ex coniuge(36).
Queste considerazioni, del resto, trovano una conferma assai significativa in una decisione di legittimità recente(37) nella quale, per la prima volta, viene chiarito che la costituzione di una nuova famiglia successivamente alla disgregazione del primo gruppo familiare costituisce un diritto ricompreso tra quelli riconosciuti dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo del 1950 (art. 12)(38) e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (art. 9)(39).
Il diritto dell’individuo a formarsi una famiglia, precisa la Cassazione, non può incontrare un limite, né essere considerato alla stregua di una mera scelta individuale non necessaria nemmeno laddove sia già presente un primo nucleo familiare la cui unità è venuta meno a seguito del divorzio. Questa impostazione, invero, testimonia ulteriormente l’inopportunità di commisurare l’assegno divorzile al tenore di vita goduto durante il matrimonio e la necessità di adottare una prospettiva diversa: quella di garantire un tenore di vita equivalente a tutti coloro che dipendono da un medesimo soggetto economicamente forte.
Indubbiamente il problema può porsi in termini assai particolari nell’ipotesi in cui l’esigenza di attuare un’equilibrata divisione delle risorse della parte economicamente forte veda interessato da un lato l’ex coniuge ancora giovane, reduce da un matrimonio di breve durata e senza figli e, dall’altro, il secondo coniuge ed i figli nati nel secondo matrimonio o nell’ambito di una relazione non matrimoniale. In una fattispecie come questa emerge chiaramente l’inadeguatezza dell’impostazione che mira a garantire all’ex coniuge economicamente debole un assegno divorzile idoneo a permettergli di conservare “un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio e che sarebbe presumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso, ovvero che poteva ragionevolmente prefigurarsi sulla base di aspettative esistenti nel corso del rapporto matrimoniale”(40). Infatti, applicando senza opportuni correttivi ai matrimoni di breve durata i criteri adottati dalla S.C. con riferimento al mantenimento dell’ex coniuge economicamente debole si potrebbe giungere in alcuni casi a soluzioni applicative non convincenti. Garantire il tenore di vita coniugale all’ex coniuge incapace di reperire autonomamente mezzi adeguati, infatti, significherebbe esporre l’ex coniuge obbligato ad una “distrazione” ingiustificata delle proprie risorse a scapito della nuova famiglia che egli abbia formato successivamente al divorzio(41); distrazione che appare tanto più inopportuna quanto più è breve la durata del rapporto matrimoniale e quanto più siano presenti condizioni che rendono verosimile il conseguimento dell’indipendenza economica da parte del coniuge economicamente debole.
Proprio questa particolare prospettiva sembra confermare alcune delle argomentazioni poste alla base dell’ordinanza di remissione che si commenta e l’opportunità di ricercare in via interpretativa soluzioni che consentano di limitare le perduranti posizioni di interdipendenza tra i coniugi con riferimento a matrimoni di breve durata e nei quali non siano presenti figli. In queste fattispecie, infatti, risulterebbe opportuno valorizzare il principio dell’autoresponsabilità ed attuare la funzione assistenziale dell’assegno divorzile in ragione di un ottica “riabilitativa”; occorrerebbe, in altri termini, che l’assegno svolgesse solamente la funzione di consentire per un tempo determinato il superamento della incapacità di procurarsi redditi propri. Del resto, come osserva la stessa ordinanza di remissione, in molti paesi dell’Unione europea si sta affermando il cosiddetto principio della autoresponsabilità, che conduce a prevedere una tutela assistenziale-riabilitativa e tendenzialmente limitata nel tempo per il coniuge reduce da un matrimonio di breve durata, ancora in giovane età e non gravato dall’impegno richiesto per l’accudimento dei figli(42).
5. Il riferimento al tenore di vita coniugale tra mutamenti sociali, modificazioni del contesto normativo e prospettive di “revisione”
Le profonde modificazioni sociali e normative che l’ordinanza di remissione pone a fondamento della “necessaria revisione critica del dogma del ” come punto di riferimento in funzione del quale valutare l’adeguatezza dei mezzi della parte che richiede l’assegno divorzile appaiono meritevoli di attenta considerazione. In effetti l’attuale contesto sociale e normativo risulta sensibilmente differenziato rispetto a quello nel quale si era formato questo consolidato indirizzo giurisprudenziale. In tale prospettiva occorre tenere in considerazione, anzitutto, i dati demografici e statistici dai quali emerge che in un significativo numero di casi gli ex coniugi reduci dal divorzio tendono a riformare nuovi nuclei familiari(43).
Questa eventualità – indubbiamente meno frequente e quindi meno avvertita dagli interpreti all’inizio degli anni Novanta – genera in molti casi una trama di rapporti che mal si concilia con la finalità di assicurare al nucleo familiare originario la persistenza di un livello di benessere coincidente con il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio per tutto il tempo successivo al divorzio.
Oltre alle considerazioni basate su dati statistici e demografici, occorre rilevare che anche il sistema delle norme che governano i rapporti familiari è stato segnato da rilevanti modificazioni e risulta oggi sensibilmente mutato rispetto a quello nel quale il “diritto vivente” in materia di assegno divorzile si è formato all’inizio degli anni Novanta. Anzitutto occorre considerare che a seguito dell’introduzione della l. n. 54/2006 è stato sancito il diritto del figlio minore “di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo” con ciascuno dei genitori anche in caso di separazione personale o di divorzio di essi, nonché il diritto “di ricevere cura, educazione e istruzione da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale” (art. 155 c.c., introdotto dalla l. n. 54/2006, il cui contenuto è trasfuso oggi nell’art. 337 ter, comma 1, c.c.).
L’esigenza di compensare la fragilità e l’instabilità che caratterizzano le unioni dei genitori attribuendo rilievo a nuove forme di responsabilità e coinvolgimento in capo a questi ultimi e nuovi legami di parentela all’interno del nucleo familiare inteso in senso “esteso” è stata ulteriormente assecondata dalla riforma introdotta dalla l. n. 219/2012 e dal d.lgs. n. 154/2013(44).
Con questa riforma il legislatore ha definitivamente sancito la condizione unica dei figli, rendendo irrilevante il fatto che i genitori siano coniugati, siano legati da un’unione di fatto o non abbiano mai formato una coppia unita. In virtù di una modificazione legislativa epocale, oggi il figlio è inserito nei rapporti di parentela di entrambi i genitori a prescindere dal matrimonio di questi ultimi (artt. 74 e 258 c.c.)(45); genitori che sono chiamati di regola ad esercitare congiuntamente la responsabilità genitoriale a prescindere dal tipo di unione che li lega e dalla sua sorte(46).
In questo nuovo scenario il significato giuridico del matrimonio perde ogni importanza per quanto concerne il rapporto genitori-figlio e finisce per concentrarsi nell’ambito del rapporto di coppia. La previsione di significative forme di tutela per la parte economicamente debole successivamente alla rottura del matrimonio continua, quindi, a costituire un elemento imprescindibile particolarmente qualificante che consente di distinguere nettamente la valenza del matrimonio rispetto a quella delle unioni non coniugali(47). Sotto questo profilo l’esigenza di assicurare un’adeguata tutela al coniuge che abbia investito molti anni nella cura della famiglia appare ancora attuale. Pertanto il diritto vivente che arricchisce la funzione assistenziale dell’assegno divorzile con il riferimento al tenore di vita coniugale inteso nel senso più pieno sembra tuttora rispondente al canone della ragionevolezza.
D’altra parte anche l’esigenza che la tutela riconosciuta all’ex coniuge divorziato non comprometta altri diritti fondamentali appare oggi ancor più avvertita rispetto al passato: infatti riconoscere all’ex coniuge economicamente debole un incondizionato diritto al mantenimento del tenore di vita coniugale potrebbe condurre a gravare eccessivamente la posizione dell’ex coniuge obbligato, limitando la possibilità che quest’ultimo disponga di risorse adeguate per il mantenimento del nucleo familiare che egli intenda formare successivamente alla rottura del primo. La meritevolezza di tutela del “diritto” a formare una (nuova) famiglia può essere osservata come un dato “nuovo”, che trova spazio nel nostro ordinamento anche in considerazione dell’importanza assunta dalle fonti sovranazionali(48). Sotto questo profilo appare opportuno richiamare nuovamente l’attenzione sulla recente decisione di legittimità, già citata, con la quale è stato precisato che la costituzione di una nuova famiglia successivamente alla disgregazione del primo gruppo familiare costituisce un diritto ricompreso tra quelli riconosciuti dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo del 1950 (art. 12) e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (art. 9). E poiché il diritto dell’individuo a formarsi una famiglia, non può incontrare un limite nemmeno laddove sia presente un primo nucleo familiare la cui unità sia venuta meno a seguito del divorzio, si deve concludere che i diritti dei componenti della seconda famiglia (sia essa fondata sul matrimonio o sulla convivenza) non possono essere compressi per garantire il persistente godimento del tenore di vita coniugale ai componenti del primo nucleo familiare.
In definitiva, nell’attuale contesto normativo l’esigenza di garantire all’ex coniuge la conservazione di un tenore di vita tendenzialmente analogo a quello goduto in costanza di matrimonio da un lato continua a rivestire un’importanza fondamentale(49), ma, dall’altro, deve essere contemperato anche con altri diritti fondamentali che l’ordinamento aspira a garantire.
Sotto il primo profilo conservano la loro validità le osservazioni secondo cui l’assegno divorzile costituisce l’unico strumento che il nostro ordinamento appresta al fine di attuare un riequilibrio economico tra le posizioni dei coniugi al termine del matrimonio; esso quindi è e resta l’architrave di un sistema che enuncia il principio della eguaglianza tra i coniugi (art. 29 Cost.) ed aspira a garantirne l’effettività nel momento in cui il matrimonio termina(50). D’altra parte, in un ordinamento che mira a tutelare il principio della parità tra i coniugi, che riconosce il diritto a porre fine all’unione matrimoniale(51) e quello a formare una famiglia (eventualmente anche dopo la rottura di una primo matrimonio) appare necessario che la tutela del coniuge economicamente debole risulti efficace, ma non incondizionata. In altri termini, è necessario evitare che essa finisca per comprimere irragionevolmente altri diritti fondamentali che l’ordinamento tutela e, segnatamente, i diritti dei componenti della famiglia formata successivamente alla rottura del matrimonio.
Diversamente risulterebbe violato il parametro costituzionale della ragionevolezza e, come paventa la stessa ordinanza di rinvio del Tribunale di Firenze, si attuerebbe un bilanciamento tra valori non appropriato, che potrebbe condurre “ad esiti palesemente irrazionali in quanto incompatibili con la stessa ratio legis”(52) della disciplina delle conseguenze economiche del divorzio e, più in generale, delle norme che governano la distribuzione delle risorse economiche all’interno della famiglia da intendere oggi nella sua accezione più estesa.
Indubbiamente, una volta adottata questa particolare visuale, appare necessario valorizzare massimamente gli strumenti che il legislatore già fornisce al fine di conseguire una razionale distribuzione di risorse che, nella maggior parte dei casi, risultano limitate(53). Sotto questo profilo appare imprescindibile l’esigenza di attribuire rilievo al principio della autoresponsabilità. Il che dovrebbe condurre – anche sulla scorta di esperienze già maturate in altri ordinamenti europei – a differenziare sensibilmente la tutela assistenziale fornita al coniuge economicamente debole attribuendo il massimo rilievo ad aspetti quali la giovane età, l’assenza di carichi familiari derivanti dalla necessità di prendersi cura dei figli non ancora autosufficienti e, infine, la breve durata della relazione coniugale.
Questo obbiettivo, in effetti, potrebbe essere conseguito attraverso una lettura interpretativa rigorosa delle norme e del “diritto vivente” attualmente esistenti. In particolare, valorizzando opportunamente i criteri enunciati nell’art. 5, comma 6, l. div., sembra possibile declinare la funzione assistenziale dell’assegno divorzile secondo modalità differenziate in ragione delle specifiche esigenze di tutela del coniuge debole evitando che la sua tutela possa risolversi nella ingiustificata compressione di altri diritti fondamentali.
6. Le differenti forme di attuazione della funzione assistenziale come riflesso delle differenti esigenze di tutela del coniuge debole. Dalla funzione assistenziale alle “funzioni assitenziali”?
Le considerazioni svolte sin qui, nel loro insieme, portano a concludere che il problema della tutela del coniuge economicamente debole debba essere affrontato secondo approcci nettamente differenziati in ragione della durata del matrimonio e dell’impegno profuso per la cura della famiglia. Il che dovrebbe condurre ad osservare la funzione assistenziale propria dell’assegno divorzile in tre differenti prospettive, che riflettono le peculiarità delle istanze da considerare di volta in volta(54).
Nei matrimoni di lunga durata è possibile che, pur essendosi esaurite o ridotte le incombenze legate allo svolgimento della vita familiare, si riscontri un’incapacità di procurarsi mezzi adeguati che uno dei coniugi ha progressivamente acquisito nel corso del matrimonio e che, con una formula estremamente incisiva, viene definita dai Principles of the Law of Family Dissolution statunitensi come una Residual Loss in Earning Capacity (section 5.05)(55). In questo genere di ipotesi l’assegno divorzile dovrebbe assolvere alla finalità di eliminare o quantomeno ridurre l’eventuale divario che venga a crearsi tra le condizioni patrimoniali degli ex coniugi, consentendo di realizzare un’equa condivisione delle capacità di reddito e di raggiungere una situazione di tendenziale riequilibrio. In questo contesto sembra opportuno parlare di una funzione assistenziale-compensativa dell’assegno divorzile perché assumono rilievo il profilo del contributo “dato” alla conduzione della vita familiare e gli eventuali sacrifici sopportati nel corso di un matrimonio di lunga durata (art. 5, comma 6, l. div.)(56).
È frequente, inoltre, che la crisi intervenga dopo un matrimonio di durata relativamente breve, ma in un momento in cui i figli sono ancora in tenera età. In questi casi si riscontrano rilevanti esigenze di organizzazione della vita familiare nella fase della separazione e successivamente al divorzio. Proprio per questa ragione l’assegno post-matrimoniale dovrebbe assolvere qui alla funzione di consentire un’equa divisione dei costi che la cura della famiglia comporta anche dopo la rottura del matrimonio.
Sarebbe appropriato, quindi, parlare di una funzione assistenziale-perequativa perché la finalità perseguita, in questo caso, è quella di valorizzare l’importanza dei compiti di cura assunti dal genitore “prevalente” dopo la rottura del consorzio coniugale.
Si riscontrano, infine, casi nei quali la coppia non ha figli e la rottura del matrimonio interviene dopo un breve periodo di tempo. In situazioni come queste non sono ravvisabili esigenze di compensare il coniuge per aver investito energie nella conduzione della vita familiare, né quella di ripartire equamente i pesi che la cura dei figli comporterà anche dopo la rottura del matrimonio.
Coerentemente, la S.C. ha escluso che in fattispecie come queste sia configurabile un diritto del coniuge debole al mantenimento. Il diritto a beneficiare dell’assegno divorzile, quindi, non può trovare spazio qualora “il brevissimo periodo di convivenza” porti ad escludere che vi sia stato un contributo personale “alla conduzione familiare ed alla costituzione della comunione spirituale”(57).
In questa prospettiva, invero, appaiono decisamente criticabili pronunce di legittimità recenti nelle quali l’esigenza di garantire al coniuge economicamente debole il persistente godimento del tenore di vita matrimoniale ha condotto ad avallare decisioni di merito nelle quali la titolarità dell’assegno divorzile veniva riconosciuta ad un coniuge che, in ragione dell’età, della condizione professionale e della breve durata del matrimonio avrebbe verosimilmente potuto provvedere in modo autonomo alle proprie esigenze(58).
7. Il parametro del tenore di vita coniugale tra persistente attualità ed esigenze di coordinamento con il principio dell’autoresponsabilità
L’analisi complessiva delle argomentazioni poste alla base della questione di legittimità costituzionale del diritto vivente in materia di assegno divorzile conduce a ritenere che esse – pur non potendo verosimilmente condurre ad una pronuncia di incostituzionalità – meritino attenta considerazione. Come si è osservato, l’esigenza di garantire un effettivo riequilibrio delle disuguaglianze che di fatto caratterizzano la suddivisione dei ruoli all’interno della famiglia è particolarmente avvertita nei matrimoni di lunga durata ed in quelli nei quali la presenza di figli non autosufficienti richiede una prolungata dedizione alla cura della famiglia da parte del genitore “prevalente”. In questi casi la regola giurisprudenziale secondo la quale alla parte economicamente debole deve essere garantito un assegno divorzile funzionale al mantenimento del tenore di vita coniugale appare ragionevole. Infatti l’indebolimento del vincolo matrimoniale – che risulterà ancor più marcato in caso di approvazione della Proposta di legge sul c.d. divorzio breve(59) – non fa venir meno l’esigenza di tutelare la parte economicamente debole al momento della rottura, ma al contrario la accentua(60). Inoltre le profonde modificazioni legislative che hanno reso unica la condizione dei figli hanno determinato, al tempo stesso, una “concentrazione” del significato giuridico del matrimonio sul rapporto di coppia(61); anche sotto questo profilo, quindi, le esigenze di tutela del coniuge economicamente debole risultano ancora attuali e in un certo senso più accentuate rispetto al passato.
D’altra parte le intervenute modificazioni sociali e normative che secondo l’ordinanza in commento rendono necessaria una revisione del “dogma del tenore di vita matrimoniale” appaiono, per altri aspetti, meritevoli di considerazione.
La loro portata può essere colta con particolare evidenza nella prospettiva delle famiglie che si sovrappongono nel tempo(62). In questo contesto l’obiettivo da perseguire sembrerebbe essere quello di un’equilibrata divisione delle risorse del soggetto economicamente forte tra i gruppi familiari che dipendono economicamente da lui. Poiché nella maggior parte dei casi le risorse a disposizione risultano limitate, garantire il persistente godimento del tenore di vita matrimoniale all’ex coniuge potrebbe comportare una irragionevole distrazione di risorse nella prospettiva del nucleo familiare formato successivamente al divorzio. Ciò può risolversi in una compressione del diritto a formare una (nuova) famiglia che può apparire ingiustificata qualora sia determinata dall’esigenza di garantire il godimento del tenore di vita matrimoniale ad un ex coniuge che, in ragione della breve durata del matrimonio, dell’assenza di figli e della giovane età, sia verosimilmente in grado di recuperare la propria indipendenza economica. In termini generali appare, quindi, indubbiamente fondata l’esigenza di ricercare soluzioni interpretative che consentano di limitare le perduranti posizioni di interdipendenza tra i coniugi con riferimento a matrimoni di breve durata e nei quali non siano presenti figli. In queste fattispecie, infatti, risulterebbe opportuno valorizzare il principio dell’autoresponsabilità ed attuare la funzione assistenziale dell’assegno divorzile in ragione di un ottica “riabilitativa”; occorrerebbe, in altri termini, che l’assegno svolgesse solamente la funzione di consentire per un tempo determinato il superamento dell’incapacità del coniuge debole di procurarsi redditi propri.
A ben vedere una rigorosa applicazione dei criteri individuati dal legislatore nell’art. 5, comma 6, l. div. e ulteriormente circostanziati dalla costante giurisprudenza di legittimità non appare affatto incompatibile con il conseguimento di questo risultato.
Valorizzando opportunamente il profilo della durata del matrimonio, infatti, è possibile limitare significativamente la tutela offerta al coniuge economicamente debole nel periodo successivo al divorzio.
In conclusione l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale appare verosimilmente improbabile per due ordini di ragioni. Per quanto concerne i matrimoni di lunga durata o nei quali – nonostante la brevità del rapporto tra i coniugi – sia richiesto in prospettiva un significativo impegno per la cura dei figli, sembrano persistere esigenze di tutela del coniuge economicamente debole tali da rendere tuttora ragionevole l’orientamento secondo cui l’assegno divorzile deve mirare a garantire il mantenimento del tenore di vita coniugale.
Per quanto riguarda la tutela del coniuge economicamente debole nei matrimoni di breve durata nei quali non siano presenti figli, emerge, in effetti, l’irragionevolezza dell’obiettivo di garantire a quest’ultimo il persistente godimento del tenore di vita coniugale a tempo indeterminato; cionondimeno, si ravvisa la possibilità di individuare soluzioni interpretative adeguate e conformi al canone della ragionevolezza nell’ambito del contesto normativo vigente. L’accoglimento della questione di legittimità costituzionale, invece, presupporrebbe che “non fosse riscontrabile nell’attuale alcuna possibilità esegetica che permetta di salvare la disposizione oggetto del dubbio”(63); presupposto che, a ben vedere, non sembra ricorrere proprio in considerazione della segnalata possibilità di adottare una lettura interpretativa rigorosa che consenta di limitare la persistenza di posizioni di dipendenza economica tra i coniugi nei matrimoni di breve durata.
Nonostante le limitate possibilità di accoglimento, l’ordinanza del Tribunale di Firenze può essere considerata per alcuni aspetti apprezzabile laddove sottolinea l’indifferibile necessità di valorizzare massimamente il principio della autoresponsabilità e quindi di limitare in modo rigoroso la tutela offerta al coniuge economicamente debole al termine di matrimoni di breve durata, viepiù in considerazione della giovane età e dell’assenza di carichi familiari derivanti dall’esigenza di prendersi cura dei figli non autosufficienti. Un ulteriore elemento che conferma le indicate esigenze di ripensamento degli orientamenti formatisi in materia di assegno divorzile, del resto, si riscontra anche nelle recenti prospettive di riforma tese a rendere più celere il conseguimento del divorzio. Quest’ultima modifica del sistema giuridico che, ove realizzata, avvicinerebbe il nostro ordinamento alle scelte già operate da tempo nella maggior parte dei Paesi europei e nordamericani, contribuirebbe indubbiamente a rendere più avvertita l’esigenza di realizzare il principio della autoresponsabilità e, quindi, di attribuire rilievo al dovere di riattivarsi richiesto al coniuge economicamente debole nei limiti appena indicati.
(1) Sul principio di ragionevolezza delle leggi v. Morrone, Il custode della ragionevolezza, Milano, 2001, 275 ss.; Id., sub art. 3 Cost., in Codice della famiglia, a cura di Sesta, II ed., Milano, 2009, in part. 41.
(2) I Principles on European Family Law sono stati elaborati dalla Commission on European Family Law con la finalità di individuare soluzioni tese al perseguimento della armonizzazione del diritto di famiglia nei diversi stati dell’Unione europea (cfr. http://ceflonline.net/). Sul punto v. Cubeddu, I contributi al diritto europeo della famiglia, in Patti e Cubeddu, Introduzione al diritto della famiglia in Europa, Milano, 2008, 16.
(3) Cass., sez. un., 29 novembre 1990, n. 11490, in Foro it., 1991, I, 1, 67, con note di Quadri, Assegno di divorzio: la mediazione delle Sezioni unite e di Carbone, Urteildämmerung: una decisione crepuscolare (sull’assegno di divorzio).
(4) Totaro, Gli effetti del divorzio, in Tratt. dir. fam. diretto da Zatti, I, II, II ed., Milano, 2011, 1637, chiarisce che “si tratta di un indirizzo tanto consolidato da costituire diritto vivente”; sul punto v. anche Santosuosso, Il matrimonio. Libertà e responsabilità nelle relazioni familiari, Torino, 2011, 787.
(5) L’orientamento espresso da Cass., sez. un., 29 novembre 1990, n. 11490, cit., è stato ribadito in numerosissime pronunce, tra cui: Cass.1 dicembre 1993, n. 11860, in questa Rivista,1994, 15, con nota di Carbone, L’evoluzione giurisprudenziale in tema di assegno di divorzio; Cass. 16 giugno 2000, n. 8225, in Giur. it., 2001, I, 1, 462, con nota di Castagnaro, La Cassazione si ostina a far sopravvivere uno status economico connesso ad un rapporto definitivamente estinto e a non riconoscere il carattere alimentare dell’assegno; Cass. 17 gennaio2002, n. 432, in Nuova giur. civ. comm., 2003, I, 38, con nota di Al Mureden, In tema di adeguatezza dei redditi del coniuge divorziato; Cass. 27 settembre 2002, n. 14004, in questa Rivista, 2003, 14, con nota di De Marzo, Revisione dell’assegno divorzile e conservazione del tenore di vita matrimoniale; Cass. 28 gennaio 2004, n. 1487, in questa Rivista, 2004, 237, con nota di Liuzzi, Assegno di divorzio e incrementi reddituali; da ultimo Cass. 5 febbraio 2014, n. 2546, in Diritto & Giustizia online, 2014, con nota di Paganini; Cass. 5 marzo 2014, n. 5131, in De Jure.
(6) Così, ribadendo una formula che si riscontra con assoluta regolarità in decine di precedenti conformi, Cass. 5 febbraio 2014, n. 2546, cit. La decisione chiarisce poi che il giudice è chiamato a “procedere ad una determinazione quantitativa delle somme sufficienti a superare l’inadeguatezza di detti mezzi che costituiscono il tetto massimo della misura dell’assegno. La concreta determinazione dell’assegno deve avvenire in base alla valutazione ponderata e bilaterale dei criteri indicati nell’art. 5 della legge 898 del 1970”.
(7) Cass. 3 gennaio 2014, n. 488, in De Jure, in cui si ribadisce che “l’accertamento del diritto all’assegno divorzile va effettuato verificando l’inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente, raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio e che sarebbe presumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso o quale poteva legittimamente e ragionevolmente configurarsi sulla base di aspettative maturate nel corso del rapporto. Con riguardo alla quantificazione dell’assegno di divorzio, deve escludersi la necessità di una puntuale considerazione, da parte del giudice che dia adeguata giustificazione della propria decisione, di tutti, contemporaneamente, i parametri di riferimento indicati dall’art. 5 della legge 1 dicembre 1970, n. 898, come modificato dall’art. 10 della legge 6 marzo 1987, n. 74, per la determinazione dell’importo spettante all’ex coniuge, anche in relazione alle deduzioni e alle richieste delle parti, salva restando la valutazione della loro influenza sulla misura dell’assegno”.
(8) Cass. 16 ottobre 2013, n. 23442, in De Jure.
(9) Tra le tante Cass. 4 novembre 2010, n. 22501, in De Jure; Cass. 24 marzo 2010, n. 7145, in De Jure.
(10) Il fatto che la valorizzazione del profilo della inadeguatezza dei mezzi del richiedente debba essere letta come una chiara volontà di sottolineare il passaggio da un assegno con natura composita ad uno con natura marcatamente assistenziale, nel quale le finalità compensativa e risarcitoria vengono relegate ad un piano secondario viene sottolineato, tra gli altri da Bonilini, L’assegno post-matrimoniale, in Bonilini e Tommaseo, Lo scioglimento del matrimonio, in Il Codice civile. Commentario fondato da Schlesinger, diretto da Busnelli, III ed., Milano, 2010, 585 ss.; Totaro, Gli effetti del divorzio, cit., 1631; Sesta, Diritto di famiglia, Padova, 2005, 353.
(11) Bonilini, L’assegno post-matrimoniale, cit., 595; nello stesso senso Barbiera, I diritti patrimoniali dei separati e dei divorziati, Bologna, 2001, 31 ss.
(12) Bonilini, L’assegno post-matrimoniale, cit., 595; in senso contrario Bianca, Diritto civile, 2.1, Milano, 2014, 294.
(13) Bonilini, L’assegno post-matrimoniale, cit., 595.
(14) Sul punto v. Patti, I rapporti patrimoniali tra coniugi. Modelli europei a confronto, in Il nuovo diritto di famiglia, Trattato diretto da Ferrando, II, Bologna, 2008, 229; Id., Obbligo di mantenere e obbligo di lavorare, in Introduzione al diritto della famiglia in Europa, Milano, 2008, 309; Ferrando, Le conseguenze patrimoniali del divorzio tra autonomia e tutela, inDir. fam., 1998, 728; Cubeddu, Lo scioglimento del matrimonio e la riforma del mantenimento tra ex coniugi in Germania, in Familia, 2008, 22, la quale illustra la riforma del mantenimento operata nell’ordinamento tedesco il 1° gennaio 2008 ed il principio dell’autoresponsabilità; Ronfani, Recensione a Al Mureden, Nuove prospettive di tutela del coniuge debole. Funzione perequativa dell’assegno divorzile e famiglia destrutturata, Milano, 2007, in Sociologia del diritto, 2008, 193. Un’elevata sensibilità verso questi ultimi problemi si riscontra negli ordinamenti di common law: Blumberg, The Financial Incidents of Family Dissolution, in AAVV, Cross currents, Family Law and Policy in the United States and England, edited by Katz, Eekelaar e Maclean, Oxford, 2000, 398; Katz, Family Law in America, New York, 2003, 87.
(15) Sesta, Diritto di famiglia, cit., 353.
(16) Cass. 9 ottobre 2007, n. 21099, in questa Rivista, 2008, 28, con nota di La Torre, Perdita dell’affectio coniugalis e diritto alla separazione, nella quale è stato enfaticamente evocato un “diritto costituzionalmente fondato di ottenere la separazione personale e interrompere la convivenza”, ove questa sia divenuta intollerabile.
(17) Sesta, Presentazione di Al Mureden, Nuove prospettive di tutela del coniuge debole. Funzione perequativa dell’assegno divorzile e famiglia destrutturata, Milano, 2007, VIII, osserva come “il fatto che il matrimonio non sia più indissolubile non può avere come conseguenza che l’ordinamento non appresti idonee garanzie a tutela di colui che in esso abbia investito le proprie risorse umane”. Questo principio, del resto, è chiaramente enunciato anche nella section 7.02 dei Principles of the Law of Family Dissolution elaborati dall’American Law Institute. Sempre in questo senso si rinvia alle articolate riflessioni di Renda, Il matrimonio civile. Una teoria neo-istituzionale, Milano, 2013, 268, il quale mette in luce che “il principio di eguaglianza dei coniugi si associa ad un vincolo che predetermina l’ordinamento intero della famiglia e che imprime alla relazione tra i coniugi il carattere della solidarietà, sottraendolo alla loro disponibilità”.
(18) Nella giurisprudenza inglese v., testualmente, Norris v. Norris, Family Division, 28 November 2002, (2002) EWHC 2996 (Fam), (2003) 2 FCR 245.
(19) Sul no-fault divorce si vedano Weitzman, The Divorce Revolution: The Unexpected Social and Economic Consequences for Women and Children in America, New York, 1985, in part. 15-51; Jacob, Silent Revolution: The Transformation of Divorce Law in the United States, Chicago, 1988; Katz, Family Law in America, cit., 82; per una illustrazione in lingua italiana Al Mureden, Conseguenze patrimoniali del divorzio e parità tra coniugi nelle leading decisions inglesi: verso una nuova valenza dell’istituto matrimoniale?, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2009, 212.
(20) Cfr. Thermaenius, Whòs washing the dishes now?, 2004, in http://epp.eurostat.cec.eu.int; v. anche l’indice di Gender equality, in www:scb.se, nonché How Europeans spend their time. Everyday life of women and men, coordinator Winqvist, Luxembourg, 2004; Majer and Siermann, Income poverty in the European Union: Children, gender and poverty gaps, 2000; Aliaga, Gender gaps in the reconciliation between work and family, 2005; Franco and Winqvist, Women and man reconciling work and family life, 2002; Employment rates lower and part-time rates higher for women with children, issued by Bautier 2005, tutti in http://epp.eurostat.cec.eu.int.
(21) Marella, The Family Economy versus the Labour Market (or Hosework as a legal issue), in Labour Work and Family, edited by Conaghan and Rittch, 2005, 157 ss.; Weitzman,The Divorce Revolution: The Unexpected Social and Economic Consequences for Women and Children in America, cit., in part. 15-51. Per una ampia illustrazione delle questioni connesse al principio della eguaglianza tra uomo e donna nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e nel diritto interno v. Long, Il diritto italiano della famiglia alla prova delle fonti di origine sovranazionale, in Tratt. dir. fam., diretto da Zatti, I, I, II ed., Milano, 2011, 145. In argomento v. anche Andrini, La famiglia nella Costituzione europea, in Familia, 2004, I, 551; Bergamini, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, in Codice della famiglia, a cura di Sesta, II ed., Milano, 2009, 149 ss.
(22) Aliaga, Gender gaps in the reconciliation between work and family, cit., sintetizza il fenomeno con la formula “the more children, the lower female employment rate” e – con più specifico riferimento ai tassi di occupazione in senso assoluto (75 % per gli uomini, 60 % per le donne) e a quelli relativi alla diffusione del lavoro part-time (86 % per gli uomini e 91% per le donne) – con la formula “Employment rates lower and part-time rates higher for women with children”.
(23) Aliaga, Gender gaps in the reconciliation between work and family, cit. Con specifico riferimento alla situazione italiana uno studio dell’Istat (Come cambia la vita delle donne, Roma, 2004, 7 e 124) conferma che la difficoltà di conciliare lavoro e famiglia viene sopportata principalmente dalle donne. I tassi di occupazione delle donne single (86,5 %) e delle donne sposate ma senza figli (71,9 %) risultano infatti sensibilmente più elevati rispetto a quelli delle donne che vivono in coppia ed hanno figli (51,5 %). Anche all’interno della categoria delle donne con figli si riscontra una proporzionalità inversa tra numero dei figli e tassi di occupazione. È poi considerevole la percentuale di donne che risultano occupate al momento della gravidanza e, a seguito della nascita dei figli, non rientrano nel mondo del lavoro.
(24) Aliaga, Gender gaps in the reconciliation between work and family, cit., indica che questa scelta riguarda una donna su tre se ci sono figli e una donna su cinque in assenza di figli, mentre per gli uomini le percentuali di impiegati part-time con o senza figli sono sostanzialmente simili.
(25) Marella, The Family Economy versus the Labour Market (or Hosework as a legal issue), cit., 157 ss.
(26) Sul principio di uguaglianza tra coniugi Sesta, sub art. 29 Cost., in Codice della famiglia, a cura di Sesta, II ed., Milano, 2009, in part. 73; Caggia e Zoppini, sub art. 29 Cost., inCommentario alla Costituzione italiana, a cura di Bifulco, Celotto e Olivetti, Torino, 2006, 611.
(27) Donati, La famiglia come relazione sociale, Milano, 1989, 49.
(28) È indubbiamente significativo che di questa esigenza si trovi un chiaro riconoscimento nell’art. 5 del Protocollo addizionale n. 7 della Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nel quale si enuncia esplicitamente il principio secondo cui “i coniugi godono dell’uguaglianza dei diritti e delle responsabilità di natura civile tra essi e nei rapporti con i figli riguardo al matrimonio, durante il matrimonio e in caso di suo scioglimento”. In argomento v. Tosi, Parità tra i coniugi, in Commentario alla Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, Padova, 2001, 966 ss. Sul punto v. anche le osservazioni contenute nel commento ufficiale della section 5.05Compensation for Primary Caretaker’s Residual Loss in Earning Capacity dei Principles of the Law of Family Dissolution.
(29) Relazione al Progetto Iotti.
(30) Sesta, Diritto di famiglia, cit., 169.
(31) Sull’articolo 2 Cost. Barbera, sub art. 2, in Commentario della Costituzione, a cura di Branca, Bologna-Roma, 1976, 55 ss.; Morrone, sub art. 2 Cost., in Codice della famiglia, a cura di Sesta, cit., in part. 25.
(32) Bessone, Rapporti etico-sociali, in Commentario della Costituzione, a cura di Branca, Bologna-Roma, 1976, 75, sottolinea che l’art. 29 Cost., oltre a presentare “tutti gli attributi delle norme costituzionali con carattere di immediata precettività”, costituisce un punto di riferimento obbligato in funzione del quale operare la lettura di qualsiasi norma che si riferisce a rapporti familiari.
(33) Trib. Firenze 3 ottobre 2007, in questa Rivista, 2008, 39, con nota di Al Mureden, Tenore di vita e assegni di mantenimento tra diritto ed econometria; considerazioni analoghe si rinvengono anche in Trib. Varese 4 gennaio 2012, in cui, con riferimento all’assegno di mantenimento, si chiarisce che la conservazione del tenore di vita coniugale costituisce un “obbiettivo solo tendenziale”, dovendosi tenere conto “degli effetti della disgregazione del nucleo domestico, vale a dire, innanzitutto, dell’ impoverimento dei partners”. In definitiva il formarsi di “due microeconomie individuali non potrà, di regola, consentire quelle sinergie di beni e di risparmi prima possibili”; e pertanto “nella determinazione del nuovo ménage di vita successivo al disgregarsi del rapporto di coniugio, devesi necessariamente tener conto non solo dell’astratto dato del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, ma anche della concreta, quasi sempre inevitabile erosione della capacità economica che la coppia, scindendosi, subisce”.
(34) Ronfani, Recensione a Al Mureden, Nuove prospettive di tutela del coniuge debole. Funzione perequativa dell’assegno divorzile e famiglia destrutturata, Milano, 2007, cit., 193.
(35) Cass. 22 novembre 2000, n. 15065, in questa Rivista, 2001, 34, con nota di De Marzo, Mantenimento dei figli nati da precedente matrimonio e rilevanza della costituzione di una nuova famiglia.
(36) Cass. 23 agosto 2006, n. 18367, in De Jure; Cass. 24 gennaio 2008 n. 1595, in De Jure.
(37) Cass. 19 marzo 2014, n. 6289, in Diritto & Giustizia online, 2014.
(38) Bonini Baraldi, Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, in Codice della famiglia, a cura di Sesta, II ed., Milano, 2009, 140.
(39) Bergamini, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, in Codice della famiglia, a cura di Sesta, cit., 153 ss.
(40) Cass. 4 novembre 2010, n. 22501, cit.
(41) Ronfani, Recensione, Al Mureden, Nuove prospettive di tutela del coniuge debole. Funzione perequativa dell’assegno divorzile e famiglia destrutturata, Milano, 2007, cit., 194.
(42) Cubeddu, Solidarietà e autoresponsabilità nel diritto di famiglia, in Introduzione al diritto della famiglia in Europa, cit., 153, in part. 170; Ead., I principi europei sul divorzio e il mantenimento tra ex coniugi, ivi, 271.
(43) Nello studio Separazioni e divorzi in Italia, anno 2011, pubblicato nel maggio 2013, reperibile all’indirizzo http://www.istat.it/it/archivio/91133, si legge che “i tassi di separazione e di divorzio totale sono in continua crescita. Nel 1995 per ogni 1.000 matrimoni si contavano 158 separazioni e 80 divorzi, nel 2011 si arriva a 311 separazioni e 182 divorzi”. Le indagini demografiche mettono a fuoco la presenza di un rilevante numero di separazioni e divorzi in cui sono coinvolti figli minori (50,5% e 35,5%) (Separazioni e divorzi in Italia, anno 2011, cit., 9). Un altro dato rilevante, che emerge solo in parte dalle statistiche dell’ISTAT, è quello che evidenzia la diffusione del fenomeno delle seconde nozze (Separazioni e divorzi in Italia, anno 2011, cit., 2-3). Anche questo dato deve essere ulteriormente integrato tenendo conto di due fattori che le statistiche disponibili non possono prendere in considerazione, ma che, cionondimeno, riveste un particolare rilievo. In particolare occorre tenere presente il considerevole aumento di separazioni e divorzi tra coniugi “giovani” (18-24% età inferiore ai 40 anni); questo dato, infatti, segnala la presenza di persone che, verosimilmente, dopo la rottura del matrimonio vivranno altre esperienze familiari di convivenza o si accosteranno ad un secondo matrimonio. Occorre poi tenere conto della presenza di un considerevole numero di persone che dopo avere avuto figli fuori dal matrimonio, si apprestano a contrarre matrimonio e a vivere una “seconda esperienza familiare” (Separazioni e divorzi in Italia, anno 2011, cit., 2).
(44) Sesta, L’unicità dello stato di filiazione e i nuovi assetti delle relazioni familiari, in questa Rivista, 2013, 231; Sesta, Stato unico di filiazione e diritto ereditario, in Riv. dir. civ., 2014, 5; Prosperi, Unicità dello “status filiationis” e rilevanza della famiglia non fondata sul matrimonio, in Riv. crit. dir. priv., 2013, 273.
(45) Sesta, L’unicità dello stato di filiazione e i nuovi assetti delle relazioni familiari, cit., 231.
(46) Al Mureden, La responsabilità genitoriale tra condizione unica del figlio e pluralità di modelli familiari, in questa Rivista, 2014, 466.
(47) Al Mureden, Conseguenze patrimoniali del divorzio e parità tra coniugi nelle leading decisions inglesi: verso una nuova valenza dell’istituto matrimoniale?, cit., 230; per una approfondita analisi comparatistica sul “significato giuridico del matirmonio” nei diversi paesi dell’Unione europea Waaldijk, More or Less Together: Levels of legal consequences of marriage, cohabitation and registered partnership for different-sex and same-sex partners, Paris, 2005.
(48) Sulle sentenze Corte cost. 24 ottobre 2007, nn. 348 e 349, v. Polacchini, CEDU e diritto dell’Unione europea nei rapporti con l’ordinamento costituzionale interno. Parallelismi e asimmetrie alla luce della più recente giurisprudenza costituzionale, in Consulta on line, http://www.giurcost.org/studi/Polacchini.html; Ead., I rapporti con l’ordinamento della CEDU, in Diritto costituzionale. Casebook, a cura di Mezzetti, Rimini, 2013, 47 ss.
(49) Cfr. retro par. 3.
(50) Renda, Il matrimonio civile. Una teoria neo-istituzionale, cit., 264-265, attraverso una lettura coordinata degli artt. 29 e 2 Cost., chiarisce che “i coniugi sono soggetti eguali tenuti a reciproca solidarietà” e che la solidarietà familiare assume un carattere ancor più specifico della solidarietà sociale. Essa infatti non si esplica tra estranei, ma tra soggetti compartecipi che “hanno instaurato una comunione integrale di vita”.
(51) Cass. 9 ottobre 2007, n. 21099, cit.
(52) Cosi si esprime l’ordinanza del Tribunale di Firenze in commento.
(53) Cubeddu, Il divorzio, in Patti e Cubeddu, Diritto della famiglia, Milano, 2011, 628, osserva che in alcuni ordinamenti europei si è consolidata una regola in ragione della quale è istituita una “graduazione tra i soggetti aventi diritto a prestazioni contributive” a seguito della crisi della famiglia. In particolare, l’A. rileva che “uno specifico criterio è stato accolto dai principi di diritto europeo della famiglia sul divorzio e il mantenimento tra ex coniugi”. Il punto 2:7, infatti, contempla la fattispecie in cui il medesimo soggetto sia gravato dall’obbligo di mantenere persone appartenenti a nuclei familiari formati in tempi successivi. In questo caso la capacità del coniuge obbligato di soddisfare i bisogni dell’ex coniuge economicamente debole deve essere “graduata” anche tenendo in considerazione le eventuali esigenze di mantenimento che scaturiscano dalla formazione di una seconda famiglia e quindi degli obblighi assunti nei confronti del nuovo coniuge e, in via prioritaria, degli obblighi di mantenimento dei figli minori.
(54) Questa esigenza sembra emergere anche laddove si sottolinea (Quadri, Brevissima durata del matrimonio e assegno di divorzio, in Corr. giur., 2009, 474) l’opportunità di “rinunciare alla professione di fede nel principio della natura dell’assegno di divorzio, approfittando delle potenzialità interpretative dischiuse dall’art. 5, comma 6”.
(55) In questo senso rivestono notevole interesse le osservazioni contenute nel commento ufficiale della section 5.05 Compensation for Primary Caretaker’s Residual Loss in Earning Capacity dei Principles of the Law of Family Dissolution.
(56) In questo senso Rimini, La tutela del coniuge più debole fra logiche assistenziali ed esigenze compensative, in questa Rivista, 2008, 427.
(57) Cass. 29 ottobre 1996, n. 9439, in questa Rivista, 1996, con nota di Carbone, Matrimonio effimero: l’assegno non è dovuto e in Foro it., 1997, I, 1541, con nota di Quadri,Rilevanza della “durata del matrimonio” e persistenti tensioni in tema di assegno di divorzio; Cass. 16 giugno 2000, n. 8233, in questa Rivista, 2000, 505.
(58) In questo senso si veda, ad esempio, Cass. 4 febbraio 2009, n. 2721, in questa Rivista, 2009, 682, con nota di Al Mureden, L’assegno divorzile viene attribuito dopo un matrimonio durato una settimana. Configurabilità e limiti della funzione assistenziale riabilitativa, con la quale è stata confermata la decisione di merito che aveva riconosciuto il diritto all’assegno divorzile ad un coniuge reduce da un matrimonio durato una sola settimana; Cass. 16 ottobre 2013, n. 23442, in De Jure, che ha confermato la decisione di merito con la quale veniva attribuito un assegno divorzile alla ex moglie, professionista economicamente benestante, precisando che “al fine dell’accertamento del diritto all’assegno divorzile, non bisogna confondere lo stile con il tenore di vita”, in quanto, “anche in presenza di rilevanti potenzialità economiche un regime familiare può essere (…) improntato a uno stile di o di rigore. Questa, continua la Cassazione, “costituisce una scelta che non può annullare le potenzialità di una condizione economica agiata”. Ancora, il diritto all’assegno divorzile è stato riconosciuto in capo ad una ex coniuge giovane reduce da esperienza matrimoniale relativamente breve da Cass. 11novembre 2009, n. 23906, in De Jure.
(59) Cfr. Il testo unificato delle proposte di legge (C. 831-892-1053-1288-1938-2200-A), intitolato Disposizioni in materia di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio nonché di comunione tra i coniugi, approvato alla Camera il 29 maggio 2014 e, in particolare, la modifica dell’art. 3 l. n. 898/1970, che condiziona la proposizione della domanda di scioglimento o di cessazione degli effetti civili al del matrimonio al protrarsi ininterrotto della separazione legale per “almeno dodici mesi dalla notificazione della domanda di separazione”, in caso di separazione giudiziale, e, in caso di separazione consensuale, “di sei mesi decorrenti dalla data di deposito del ricorso ovvero dalla data della notificazione del ricorso, qualora esso sia presentato da uno solo dei coniugi”.
(60) Cfr. retro par. 3.
(61) Cfr. retro par. 5.
(62) Cfr. retro par. 4.
(63) Morrone, Una questione di ragionevolezza: il caso dell’assegno divorzile e del parametro del “medesimo tenore di vita”, in questo fascicolo, infra, di seguito a questo commento.
UNA QUESTIONE DI RAGIONEVOLEZZA: L’ASSEGNO DIVORZILE E IL CRITERIO DEL “MEDESIMO TENORE DI VITA”
di Andrea Morrone
Trib. Toscana Firenze Ordinanza, 22 maggio 2013
L. 01-12-1970, n. 898, art. 5
FONTE
Famiglia e Diritto, 2014, 7, 687
È costituzionalmente ragionevole la norma vivente sul “medesimo tenore di vita matrimoniale” quale criterio per parametrare l’assegno divorzile? Questa la domanda che è posta alla Corte costituzionale da un’ordinanza di rimessione del Tribunale di Firenze, che pone al centro l’annosa questione della protezione del coniuge debole di fronte ad una giurisprudenza consolidata che, tuttavia, presenta non poche criticità.
1. Il rilievo costituzionale della questione sollevata dal Tribunale di Firenze sull’assegno divorzile(1) si coglie anche solo considerando i profili che coinvolge, che vanno dal ruolo della famiglia ex art. 29 Cost., alla funzione del matrimonio e del divorzio; dai rapporti tra il diritto di famiglia e la Costituzione, al ruolo del giudice, in sé e in rapporto col legislatore; dalla rilevanza del diritto vivente, al valore e all’utilizzo dei precedenti giurisprudenziali nel nostro ordinamento costituzionale(2).
La questione si presenta insieme coraggiosa e difficile. Fin dall’ammissibilità, la domanda posta al giudice delle leggi finisce per misurarsi con la complessa problematica del valore del diritto vivente, con i connessi limiti che questa categoria pone, da un lato, al giudice comune, in ragione del potere interpretativo ad esso spettante e, dall’altro, alla stessa Corte costituzionale in sede di sindacato di costituzionalità. L’oggetto è, infatti, la legittimità costituzionale dell’assegno divorzile, così come configurato nell’interpretazione consolidata, nonostante alcune incertezze marginali, nella giurisprudenza comune, a partire dalla sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 11490 del 1990. In base a questo precedente, la disposizione contenuta nell’art. 5, comma 6 della legge n. 898/1970(3), viene normalmente letta in funzione della protezione del coniuge economicamente più debole, sicché l’assegno divorzile è computato tenendo conto del “medesimo tenore di vita goduto in costanza di matrimonio” (considerato come limite massimo dell’attribuzione), in luogo di un criterio destinato a considerare, invece, l’esigenza di mantenere una vita dignitosa anche dopo il divorzio(4).
Il giudice remittente, nel motivare la rilevanza e la non manifesta infondatezza, argomenta di non poter svolgere un’interpretazione adeguatrice, proprio a causa del diritto vivente, che escluderebbe in radice ogni possibilità a questo riguardo, senza con ciò consentire, ovviamente, neppure un’interpretazione diversa nel caso di specie(5). L’unica via d’uscita, di fronte a un dubbio di legittimità costituzionale sulla norma vivente, è o l’intervento del legislatore, o quello della Corte costituzionale, in funzione caducatoria della disposizione così come interpretata dalla prevalente giurisprudenza (sent. n. 78/2007). Nel merito, secondo il giudice a quo, la norma vivente presenterebbe molteplici vizi di costituzionalità. Innanzitutto, è rilevata un’incongruenza teleologica tra mezzi (l’assegno) e fine (il divorzio), ponendosi in contraddizione proprio con la ratio dello scioglimento del matrimonio la parametrazione dell’assegno allo stesso tenore di vita matrimoniale. In secondo luogo, l’interesse al mantenimento di una vita agiata, sotteso al caso di specie oggetto del giudizio di merito, ha valore meramente economico, e non costituisce, come tale, il contenuto di una situazione giuridica soggettiva qualificabile come diritto fondamentale meritevole di protezione. La disciplina vivente, di conseguenza, finirebbe per trattare allo stesso modo situazioni eterogene: per un verso, quella del coniuge e quella del divorziato (la cui condizione connota una situazione che è proprio caratterizzata da un mutamento delle condizioni di vita), nonché, per altro verso, tra quella disciplina e quella relativa ai rapporti del coniuge divorziato nei confronti dei figli (per la quale vale il criterio dell’autosufficienza). In particolare, il giudice remittente denuncia il mancato superamento del test di proporzionalità circa il bilanciamento espresso dalla norma vivente, in quanto la tutela accordata al coniuge debole sarebbe non necessaria, nella misura in cui è diretta ad assicurare un tenore di vita equipollente a quello matrimoniale, anziché solo sufficiente a condurre una vita comunque dignitosa. La norma si porrebbe, altresì, in contraddizione con il diritto sovranazionale: la Commissione europea, infatti, ha stabilito che dopo il divorzio ciascuno degli ex coniugi provvede ai propri bisogni autonomamente; e, se è previsto un qualche rapporto patrimoniale, il relativo regolamento deve essere retto dal criterio della temporaneità. Il diritto vivente cadrebbe, infine, in un vizio di anacronismo legislativo, essendo cambiati sia il senso del matrimonio (la cui ratio è ormai solo l’affectio e non più anche il sostegno a un coniuge debole), sia il ruolo della donna nella società. Di conseguenza, l’interpretazione delle Sezioni Unite, e la giurisprudenza che ne segue l’insegnamento, opererebbe una cristallizzazione di concezioni tradizionali, di tipo “criptoindissolubilista”, elevando ad autentico “dogma” il parametro del tenore di vita.
2. Le difficoltà cui va incontro l’ordinanza di remissione si ritrovano nella domanda diretta ad aggredire il diritto vivente, cercando di ottenere dalla Corte costituzionale una pronuncia demolitoria proprio della norma vivente. Il primo ostacolo riguarda il rapporto tra l’interpretazione adeguatrice e la norma vivente: quest’ultima consente la prima? Se fosse ammissibile, anche di fronte al diritto vivente giurisprudenziale, un’interpretazione conforme a Costituzione, probabilmente l’esito della domanda del giudice a quo, sarebbe l’inammissibilità della questione, in base alla nota giurisprudenza costituzionale che considera il ricorso incidentale l’extrema ratio, esperibile quando nessuna possibilità esegetica permette di salvare la disposizione oggetto del dubbio(6). Invero, nel caso di specie il giudice a quo assume un diverso punto di vista, ossia l’incontrovertibilità dell’orientamento dei Supremi giudici della Cassazione circa l’adeguatezza dei mezzi prescritta per legge, che deve essere parametrata non a una “vita dignitosa”, ma a un “tenore di vita” analogo a quello in costanza di matrimonio. In questa differente prospettiva, tuttavia, si pone la questione se il diritto vivente costituisca un limite insuperabile anche per la Corte costituzionale. Nonostante dottrine contrarie, rimaste però minoritarie(7), la giurisprudenza costituzionale non solo riconosce a se stessa il potere di svolgere un’interpretazione adeguatrice qualora ve ne siano i margini, ma anche quello di riscontrare eventuali vizi di costituzionalità delle norme viventi, che certamente non potrebbero sottrarsi all’esigenza di garantire, anche in simili ipotesi, il rispetto della Costituzione(8).
3. Nel merito, i dubbi di legittimità danno luogo essenzialmente a un giudizio di ragionevolezza, articolato in alcune delle sue più tipiche figure sintomatiche: la coerenza teleologica, la proporzionalità, il bilanciamento degli interessi, la coerenza storico-cronologica(9).
Il fuoco del giudizio di ragionevolezza è, come noto, l’individuazione della ratio legis. A questo proposito, occorre considerare che la legge sul divorzio, attraverso le novelle legislative del 1978 e del 1987 ha, nel tempo, mutato di prospettiva: nel senso del progressivo alleggerimento dei vincoli positivi stabiliti per divorziare. Quale la ratio del divorzio? Quella di rimedio all’impossibilità di ricostruire la “comunione materiale e spirituale” del matrimonio? Quella della sanzione alla “colpa” di uno dei coniugi? Quella di uno strumento consensuale, come nella separazione, che si lega alla natura del matrimonio come contratto? L’art. 3 della legge, com’è noto alla dottrina civilistica, permette tutte e tre queste spiegazioni. Quale però la ratio dell’assegno divorzile? Prima della riforma del 1987, veniva riconosciuta una natura polifunzionale, assistenziale, compensativa e risarcitoria, con conseguente carattere concorrente dei criteri legali per commisurarlo, sia per l’an, sia per il quantum. Dopo l’intervento del legislatore, la dottrina ha accentuato il carattere assistenziale dell’assegno divorzile, collegandolo al valore della solidarietà post-matrimoniale, considerandolo una misura per fare fronte al deterioramento del livello di protezione, non a uno stato di bisogno, in funzione di “riequilibrio” dei rapporti. L’assegno, in sostanza, prescinderebbe dalla rilevanza della “condizione economica del coniuge più debole”, perché ciò che conta è il tenore complessivo della vita matrimoniale. La giurisprudenza, sia pure con qualche oscillazione, ha rafforzato questa ratio(10).
Alla luce di questo quadro possono essere individuati alcuni profili problematici della norma vivente sull’assegno divorzile, che in parte prendono spunto proprio dall’ordinanza di remissione. Se la ratio dell’assegno è di tipo assistenziale, in funzione di protezione di un soggetto ritenuto debole, pare incongruo riferirsi al “tenore di vita matrimoniale”: la finalità solidaristica, in sostanza, dissimula un obiettivo di riequilibrio economico “per equivalente”. In questo ambito, l’intervento dello Stato si può giustificare in funzione della garanzia dell’equilibrio dei rapporti inter privatos, ma non spingersi sino al punto di tramutarsi in una sorta di paternalismo giuridico tale da alterare quegli stessi rapporti, che dovrebbero restare governati dal principio di autonomia privata. Quale pregio manifesta l’interesse del coniuge debole all’assegno divorzile? Quale libertà, nel senso più elementare di libertà di scelta, una simile norma vivente assicura al soggetto passivo, ad esempio, circa la possibilità di divorziare, di formare un’altra famiglia, di contrarre un nuovo matrimonio, ecc.?
In secondo luogo, se il divorzio è un rimedio alla cessazione della comunione materiale e spirituale dei coniugi, la disciplina dell’assegno deve essere il frutto di un ragionevolebilanciamento degli interessi in gioco, e non un mezzo sproporzionato di tutela solo di una parte. Il parametro del tenore di vita equivalente si traduce, nei casi limite, in una sorta di diritto di rendita, che contrasta con le tendenze in atto non solo nell’ordinamento sovranazionale, ma anche nella legislazione di altri Paesi, nei quali valgono i criteri dell’autosufficienza e della corresponsabilità dei coniugi divorziati. L’evoluzione della disciplina sul divorzio va nella direzione di favorire il divorzio, superando alcuni limiti originari, per cui incongruo si rivela il collegamento tra i “mezzi adeguati” e il “tenore di vita equivalente”: ciò opera in senso dissuasivo non certo permissivo. Il fatto stesso che i requisiti dell’assegno per il divorzio siano “più favorevoli” per il coniuge debole rispetto all’omologo, anche se formalmente e sostanzialmente differente, onere di mantenimento in caso di separazione(11), palesa una sproporzione eccessiva tra il mezzo e l’obiettivo dello scioglimento del matrimonio.
Appare meritevole di attenzione la critica di anacronismo, diretta a evidenziare la funzione pietrificatrice dei rapporti svolta dall’assegno divorzile così parametrato, che rimanda a una concezione istituzionale della famiglia anziché all’esigenza costituzionale che siano riconosciuti e garantiti i diritti dei soggetti che la compongono; presupponendo una condizionenaturale di minorità della donna, che contrasta con il parametro dell’eguaglianza dei coniugi e con il canone ermeneutico dell’effettività. Il significato autentico del diritto vivente, infatti, dovrebbe essere quello di potere esprimere la norma più adeguata alla realtà dei rapporti materiali(12). Il test di coerenza storico-cronologica, d’altronde, rappresenta proprio lo strumento per misurarne la validità. In questa vicenda, in altri termini, è possibile apprezzare il senso della ragionevolezza delle leggi come sindacato circa l’adeguatezza delle norme ai contesti: il tenore di vita equipollente costituisce un criterio che manifesta una rigidità tale da sfuggire alle peculiarità derivanti dai molteplici casi della vita, insuscettibile di adattarsi in maniera ragionevole ad essi. Tutto ciò senza considerare che proprio la pietrificazione del presupposto costituisce un limite, forse eccessivo, alla stessa discrezionalità del giudice, di decidere in maniera prudente.
Al di là di questi e altri motivi di dubbio, la questione di costituzionalità sollevata dovrà fare i conti con una questione cruciale. Anche ammesso che la norma vivente sia riconosciuta in contrasto con la Costituzione, occorre capire quale soluzione possa essere stabilita come valida alternativa a quella del criterio del tenore di vita equipollente. Quest’ultimo, infatti, poteva e può trovare una giustificazione concreta nell’esigenza di evitare margini d’interpretazione non facilmente controllabili e, quindi, in un obiettivo di certezza che, forse, la giurisprudenza prevalente, nell’imporre il criterio del tenore di vita equivalente, non riconosceva al criterio della “vita dignitosa”. Potrebbe questa considerazione spingere la Corte a un atteggiamento di self restraint, evitando di annullare una norma, che ha costituito la premessa per una prassi applicativa congrua con quell’obiettivo di sicurezza dei rapporti giuridici, e che si protrae nel tempo?
Ancora una volta si tratta di ponderare i valori in gioco secondo il punto di vista della Costituzione. Ma questo è proprio il compito che spetta al giudice costituzionale, mentre dovrebbero sfuggirgli valutazioni di opportunità che solo il legislatore può compiere in sede di disciplina positiva.
(1) Cfr. Trib. Firenze 22 maggio 2013, ord., in epigrafe.
(2) Sulle questioni teoriche e pratiche che stanno intorno al diritto costituzionale della famiglia rinvio al mio commentario degli Artt. 2, 3 Costituzione in M. Sesta (a cura di), Codice della famiglia, I, III ed., Milano, 2014, 3 ss.
(3) In base a questa disposizione “con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”. Il testo è il frutto della novella introdotta con legge n. 74 del 1987.
(4) Su questa disposizione, e la sua interpretazione vivente, per tutti, A. Arceri e M. Pittalis, Scioglimento del matrimonio, in M. Sesta (a cura di), Codice della famiglia, III, II ed., Milano, 2009, 3894 ss.
(5) Vengono citati alcuni precedenti della Corte costituzionale: cfr., rispettivamente, sentt. nn. 427/1999, 190/2000, e 177/2000.
(6) Giurisprudenza divenuta prevalente, a partire da Corte costituzionale, sent. n. 356/1996.
(7) Cfr. A. Pugiotto, Sindacato di costituzionalità e “diritto vivente”, Milano, 1994.
(8) Cfr. Corte costituzionale sent. n. 266/2006, nella quale, in materia di azione di disconoscimento della paternità in caso di relazione adulterina subordinata, per norma vivente, all’accertamento di quest’ultima, il giudice delle leggi esclude la possibilità di un’interpretazione adeguatrice diversa dall’indirizzo giurisprudenziale formatosi sul punto, e annulla la norma vivente per contrasto col diritto di difesa e il diritto all’identità biologica del figlio.
(9) Rinvio al mio volume dedicato al Custode della ragionevolezza, Milano, 2001.
(10) Si consideri, in particolare, la giurisprudenza che distingue, e mantiene separati ai fini dell’assegno divorzile, il giudizio sull’an e il giudizio sul quantum; o quella che stabilisce che il tenore di vita è comunque il limite massimo non superabile (cfr. Cass.,s.u., n. 11490/1990); quella che prescrive il ripristino “tendenziale” delle precedenti condizioni economiche” (Cass. n. 11860/1993); che individua tenore di vita “non in concreto”, reale, ma “quello che avrebbero potuto tenere i coniugi” e quindi anche potenziale (Cass. n. 10465/1996); che considera i miglioramenti della situazione patrimoniale del debitore ex post rispetto all’evento del divorzio rilevanti “in quanto sviluppo naturale e prevedibile” (Cass. n. 13107/1995); che sottolinea il carattere assistenziale rafforzato dell’assegno, potendosi prescindere anche dalla “effettiva comunanza di vita” (Cass. n. 17537/2003).
(11) Cfr. spunti in G. Casaburi, Anche i ricchi piangono: quando l’assegno di separazione è di 3 milioni di euro al mese, in Corr. Merito, 2013, 7, 738 ss.
(12) Evidenzia questa esigenza di aderenza alla realtà nuova che si determina con il divorzio rispetto alla cristallizzazione di un “dato virtuale” come quello del “tenore di vita equivalente”, F. Alcaro, Note in tema di assegno divorzile: “il tenore di vita in costanza di matrimonio, un’aporia interpretativa?, in questa Rivista, 2013, 12, 1079 ss.