Matteo Dellacasa, Il cantiere dei rimedi contro l’inadempimento: ius variandi e risarcimento del danno tra disciplina legislativa e regole giurisprudenziali, in I contratti, 2014, f. 8-9, p. 755.
Il cantiere dei rimedi contro l’inadempimento: ius variandi e risarcimento del danno tra disciplina legislativa e regole giurisprudenziali
(di Matteo Dellacasa)
Cass., sez. un., 11 aprile 2014, n. 8510: La parte che, ai sensi dell’art. 1453, 2° comma c.c. chieda la risoluzione del contratto nel corso del giudizio dalla stessa promosso per ottenere l’adempimento, può domandare, contestualmente all’esercizio dello ius variandi, non solo la restituzione della prestazione eseguita, ma anche il risarcimento del danno derivante dalla mancata attuazione dello scambio.
Il contraente che dopo aver chiesto l’adempimento propone domanda di risoluzione non può dedurre a fondamento di essa un distinto fatto costitutivo, cioè un inadempimento diverso da quello posto a base della pretesa originaria e già verificatosi all’atto dell’introduzione di quest’ultima; è tuttavia possibile la deduzione, da parte sua, dei fatti sopravvenuti alla domanda di adempimento, che, rendendo irreversibile l’inattuazione del sinallagma, lo hanno indotto ad avvalersi dello ius variandi.
Poiché il codice civile consente, per ragioni di effettività e concentrazione della tutela, di far valere, contestualmente al mutamento della domanda di adempimento in quella di risoluzione del contratto inadempiuto, la pretesa risarcitoria, il regime delle preclusioni non è di ostacolo né alla possibilità dell’introduzione del nuovo tema di indagine, né al pieno dispiegarsi, su di esso, del diritto di difesa e del diritto al contraddittorio in condizioni di parità: le allegazioni e le deduzioni istruttorie relative alla domanda di risarcimento non richiedono la rimessione in termini, venendo piuttosto in gioco il doveroso esercizio dei poteri di direzione del processo da parte del giudice.
Abstract: Le Sezioni Unite intervengono ancora sui rimedi contro l’inadempimento, enunciando un principio di diritto che appare pienamente condivisibile: la parte che, proposta in un primo momento l’azione di adempimento, domanda la risoluzione del contratto in esercizio dello ius variandi, può chiedere contestualmente il risarcimento del danno conseguente allo scioglimento del rapporto. Il contraente deluso, dunque, può non solo convertire la domanda di adempimento in quella di risoluzione, ma anche esercitare nel corso dello stesso processo le azioni di condanna che ad essa conseguono, esigendo – oltre alla restituzione delle prestazioni eseguite – il risarcimento del danno derivante dalla mancata attuazione dello scambio.- Meritano attenzione anche alcune affermazioni incidentali che riguardano il presupposto della questione affrontata, vale a dire il mutamento della domanda di adempimento in quella di risoluzione: si ammette, infatti, che il creditore possa allegare alla seconda circostanze non dedotte a fondamento della prima, in quanto sopravvenute nel corso del giudizio. Sia pure condividendo la soluzione adottata, il commento effettua una valutazione critica delle argomentazioni svolte a sostegno di essa, delineando le relazioni tra il principio affermato dalle Sezioni Unite e le acquisizioni della stessa giurisprudenza di legittimità. Si considera, poi, l’ammissibilità del mutamento della domanda, nel campo dei rimedi contro l’inadempimento, al di fuori della situazione espressamente regolamentata dalla legge: l’attenzione viene concentrata sull’indirizzo giurisprudenziale che ammette la conversione dell’azione di adempimento in quella di risarcimento.
La sentenza: il prodotto di una felice interazione tra dottrina e giurisprudenza
Le sezioni unite intervengono ancora sui rimedi contro l’inadempimento, enunciando un principio di diritto che merita di essere pienamente condiviso: il creditore che, proposta in un primo momento l’azione di adempimento, domanda la risoluzione del contratto in esercizio dello ius variandi, può chiedere contestualmente il risarcimento del danno conseguente allo scioglimento del rapporto (art. 1453, 2° comma c.c.). Il contraente deluso, dunque, può non solo convertire la domanda di adempimento in quella di risoluzione, ma anche esercitare nel corso dello stesso processo le azioni di condanna che ad essa conseguono, esigendo la restituzione delle prestazioni eseguite e il risarcimento del danno derivante dalla mancata attuazione dello scambio.
La pronuncia verte su un contratto complesso, in cui sono presenti elementi del preliminare di vendita e dell’appalto: ricordiamo qui, in estrema sintesi, i lineamenti della vicenda. X, nella doppia veste di (promittente) alienante e committente, cede ad Y il diritto sfruttare le risorse del sottosuolo di un terreno di cui è proprietario; si impegna, poi, ad acquistare la proprietà di un’altra area sita nella medesima cava, e a trasferire ad Y i diritti di escavazione relativi ad essa e la proprietà della cubatura del materiale da estrarre. Y, nella doppia veste di (promissario) acquirente e appaltatore, acquista il diritto di sfruttare il terreno di cui X è proprietario e promette di acquistare i diritti di escavazione e cubatura sull’area che lo stesso si è impegnato a trasferirgli; si obbliga, poi, a realizzare nella zona interessata dall’attività estrattiva uno specchio acqueo in conformità a quanto avrebbe previsto il piano regolatore in corso di approvazione al momento della conclusione del contratto.
Mentre il terreno di cui X era già proprietario all’atto dell’accordo viene regolarmente consegnato ad Y – che intraprende su di esso le attività estrattive originariamente programmate – la seconda porzione della cava non viene invece consegnata. In una prima fase, la mancata attuazione di questo secondo segmento del rapporto contrattuale è giustificata dalla circostanza che l’attività estrattiva e la conseguente realizzazione dello specchio acqueo nell’area promessa non è consentita dagli strumenti urbanistici: il piano regolatore che prevede lo sfruttamento delle risorse del sottosuolo e la conseguente realizzazione dello specchio acqueo non ottiene la necessaria approvazione regionale. Quando tuttavia, in un secondo momento, viene elaborato un nuovo piano regolatore approvato dalla regione, il rifiuto di trasferire la seconda porzione della cava opposto da X appare ingiustificato: Y, allora, lo conviene in giudizio chiedendo l’adempimento del contratto nella parte relativa ai terreni che non gli erano stati attribuiti per poi domandare in sede di precisazione delle conclusioni la risoluzione e il risarcimento del danno. Rigettate in primo grado per ragioni di carattere processuale, entrambe le azioni vengono accolte in sede di gravame. Essendo riscontrabili massime giurisprudenziali contrastanti in merito alla legittimazione del contraente deluso a domandare il risarcimento del danno contestualmente all’esercizio dello ius variandi, la questione viene assegnata alle sezioni unite, che alla luce del principio di diritto appena ricordato confermano la sentenza di secondo grado1.
Iscriviti alla nostra newsletter per avere accesso immediato Se sei già iscritto, inserisci nuovamente la tua email per accedere L’interesse della sentenza non si esaurisce nel principio di diritto appena ricordato: meritano attenzione anche alcune affermazioni incidentali che riguardano il presupposto della questione affrontata, vale a dire il mutamento della domanda di adempimento in quella di risoluzione (art. 1453, 2° comma). Nella parte finale del commento valuteremo, poi, l’ammissibilità del mutamento della domanda, nel campo dei rimedi contro l’inadempimento, al di fuori della situazione espressamente regolamentata dalla legge: prenderemo in considerazione, in particolare, la conversione dell’azione di adempimento in quella di risarcimento. Se proprio si vuole rinvenire un difetto nella motivazione della sentenza, le sezioni unite non sembrano pienamente consapevoli di alcune soluzioni riscontrabili nella stessa giurisprudenza di legittimità e delle loro interferenze con l’assetto dei rimedi considerati: adempimento, risoluzione, risarcimento. Forse la condivisibile attenzione per l’elaborazione dottrinale ha distolto l’attenzione del giudice dalla sua stessa giurisprudenza, impedendogli di cogliere le relazioni tra le soluzioni adottate e gli approdi già raggiunti: cercheremo, allora, di delinearle nel corso del commento. I precedenti: un contrasto giurisprudenziale solo apparente ? Prima di analizzare il modo in cui viene argomentata la legittimazione del contraente deluso a chiedere il risarcimento contestualmente all’esercizio dello ius variandi occorre considerare i precedenti della sentenza in commento. L’orientamento favorevole all’ammissibilità della domanda di risarcimento era prevalente nella giurisprudenza di legittimità: alle tre pronunce citate in motivazione3 se ne deve aggiungere un’altra indirizzata nello stesso senso4. Benché incidentalmente ricordata anche in altre occasioni5, l’opinione opposta appare decisiva nel giustificare il rigetto della domanda di risarcimento solo nell’ambito di una recente sentenza di legittimità6: ma è ipotizzabile che la posizione assunta dalla S.C. in tale occasione sia dovuta al fatto che il pregiudizio di cui l’attore aveva chiesto il risarcimento contestualmente al mutamento della domanda fosse riconducibile alla categoria dell’interesse negativo. Stante l’inadempimento di un contratto preliminare di vendita immobiliare imputabile al promittente alienante – che non aveva trasferito la proprietà dell’appartamento promesso – il promissario acquirente aveva domandato in prima battuta il trasferimento coattivo dell’immobile (art. 2932 c.c.), per poi chiedere in un secondo momento la risoluzione e il risarcimento del danno, quantificato nella misura degli oneri condominiali straordinari che aveva sostenuto durante il periodo in cui aveva abitato l’appartamento. Il risarcimento del danno chiesto contestualmente al mutamento della domanda è dunque commisurato ai costi affrontati dal contraente deluso confidando nell’attuazione del rapporto. È appena il caso di osservare che il danno “da affidamento” di cui l’attore chiede il risarcimento contestualmente al mutamento della domanda di adempimento in quella di risoluzione è riconducibile alla categoria dell’interesse negativo, laddove quello positivo avrebbe dovuto essere commisurato alla differenza tra il valore della prestazione (appartamento promesso, e non trasferito) e il corrispettivo pattuito. È vero, nella motivazione della sentenza l’inammissibilità della domanda di risarcimento viene giustificata sulla base di considerazioni di carattere processuale: stante il carattere eccezionale del capoverso dell’art. 1453 c.c. – che consente il mutamento dell’azione in deroga alla disciplina del codice di rito (artt. 183; 345) – il creditore non è legittimato a proporre una ulteriore domanda qual è quella di risarcimento. Nondimeno, ci sembra plausibile che il giudice di legittimità abbia voluto escludere che in esercizio dello ius variandi il creditore possa chiedere il risarcimento dell’interesse negativo, giustificando la soluzione sul versante processuale per esigenze di economia argomentativa. L’ipotesi trova riscontro in una serie di elementi concordanti. In giurisprudenza, in primo luogo, è quanto meno controverso che il contraente deluso sia legittimato ad ottenere a titolo di risarcimento del danno le spese sostenute confidando nell’attuazione dello scambio. Alla tesi favorevole7, si contrappone l’opinione che esclude la risarcibilità dei costi sostenuti per attuare il rapporto a meno che non risulti provato che gli stessi sono stati affrontati inutilmente, in quanto al di fuori del contratto risolto il contraente deluso non ha alcuna possibilità di valorizzarli8. In dottrina, d’altra parte, la questione non viene considerata espressamente, ma si elaborano ricostruzioni che conducono a soluzioni opposte. In base a una prima, autorevole opinione, chiedendo la risoluzione il contraente deluso può domandare il risarcimento dell’interesse negativo9. Il fondamento normativo dell’azione non si rinviene tuttavia nell’art. 1453 c.c. – che contempla esclusivamente il risarcimento dell’interesse positivo – ma in una serie di disposizioni da cui si desume per analogia iuris la risarcibilità dell’interesse negativo anche al di fuori dell’ambito della responsabilità precontrattuale (artt. 1337, 1338, 1398 c.c.)10. In quest’ottica, infatti, da un lato il “danno da affidamento” assume rilevanza anche al di fuori della culpa in contrahendo; dall’altro, il quantum della responsabilità precontrattuale non risulta necessariamente commisurato all’interesse negativo11. Ma se il fondamento normativo del risarcimento dell’interesse negativo non si identifica con l’art. 1453 c.c., il creditore non può domandarlo contestualmente all’esercizio dello ius variandi: la domanda di risarcimento, infatti, risulterebbe del tutto scollegata dalla sequenza che porta il creditore a chiedere l’adempimento per poi virare verso la risoluzione del contratto. Se le spese sostenute per dare attuazione al rapporto vengono ricondotte senz’altro alla categoria dell’interesse negativo, la conclusione appare pienamente giustificata. Il creditore non può, nell’ambito dello stesso processo, chiedere prima di essere collocato nella situazione in cui si sarebbe trovato se la controparte avesse adempiuto esattamente l’obbligazione [adempimento + risarcimento del danno da ritardo]; pretendere, poi, di essere collocato in una situazione equivalente a quella in cui si sarebbe trovato se non avesse concluso il contratto ed operato nella prospettiva della sua attuazione [risoluzione + risarcimento dell’interesse negativo]. Una dottrina parimenti autorevole ipotizza, invece, che le spese sostenute confidando nell’attuazione dello scambio possano contribuire a determinare, sia pure per difetto, il valore della prestazione per il contraente deluso: sulla base dei costi allegati e provati da quest’ultimo, il giudice potrebbe valutare equitativamente, ai sensi dell’art. 1226 c.c., il risarcimento del danno corrispondente all’interesse positivo12, e quantificato nella differenza tra il valore della prestazione e il corrispettivo pattuito. Ne consegue, ci sembra, che esercitando lo ius variandi ai sensi dell’art. 1453, 2° comma c.c. il creditore può chiedere il risarcimento dell’interesse positivo, valutato equitativamente sulla base delle spese sostenute in attuazione del rapporto. La conclusione appare convincente, in quanto anche il contraente che muta la domanda di adempimento in quella di risoluzione può avere difficoltà a provare il valore della prestazione interessata dall’inadempimento, dunque ad ottenere il risarcimento dell’interesse positivo: la possibilità che quest’ultimo sia rappresentato, sia pure per difetto, dalle spese sostenute consente di attenuare tale inconveniente. È tuttavia probabile che nella fattispecie la scelta di chiedere il risarcimento di tale voce di danno effettuata dall’attore contestualmente al mutamento della domanda di adempimento in quella di risoluzione abbia indotto la S.C. ad escludere l’ammissibilità dell’azione. L’ipotesi, d’altra parte, trova riscontro in una recente sentenza delle sezioni unite, in cui si afferma che domandati in prima istanza la risoluzione del contratto e il risarcimento del danno il creditore non può chiedere in un secondo tempo – in genere, in sede di gravame – l’accertamento del diritto di recedere e ritenere la caparra confirmatoria ricevuta (o, in alternativa, esigere il doppio di quella data)13. La conclusione viene giustificata, del resto correttamente, sulla base delle norme processuali: la domanda avente ad oggetto l’accertamento del recesso e del diritto di ritenere la caparra non è affatto più limitata di quella con cui si chiede la risoluzione del contratto e il risarcimento del danno (tanto è vero che l’entità della caparra è superiore a quella del risarcimento liquidato dal giudice di primo grado !), sicché deve ritenersi inammissibile in quanto nuova (artt. 183, 345 c.p.c.). Nello stesso tempo, tuttavia, la posizione assunta porta ad escludere che nell’ambito del medesimo processo il contraente deluso possa chiedere il risarcimento dell’interesse positivo, e – visto lo scarso successo dell’iniziativa, spesso determinato da difficoltà di ordine probatorio – virare poi sulla tutela di quello negativo. In altra sede si è sostenuto che la caparra confirmatoria predetermina convenzionalmente la misura dell’interesse negativo, ed in particolare di quella sua componente che si identifica con gli affari alternativi sfumati a causa dell’affidamento riposto dal contraente deluso nell’attuazione del rapporto: quando, come avviene di frequente, viene consegnata contestualmente alla conclusione di un preliminare di vendita immobiliare, essa compensa la perdita delle occasioni di guadagno che la parte fedele trascura confidando nella realizzazione dello scambio14. Grazie alla caparra confirmatoria, tale affidamento si “realizza” nella disponibilità di una somma di denaro che l’accipiens confida di poter ritenere tanto se la controparte attua il contratto (sarà, allora, un acconto sul prezzo pattuito) quanto se risulta inadempiente (verrà allora incamerata per effetto del recesso). Ora, escludendo che dopo aver chiesto la risoluzione e il risarcimento del danno il contraente deluso – evidentemente insoddisfatto della somma liquidata dal giudice – possa chiedere l’accertamento del recesso e la ritenzione della caparra, le sezioni unite gli precludono di esigere nell’ambito dello stesso processo tanto il risarcimento dell’interesse positivo [domandato in prima istanza, contestualmente alla risoluzione], quanto la tutela dell’interesse negativo [convenzionalmente predeterminato nella misura della caparra confirmatoria]. A ben vedere, le ragioni che portano ad escludere il mutamento della domanda sono le medesime sulla base delle quali si afferma che la caparra confirmatoria non costituisce la misura minima del risarcimento: ove domandato dal creditore contestualmente alla risoluzione, quest’ultimo può essere liquidato dal giudice in una somma di importo inferiore15. La caparra compensa l’affidamento del contraente deluso, che concludendo il contratto rinuncia ad approfittare di opportunità alternative, mentre il risarcimento del danno derivante dall’inadempimento tende a collocarlo nella stessa situazione in cui si sarebbe trovato se lo scambio fosse stato attuato. Se questo è vero, ritenere che il creditore possa cumulare la caparra confirmatoria e il risarcimento del danno differenziale significherebbe legittimarlo ad esercitare pretese incompatibili. Ipotizzando che la parte fedele sia il promittente alienante, egli potrebbe ritenere la somma che remunera la sua rinuncia a vendere il bene ad un prezzo più alto del corrispettivo pattuito e, insieme, ottenere il risarcimento del danno subito per aver alienato il bene ad un prezzo più basso. Con una dottrina autorevole16, osserviamo che la vendita ad esecuzione differita – a cui equivale, a questi effetti, il contratto preliminare – pone a carico del venditore il rischio di un aumento del valore di mercato del bene. Se questo rischio non si verifica, e il valore di mercato diminuisce, il venditore può esigere di essere collocato dal compratore inadempiente nella stessa situazione in cui si sarebbe trovato se il contratto fosse stato attuato; ma non può pretendere, insieme, di conservare la disponibilità della somma che remunera la rinuncia a vendere ad un prezzo più alto fatta con la conclusione del contratto preliminare. Ebbene, come è evidente un’analoga sovrapposizione di pretese incompatibili si riproporrebbe se il venditore (id est, contraente deluso) potesse chiedere in prima istanza la risoluzione del contratto ed il risarcimento del danno, per poi domandare in sede di gravame – ove insoddisfatto dell’importo liquidato – l’accertamento del suo diritto di recedere e ritenere la caparra: gli verrebbe riconosciuto il diritto di chiedere il risarcimento dell’interesse positivo assicurandogli nel contempo la tutela di quello negativo – predeterminato dalle stesse parti nella misura della caparra confirmatoria – a cui potrebbe rivolgersi qualora la somma liquidata in prima istanza risultasse inferiore alle attese. Se la nostra ipotesi è corretta, la sentenza che si annota risolve un contrasto giurisprudenziale solo apparente. In giurisprudenza, quando contestualmente al mutamento dell’azione di adempimento in quella di risoluzione il creditore chiede il risarcimento dell’interesse positivo la domanda viene ritenuta ammissibile. Nell’unica sentenza di legittimità in cui si presta adesione in modo non del tutto incidentale all’opinione opposta17, il creditore aveva chiesto a titolo di risarcimento del danno il rimborso delle spese sostenute in attuazione del contratto risolto: voce tradizionalmente ricondotta alla categoria dell’interesse negativo. Neanche in questa ipotesi la conclusione contraria all’ammissibilità della domanda appare condivisibile, essendo persuasiva la tesi dottrinale che ritiene le spese sostenute dal contraente deluso idonee a rappresentare, sia pure per difetto, il valore della prestazione: dunque a concorrere, per il tramite della valutazione equitativa del danno (art. 1226 c.c.), alla determinazione dell’interesse positivo18. Sulla base dei riscontri indicati, peraltro, ci sembra probabile che la posizione assunta dal giudice di legittimità in tale occasione sia stata determinata dall’opinione in base alla quale una volta esercitata l’azione di adempimento (che tutela l’interesse positivo all’attuazione del rapporto) il creditore non può pretendere di essere collocato nella stessa situazione in cui si sarebbe trovato se non avesse concluso il contratto ed esigere così, contestualmente alla risoluzione, il risarcimento dell’interesse negativo. L’argomentazione a sostegno dell’ammissibilità della domanda di risarcimento: analisi critica Consideriamo, ora, il modo in cui viene argomentata la legittimazione del contraente deluso a domandare il risarcimento del danno contestualmente all’esercizio dello ius variandi. Essa, si osserva in primo luogo, non confligge con il tenore letterale dell’art. 1453, 2° comma c.c., che regola il rapporto tra l’adempimento e la risoluzione del contratto senza considerare espressamente l’eventualità che con la seconda azione si coniughi quella di risarcimento19. Il primo comma dello stesso articolo chiarisce che il risarcimento del danno è compatibile con gli altri due rimedi: il dato normativo, dunque, non impedisce di ritenere che anche con la domanda di risoluzione proposta nel corso del giudizio possa integrarsi quella di risarcimento. Appurato che nessun ostacolo può sorgere dal tenore letterale della disposizione, a sostegno della tesi favorevole all’ammissibilità della domanda di risarcimento si deduce un argomento di carattere funzionale. Il risultato perseguito dal contraente deluso esercitando l’azione di risoluzione non si esaurisce nella pronuncia di una sentenza che lo liberi dal vincolo contrattuale, esonerandolo dall’esecuzione della prestazione dovuta: a questo scopo, egli potrebbe limitarsi ad opporre l’eccezione di inadempimento. Nella grande maggioranza dei casi, invece, il creditore chiede la risoluzione per esercitare le azioni di condanna che conseguono allo scioglimento del rapporto ed ottenere, così, il risarcimento del danno e la restituzione delle prestazioni eseguite20. Se questo è vero, precludere al contraente che esercita lo ius variandi di chiedere (le restituzioni e) il risarcimento del danno derivante dalla mancata attuazione dello scambio significherebbe pregiudicare le istanze di «effettività e concentrazione della tutela» che giustificano il mutamento della domanda di adempimento in quella di risoluzione. Ottenuto lo scioglimento del contratto, il creditore potrebbe conseguire il risarcimento del danno solo intraprendendo un nuovo processo, laddove prevedendo il mutamento della domanda il legislatore vuole appunto consentirgli di tutelarsi nel contesto dello stesso giudizio iniziato esercitando l’azione di adempimento. Opportunamente le sezioni unite adottano un’argomentazione tutta incentrata sulla ragione giustificativa dello ius variandi, limitatamente a questo aspetto distaccandosi dall’Autore che costituisce il loro principale riferimento dottrinale21. Quest’ultimo ipotizza che nella parte in cui prevede la facoltà di chiedere la risoluzione dopo aver domandato l’adempimento l’art. 1453, 2° comma c.c. possa essere applicato analogicamente al risarcimento del danno. Per avvalorare tale conclusione, e rispettare il dettato dell’art. 14 prel., occorre tuttavia escludere che la disposizione introduca un’eccezione alle norme del codice di rito che precludono la proposizione di domande nuove nel corso del processo (artt. 183, 345 c.p.c.). A questo scopo si sostiene che il capoverso dell’art. 1453 c.c. integra una norma di diritto sostanziale, in quanto regolando il rapporto tra i rimedi, piuttosto che l’esercizio delle corrispondenti azioni, esclude che scelta di esigere l’adempimento effettuata inizialmente impedisca al contraente deluso di ottenere la risoluzione22: in quanto non eccezionale, la disposizione si presterebbe ad essere applicata analogicamente anche al risarcimento, legittimando la proposizione della relativa domanda contestualmente all’esercizio dello ius variandi. Sembra tuttavia difficile disconoscere che la regola abbia una valenza di carattere processuale, in quanto – come risulta dalla sua stessa formulazione letterale – essa consente al creditore di esercitare l’azione di risoluzione nello stesso giudizio intrapreso domandando l’adempimento: non si può dunque negare che essa apporti una deroga alle norme del codice di rito che precludono l’introduzione di domande nuove (artt. 183, 345), pur ammettendo l’esercizio dell’azione di risoluzione anche al di fuori del giudizio in cui è stato chiesto l’adempimento. Del resto, l’operazione che consiste nel qualificare una norma come sostanziale piuttosto che processuale sembra avere una connotazione essenzialistica: essa presuppone che le norme abbiano una natura intrinseca in virtù della quale è possibile escluderne il carattere eccezionale ed avvalorarne, così, l’applicazione analogica a situazioni non espressamente previste dalla legge. Più convincente l’approccio delle sezioni unite, per ogni altro aspetto ricalcato su quello della medesima voce dottrinale: non si nega il carattere eccezionale dell’art. 1453, 2° comma c.c., ma si afferma che le istanze di concentrazione ed efficacia della tutela perseguite dal legislatore prevedendo lo ius variandi rischierebbero di essere vanificate se fosse onere del creditore esercitare l’azione di risarcimento nel contesto di un nuovo processo. Nella mappa tracciata da un illustre studioso, quello adottato dal giudice di legittimità viene qualificato come argomento ab absurdo, o apagogico23. Una data interpretazione del testo normativo o – come avviene nel caso di specie – l’elaborazione di una regola non espressamente prevista dalla legge vengono giustificate assumendo che il legislatore operi in modo ragionevole: ebbene, se il creditore non fosse legittimato ad ottenere il risarcimento la disposizione che prevede lo ius variandi risulterebbe almeno in parte inutile, sicché risulta preferibile la soluzione opposta. Lo stesso Autore rileva che l’argomento si coniuga spesso con quello teleologico, incentrato sulla ratio legis, e concorre con quello analogico a giustificare l’elaborazione di regole che colmano le lacune del dato normativo24. È proprio quanto si riscontra nella motivazione della sentenza. Le sezioni unite assumono che il mutamento della domanda di adempimento in quella di risoluzione sia funzionale a garantire al creditore una tutela efficace e concentrata nel contesto della medesima vicenda processuale: su questa base, elaborano una regola che integrando il dettato normativo consente al creditore di proporre un’ulteriore domanda nuova qual è quella avente ad oggetto il risarcimento del danno. Opportunamente, e in sintonia con la dottrina più volte citata25, in motivazione si osserva che l’esercizio dell’azione di risoluzione sottende, di regola, l’interesse ad ottenere la restituzione delle prestazioni eseguite e il risarcimento del danno conseguente alla mancata attuazione dello scambio. Per avvalorare tale conclusione, si aggiunge che se la parte fedele volesse esclusivamente sottrarsi all’esecuzione della prestazione dovuta potrebbe limitarsi ad opporre eccezione di inadempimento. Occorre tuttavia precisare che della medesima eccezione il contraente deluso non può continuare ad avvalersi se ponendo fine al proprio inadempimento la controparte offre la prestazione. La funzione del rimedio è esclusivamente dilatoria: consente all’eccipiente di sospendere l’esecuzione della prestazione dovuta, e con essa l’attuazione dello scambio, ma non di liberarsi dal vincolo contrattuale26. Ne consegue che qualora l’inadempiente offra la prestazione l’eccezione non può essere ulteriormente opposta e il contraente fedele è tenuto ad eseguire la controprestazione. Più pertinente sarebbe stato un riferimento alla diffida ad adempiere (art. 1454 c.c.), che riproduce nel contesto stragiudiziale una sequenza analoga a quella osservabile, nell’ambito del processo, quando la domanda di adempimento viene mutata in quella di risoluzione: in entrambi i casi il creditore sollecita il debitore ad adempiere e qualora la prestazione non venga eseguita ottiene la risoluzione del contratto, liberandosi definitivamente dal vincolo che ne deriva. Ora, se anziché avvalersi della diffida il creditore agisce in giudizio ed esercita lo ius variandi è perché – pur essendo interessato, in prima battuta, all’esecuzione della prestazione – si prefigura l’opportunità di ottenere la condanna del debitore alla restituzione delle prestazioni eseguite e al risarcimento del danno. Più opportuno sarebbe stato anche un riferimento all’indirizzo giurisprudenziale, accreditato dalle stesse sezioni unite27, in base al quale il creditore può rifiutare la prestazione offerta con grave ritardo anche se non ha (ancora) proposto domanda di risoluzione28. Per effetto di tale orientamento, il creditore che è esclusivamente interessato ad affrancarsi dal rapporto contrattuale può restare in posizione di attesa, essendo esonerato dall’esercizio dell’azione giudiziale: se e quando il debitore gravemente inadempiente offrirà la prestazione ed esigerà l’esecuzione della controprestazione, il creditore potrà rifiutare l’offerta e contrastare un’eventuale azione di adempimento domandando riconvenzionalmente la risoluzione. Questo conferma che il creditore esclusivamente interessato a liberarsi dal vincolo contrattuale non è indotto ad agire in giudizio: anche quando proposta in esercizio dello ius variandi, la domanda di risoluzione implica l’interesse ad ottenere la condanna della controparte alle restituzioni ed ai risarcimenti, fermo restando che “in prima battuta” il creditore aspira ad ottenere l’esecuzione della prestazione. In motivazione si considera, poi, una possibile obiezione alla tesi sostenuta: la domanda di risarcimento proposta contestualmente a quella di risoluzione altera il thema decidendi, in quanto il giudice è tenuto ad accertare fatti diversi da quelli dedotti a fondamento dell’azione di adempimento inizialmente esercitata. Trattandosi, dunque, di una domanda nuova tanto per la causa petendi quanto per il petitum, la stessa dovrebbe ritenersi preclusa. L’obiezione viene superata in primo luogo osservando che anche il mutamento dell’azione di adempimento in quella di risoluzione previsto dal capoverso dell’art. 1453 c.c. comporta una variazione del thema decidendi ed implica che la cognizione del giudice si estenda a fatti diversi da quelli allegati alla domanda proposta con l’atto di citazione. È appena il caso di ricordare, a questo proposito, che la decisione sulla fondatezza della domanda di risoluzione postula l’accertamento della gravità dell’inadempimento ed in particolare la valutazione della sua incidenza sull’interesse del creditore (art. 1455 c.c.): un elemento, questo, che il giudice non deve considerare quando è impegnato a decidere sull’azione di adempimento. D’altra parte, anche la condanna alla restituzione delle prestazioni eseguite – che, pure, costituisce «effetto legale» della risoluzione – può comportare la necessità che la cognizione del giudice si estenda a fatti diversi da quelli allegati all’azione di adempimento. Così, se il bene da restituire è perito o deteriorato l’accipiens è tenuto a corrisponderne il valore o ad indennizzare il solvens per la diminuzione dello stesso (art. 2037, 2° comma c.c.): il giudice, dunque, è tenuto a valutare il valore del bene o ad accertare la misura del suo deprezzamento29. Accordando al creditore lo ius variandi, in definitiva, la legge stessa ammette che la cognizione del giudice possa estendersi a fatti diversi da quelli dedotti a fondamento dell’azione di adempimento inizialmente proposta: si può allora concludere che anche la domanda di risarcimento deve ritenersi ammissibile sebbene comporti una sensibile modificazione delle circostanze di fatto di cui il giudice ha cognizione. Come hanno cura di precisare le stesse sezioni unite, ai fini della proponibilità della dell’azione non occorre che il creditore abbia chiesto il risarcimento contestualmente all’adempimento: anche in questa ipotesi mutano tanto il contenuto della domanda, quanto i fatti che il giudice deve accertare per decidere su di essa. Il risarcimento preteso all’atto del mutamento della domanda non compensa, infatti, il ritardo o l’inesatta esecuzione della prestazione, ma il danno subito a causa dello scioglimento del rapporto; sicché la circostanza che sia stato chiesto contestualmente all’esercizio dell’azione di adempimento appare del tutto irrilevante30. Dalla conseguenza alla premessa: sul mutamento della domanda di adempimento in quella di risoluzione Se la questione affrontata dalla sentenza presuppone che la domanda di adempimento sia stata convertita in quella di risoluzione, le sezioni unite considerano, sia pure incidentalmente, le condizioni in presenza delle quali lo ius variandi può essere esercitato. In motivazione si ribadisce il principio di diritto – enunciato dalle stesse sezioni unite nel 1989 – in base al quale l’inadempimento dedotto a fondamento della domanda di risoluzione deve identificarsi con quello allegato alla domanda di adempimento inizialmente proposta: benché differenti per il petitum, le due azioni condividono la causa petendi31. In sintonia con un’opinione espressa in dottrina32, la sentenza in epigrafe ammette tuttavia che il creditore possa dedurre a sostegno della domanda di risoluzione fatti sopravvenuti alla notificazione della domanda di adempimento (art. 183 c.p.c.). Benché l’affermazione risulti inedita in giurisprudenza, essa trova riscontro nell’orientamento in base al quale a seguito dell’inadempimento definitivo del debitore, o della sua scoperta successiva all’esercizio dell’azione di adempimento, il creditore può chiedere il risarcimento del danno “in sostituzione della prestazione” senza domandare la risoluzione del contratto33: si vuole così assicurare ai rimedi applicabili maggiore flessibilità, favorendo il transito dalla tutela in forma specifica a quella per equivalente. Sulle condizioni in presenza delle quali la domanda di adempimento può essere convertita in quella di risoluzione si riscontrano in dottrina opinioni diverse, a cui corrispondono differenti valutazioni sullo stato dell’elaborazione giurisprudenziale. Condividendo il limite tracciato dalle sezioni unite in occasione del precedente del 1989, alcuni ritengono che il creditore non possa dedurre a fondamento della domanda di risoluzione fatti diversi da quelli allegati all’azione di adempimento: essi ritengono, coerentemente, che le soluzioni sperimentate nel diritto applicato valorizzino adeguatamente lo ius variandi previsto dalla legge34. Altri, come si è anticipato, ritengono che possano essere dedotti a fondamento della domanda di risoluzione anche fatti sopravvenuti a quella di adempimento, o dei quali è sopravvenuta la conoscenza nel corso del giudizio35. In base a una terza opinione, il mutamento della domanda costituisce espressione del diritto sostanziale di conseguire la risoluzione, che l’azione di adempimento inizialmente esercitata non potrebbe in alcun modo limitare; con la conseguenza che il creditore sarebbe legittimato a dedurre a fondamento della domanda di risoluzione fatti diversi da quelli allegati all’azione adempimento, ancorché non sopravvenuti alla sua notificazione. Ne consegue, inevitabilmente, una diversa valutazione dell’elaborazione giurisprudenziale, considerata ingiustificatamente restrittiva dello ius variandi36. Con la sentenza che si annota, le sezioni unite adottano la seconda delle tesi indicate: possono essere dedotti a fondamento dell’azione di risoluzione non solo i medesimi fatti allegati a quella di adempimento, ma anche fatti sopravvenuti, o – deve ritenersi – fatti di cui sia sopravvenuta la conoscenza nel corso del processo. La soluzione è equilibrata e persuasiva. Da un lato, negare la possibilità di dedurre a fondamento dell’azione di risoluzione le circostanze di cui sia sopravvenuta la conoscenza nel corso del giudizio significa escludere il mutamento della domanda proprio quando può contribuire in maggior misura a tutelare le ragioni del contraente deluso. Spesso, infatti, quest’ultimo opta per lo scioglimento del contratto dopo aver appreso nel corso del processo fatti che pregiudicano il suo interesse per l’attuazione dello scambio: si pensi all’inadempimento definitivo del debitore, che distrugge o aliena a terzi la prestazione dovuta. Dall’altro, ammettere che il creditore possa dedurre a fondamento della domanda fatti diversi, ancorché conosciuti o conoscibili al momento dell’esercizio dell’azione di adempimento, conduce a un risultato che non appare condivisibile: quello di introdurre una deroga al regime delle preclusioni processuali in assenza delle ragioni che giustificano lo ius variandi. Il mutamento della domanda di adempimento in quella di risoluzione risponde all’esigenza di adeguare i rimedi esperibili dal contraente deluso al comportamento del debitore convenuto in giudizio – che per ipotesi permane inadempiente – e alla sopravvenuta conoscenza di circostanze che possono vanificare l’interesse per la realizzazione dello scambio. Il legislatore assicura flessibilità al regime dei rimedi applicabili e favorisce in ultima analisi l’esercizio dell’azione di adempimento: il creditore sa che se la controparte resterà inadempiente o emergeranno circostanze ulteriori, tali da pregiudicare definitivamente il suo interesse per la prestazione, potrà svincolarsi dal contratto domandandone lo scioglimento. Lo ius variandi, invece, non giustifica la domanda di risoluzione quando la scelta di proporla risponde semplicemente a una diversa valutazione di opportunità compiuta dal creditore, che opta per lo scioglimento del contratto alla luce di circostanze conosciute o agevolmente conoscibili al momento dell’esercizio dell’azione di adempimento. Se il mutamento della domanda ha la funzione di adeguare il rimedio esperibile dal contraente deluso al perdurante inadempimento del debitore o alla sopravvenuta conoscenza di nuovi fatti, esso non è invece giustificato da un semplice cambiamento di opinione in ordine all’azione maggiormente idonea a tutelare i propri interessi. Se questo è vero, in occasione del precedente del 1989 le sezioni unite hanno correttamente escluso che il creditore fosse legittimato ad esercitare lo ius variandi37: mentre in prima istanza l’appaltatore aveva domandato al committente l’adempimento e la corresponsione degli interessi deducendo il ritardo maturato nel pagamento del prezzo, in sede di gravame aveva chiesto la risoluzione del contratto allegando a fondamento della domanda circostanze ulteriori – ancorché non sopravvenute nel corso del processo – quali «l’unilaterale sospensione dei lavori» da parte della stazione appaltante e i «ritardi nella liberazione delle garanzie fideiussorie». In definitiva, come la domanda di adempimento non può limitare l’esercizio dell’azione di risoluzione, così non può agevolarla, svincolandola dal rispetto del regime delle preclusioni in assenza di un’idonea ragione giustificativa. Il creditore può dedurre a fondamento della domanda di risoluzione il medesimo inadempimento allegato alla domanda di adempimento, e rinnovatosi nel corso del giudizio, così come fatti sopravvenuti nel corso del processo (o dei quali nel corso del processo è sopravvenuta la conoscenza). Non può invece dedurre fatti non allegati all’azione di adempimento e da lui conosciuti o agevolmente conoscibili: fatti sulla base dei quali, valutando più accuratamente il rimedio maggiormente idoneo a tutelare i suoi interessi, avrebbe potuto esercitare l’azione di risoluzione notificando l’atto di citazione anziché nel corso del processo. Concepito come un prezioso strumento per adeguare l’assetto dei rimedi alla situazione che si evolve nel corso del giudizio, lo ius variandi diverrebbe altrimenti espressione di un privilegio, in virtù del quale il contraente deluso, svincolato dal regime delle preclusioni, può mutare la domanda inizialmente proposta sulla base di una diversa valutazione di opportunità. Il regime processuale dei fatti dedotti a fondamento della domanda di risarcimento (e di quella di risoluzione) Tanto i fatti sopravvenuti dedotti a fondamento della domanda di risoluzione proposta in esercizio dello ius variandi quanto il danno di cui il creditore chiede il risarcimento contestualmente ad essa devono essere allegati e provati. È da valutare, allora, come questo possa avvenire quando si sono verificate le preclusioni che scattano a seguito della scadenza dei termini assegnati dal giudice nel corso della prima udienza di trattazione (art. 183, 6° e 7° comma c.p.c.). Le sezioni unite ritengono che come il diritto di ottenere la risoluzione dopo aver domandato l’adempimento, così il diritto di conseguire il risarcimento del danno derivante dallo scioglimento del contratto non possa essere pregiudicato dalle preclusioni previste dalla disciplina processuale. Le parti sono legittimate, rispettivamente, a chiedere la risoluzione e il risarcimento e ad allegare e provare i fatti idonei a giustificare il rigetto delle corrispondenti domande. La legge svincola l’azione di risoluzione dal regime delle preclusioni, e così la domanda di risarcimento che ad essa accede; nello stesso modo, per un’elementare esigenza di rispetto del contraddittorio tra le parti, devono ritenersi svincolate dalle preclusioni previste dalla disciplina processuale le controallegazioni e le controdeduzioni del debitore convenuto in giudizio38. La sentenza non indica le disposizioni del codice di rito che possono essere invocate per giustificare le allegazioni e le prove relative alle nuove domande; essa si limita ad invocare «il doveroso esercizio dei poteri di direzione del processo da parte del giudice». La soluzione sembra coincidere con quella indicata da una voce dottrinale, che ipotizza la riapertura dei termini per le allegazioni e le deduzioni istruttorie previsti dall’art. 183, 6° comma c.p.c.39 Viene invece espressamente escluso il ricorso alla rimessione in termini (art. 153, 2° comma c.p.c.), pure ipotizzato in dottrina, assumendo a presupposto l’applicabilità del regime delle preclusioni40. Secondo la Corte, infatti, non solo le domande di risoluzione e risarcimento, ma anche le allegazioni e le deduzioni istruttorie relative ad esse si sottraggono alle preclusioni previste dal codice di rito: la corrispondente attività processuale costituisce oggetto di un diritto il cui esercizio non può essere condizionato da un provvedimento discrezionale del giudice qual è quello che dispone la rimessione in termini. A seguito delle domande di risoluzione e risarcimento, dunque, il giudice è tenuto ad assegnare alle parti nuovi termini per lo svolgimento delle attività processuali relative ad esse (allegazioni e deduzioni istruttorie). Quando lo ius variandi non è espressamente previsto dalla legge. La conversione della domanda di adempimento in quella di risarcimento. Fino a questo momento, commentando la motivazione della sentenza, abbiamo concentrato l’attenzione sullo ius variandi previsto dalla legge (art. 1453, 2° comma c.c.) e sull’ammissibilità della domanda di risarcimento proposta, nel corso del giudizio, contestualmente a quella di risoluzione. Per completare il quadro consideriamo ora altre ipotesi, non espressamente regolamentate, in cui il contraente deluso muta la domanda per mezzo della quale ha attivato uno dei rimedi previsti dall’art. 1453 c.c. Se ne desume un dato significativo: nel diritto applicato, non sempre l’ammissibilità della domanda di risarcimento proposta nel corso del processo presuppone il contestuale esercizio dell’azione di risoluzione. Secondo un orientamento giurisprudenziale consolidato, che trova riscontro in dottrina41, proposta in un primo momento domanda di risarcimento il creditore non può chiedere la risoluzione42. La conclusione è condivisibile. Qui non si tratta, come avviene nella sentenza in epigrafe, di adottare un’interpretazione idonea a preservare la valenza precettiva di un’espressa disposizione di legge; ammettendo la proposizione di una domanda nuova in assenza di un qualsivoglia fondamento normativo si apporterebbe una deroga affatto arbitraria all’ordinamento processuale. Se poi si adotta una prospettiva sostanziale, incentrata sugli interessi delle parti, appare evidente che il mutamento della domanda di risarcimento in quella di risoluzione può compromettere l’affidamento del debitore nell’attuazione dello scambio, ed in particolare nella conservazione della prestazione ricevuta. Non si ripropone, qui, l’esigenza che giustifica la variazione della domanda di adempimento in quella di risoluzione: quella di adeguare i rimedi esperibili dal contraente deluso all’inadempimento rinnovatosi nel corso del giudizio o alla sopravvenuta conoscenza di nuovi fatti. Chiedendo in prima battuta il risarcimento, il creditore non manifesta interesse per l’attuazione del rapporto, in quanto assume che l’inadempimento sia definitivo: la successiva domanda di risoluzione non è giustificata dal perdurante inadempimento del debitore (né dalla sopravvenuta conoscenza di nuove circostanze), ma risponde ad una semplice valutazione di opportunità in ordine al rimedio che appare maggiormente idoneo a tutelare i propri interessi. Si ammette, invece, che formulando l’atto di citazione il creditore possa chiedere l’adempimento e in via subordinata il risarcimento del danno, optando poi per la domanda di risarcimento nel corso del processo, una volta accertato che l’inadempimento del debitore convenuto in giudizio perdura o è divenuto definitivo43. Quando “in prima battuta” il creditore si è limitato a chiedere l’adempimento, è da valutare se possa successivamente domandare il risarcimento del danno che rappresenta il valore della prestazione senza esercitare contestualmente l’azione di risoluzione. Sempre nell’ipotesi in cui la domanda di adempimento proposta con l’atto di citazione non sia accompagnata da alcuna subordinata, è da verificare se il giudice – una volta accertato l’inadempimento definitivo del debitore convenuto in giudizio – possa condannarlo a risarcire il danno senza violare il principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (art. 112 c.p.c.). In giurisprudenza, si delinea un orientamento favorevole ad ammettere il mutamento della domanda, cioè il passaggio dal rimedio specifico (azione di adempimento) a quello per equivalente (risarcimento del danno) senza il contestuale esercizio dell’azione di risoluzione: il contratto non si scioglie, e la prestazione di cui il creditore ha inizialmente domandato l’esecuzione viene convertita in una somma di denaro44. Il giudice, correlativamente, può accogliere la domanda di risarcimento senza violare il principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato45. La compatibilità di tale soluzione con la disciplina processuale viene argomentata qualificando il risarcimento del danno quale «surrogato legale» dell’adempimento coattivo46. La domanda di risarcimento proposta nel corso del giudizio non è nuova, in quanto implicita in quella di adempimento; alla relazione di accessorietà istituita tra i due rimedi consegue che se la prestazione diventa impossibile o l’inadempimento diviene altrimenti definitivo il creditore e il giudice possono, rispettivamente, chiedere il risarcimento del danno ed accogliere la relativa azione. Come risulta dalla lettura delle motivazioni, le ragioni che giustificano la conversione dell’adempimento nel risarcimento si identificano con quelle in considerazione delle quali il legislatore ammette il mutamento della domanda di adempimento in quella di risoluzione (art. 1453, 2° comma c.c.): si vuole favorire l’adattamento dei rimedi esperibili dal contraente deluso al rinnovarsi dell’inadempimento nel corso del processo e alla sopravvenuta conoscenza di nuove circostanze. La giurisprudenza, infatti, ammette il mutamento della domanda di adempimento in quella di risarcimento quando nel corso del processo il creditore apprende che la prestazione attesa è stata alienata o distrutta, o il debitore convenuto in giudizio permane inadempiente sebbene con l’atto di citazione sia stato chiaramente sollecitato a eseguirla. Per contro, l’azione di risarcimento esercitata nel corso del giudizio viene ritenuta inammissibile, in quanto nuova, quando la variazione non è determinata dall’impossibilità della prestazione verificatasi (o manifestatasi) nel corso del processo, né è giustificata dal perdurante inadempimento del debitore convenuto in giudizio47: in questa ipotesi, infatti, la domanda avrebbe potuto essere proposta in prima battuta, in quanto i fatti dedotti a sostegno di essa erano già conosciuti o conoscibili dall’attore nel momento in cui ha notificato alla controparte l’atto di citazione chiedendo la sua condanna ad adempiere. Date queste condizioni, la conversione dell’azione di adempimento in quella di risarcimento non è giustificata dall’esigenza di adeguare il rimedio applicato alla sopravvenuta conoscenza di nuovi fatti, o al rinnovato inadempimento del debitore convenuto in giudizio, ma riflette semplicemente una diversa valutazione di opportunità compiuta dall’attore: correttamente, dunque, il giudice esclude il mutamento della domanda. Resta da valutare la rilevanza applicativa di tale ius variandi di creazione giurisprudenziale. Talvolta esso risponde a una ragione di carattere equitativo, qual è quella di evitare che il contraente deluso risulti eccessivamente penalizzato dalla sua condotta processuale. Dopo aver domandato l’adempimento, egli avrebbe potuto chiedere la risoluzione del contratto e il risarcimento del danno, come il capoverso dell’art. 1453 c.c. gli consente di fare, ma si concentra esclusivamente sul secondo rimedio. Stante l’inadempimento definitivo del debitore convenuto in giudizio, che renderebbe inutile una sua condanna ad adempiere, la giurisprudenza ammette che il creditore possa ottenere il risarcimento del danno – transitando dalla tutela in forma specifica a quella per equivalente – anche se non ha domandato la risoluzione, come pure avrebbe potuto fare in base al dettato normativo. Con ogni probabilità, rispondono a tale esigenza di carattere equitativo le sentenze che ammettono il mutamento della domanda di adempimento in quella di risarcimento quando il promittente alienante convenuto in giudizio dal promissario acquirente ha alienato a terzi il bene promesso in virtù di un preliminare di vendita immobiliare48. L’attore che in prima battuta ha chiesto il trasferimento coattivo dell’immobile ai sensi dell’art. 2932 c.c. avrebbe potuto domandare la risoluzione del contratto e il risarcimento del danno in esercizio dello ius variandi previsto dalla legge; essendosi invece limitato a chiedere il risarcimento del danno, e risultando impossibile il trasferimento del bene originariamente domandato, il giudice accoglie la domanda proposta nel corso del giudizio per sollevare l’attore dall’onere di intraprendere un nuovo processo. In altri casi, invece, il creditore che inizialmente ha chiesto l’adempimento domanda il risarcimento del danno “in sostituzione della prestazione” perché non può o non vuole ottenere la risoluzione. Il mutamento della domanda di adempimento in quella di risarcimento, allora, è funzionale alla realizzazione di un assetto di interessi incompatibile con lo scioglimento del contratto. Talvolta il creditore non può conseguire la risoluzione, perché la prestazione di cui ha inizialmente chiesto l’adempimento ha una rilevanza marginale nell’economia del contratto49, o perché – come avviene in relazione alla garanzia per i vizi dell’opera appaltata (art. 1668, 2° comma c.c.) – il legislatore limita la risoluzione al verificarsi di alterazioni particolarmente gravi. Date queste condizioni, quando a seguito della domanda di adempimento il debitore convenuto in giudizio permane inadempiente il creditore può ottenere solo il risarcimento del danno, senza essere legittimato a conseguire la risoluzione del contratto. In quest’ottica, e del tutto opportunamente, si ammette che il committente possa ottenere il risarcimento del danno se a seguito della domanda con cui ha chiesto l’eliminazione delle difformità e dei vizi dell’opera l’appaltatore non provvede a correggerli50: la risoluzione del contratto postula che l’opera sia «del tutto inadatta alla sua destinazione», sicché quando non si verifica tale evenienza il committente deve potersi orientare verso il risarcimento del danno senza chiedere contestualmente lo scioglimento del rapporto. Accade anche che pur sussistendo i presupposti della risoluzione il contraente fedele non voglia conseguirla: se la prestazione dovuta non ha carattere pecuniario ed egli si è organizzato nella prospettiva di dismetterla, lo scioglimento del contratto può avere implicazioni sfavorevoli. In particolare, la restituzione della prestazione eseguita può comportare la necessità di sostenere costi di gestione e di transazione assai rilevanti, che il contraente fedele non intende ulteriormente affrontare: si pensi ad un terreno che, tornato di proprietà dell’alienante, quest’ultimo si trova costretto ad amministrare e trasferire nuovamente a terzi, o a un grosso quantitativo di merce che, restituito al venditore, egli non sa dove custodire avendo smantellato il magazzino dove in precedenza l’aveva depositato. Talvolta, inoltre, le restituzioni conseguenti alla risoluzione possono essere di difficile determinazione, in quanto i comportamenti tenuti dalle parti in attuazione del rapporto contrattuale alterano la fisionomia delle prestazioni originariamente eseguite: la scelta di convertire la domanda di adempimento in quella di risarcimento senza chiedere la risoluzione si giustifica, allora, non solo in quanto più confacente agli interessi dell’attore, ma anche nell’ottica di una più agevole “amministrazione” dei rimedi che reagiscono all’inadempimento. In giurisprudenza, non a caso, il mutamento della domanda di adempimento in quella di risarcimento risulta attestata in relazione a contratti preliminari di permuta di cosa presente (terreno) contro cosa futura (edificio o porzione di edificio destinato a sorgere su di esso)51. Se il terreno viene regolarmente alienato e il costruttore edifica su di esso ma non trasferisce alla controparte l’immobile o la porzione promessa, è probabile che l’alienante non sia interessato ad ottenere la risoluzione e la conseguente restituzione del suolo: oltre a sostenere gli oneri relativi alla gestione di un bene che confidava di aver definitivamente trasferito a terzi, egli sarebbe tenuto a indennizzare il costruttore in base alla disciplina dell’accessione (art. 936 c.c.) e, in un secondo momento, a sostenere i costi transattivi necessari per trasferire a terzi quella porzione dell’immobile che eccede le sue reali esigenze. Al verificarsi di queste condizioni, il risarcimento del danno “in sostituzione della prestazione” integra opportunamente la tutela offerta dalla legge al contraente deluso, e così la legittimazione a mutare la domanda di adempimento in quella di risarcimento nel corso dello stesso processo. Se a seguito della domanda di adempimento il debitore convenuto in giudizio non esegue la prestazione, al creditore si prospetta, ai termini dell’art. 1453 c.c., una difficile alternativa. Può scegliere di proseguire nell’esercizio dell’azione di adempimento, con il rischio di non conseguire la prestazione divenuta nel frattempo impossibile o di ottenerla dopo un considerevole periodo di tempo; o invece optare per la risoluzione, con la conseguenza di dover gestire la prestazione eseguita in attuazione del contratto e disporre nuovamente di essa: prestazione rispetto alla quale ha invece interesse alla definitiva dismissione, a causa dei costi di gestione e di transazione ad essa inerenti. Ebbene, il mutamento dell’azione di adempimento in quella di risarcimento consente di eludere entrambi gli inconvenienti indicati. Se a seguito della prima domanda il debitore convenuto in giudizio non esegue la prestazione entro un ragionevole periodo di tempo, il creditore può ottenerne l’equivalente pecuniario, evitando, così, di sostenere nell’immediato i costi relativi alla sua gestione e (ri)allocazione sul mercato. Si tratta di un interesse meritevole di tutela, non potendo la parte inadempiente costringere quella fedele a sostenere costi da cui quest’ultima ritiene ragionevolmente di essere esonerata a seguito della conclusione del contratto: costi che d’altra parte sono difficilmente quantificabili con precisione, risultando così elevato il rischio di una sottostima del danno da risoluzione52. Tale interesse appare, inoltre, particolarmente intenso, come denota il fatto che per soddisfarlo il creditore si espone a rischi che non avrebbe assunto esercitando l’azione di risoluzione. Per riprendere l’esempio del preliminare di permuta di terreno contro (porzione di) edificio, la tempestiva trascrizione della domanda di risoluzione assicura all’alienante la restituzione del terreno, mentre il risarcimento del danno in sostituzione della prestazione lo espone al rischio dell’insolvenza del costruttore: se ciononostante l’alienante non chiede la risoluzione, ma il pagamento dell’equivalente pecuniario dell’edificio non trasferito, questo denota che l’esigenza di essere esonerato dai costi di gestione della prestazione dismessa è intensamente avvertita. Nella casistica giurisprudenziale, la conversione della domanda di adempimento in quella di risarcimento risulta giustificata vuoi dall’impossibilità della prestazione derivante da causa imputabile al debitore53, vuoi dal perdurante inadempimento del medesimo, che anche a seguito della notificazione della domanda non esegue od offre la prestazione54. Trova riscontro su questo terreno l’opinione dottrinale in base alla quale la definitività dell’inadempimento necessaria per la conversione della prestazione nel suo equivalente pecuniario non ne presuppone necessariamente l’impossibilità; essa si configura anche quando il debitore sia stato costituito in mora (ed alla costituzione in mora è certamente equiparabile la domanda di adempimento) e sia decorso un congruo termine senza che la prestazione sia stata eseguita55. 1 L’ordinanza che prelude all’assegnazione della questione alle sezioni unite (Cass., sez. II, 9 agosto 2013, n. 9148) è pubblicata in questa rivista, 2014, 125, con nota di C. De Menech, Mutamento della domanda di adempimento in quella di risoluzione del contratto e pretesa risarcitoria avanzata in occasione della mutatio libelli. 2 Cfr. G. Gabrielli, Proponibilità delle domande risarcitoria e restitutoria in corso di giudizio purché congiuntamente con quella di risoluzione del contratto inadempiuto, in Riv. dir. civ., 2012, I, 597. 3 Cfr. Cass., 31 ottobre 2008, n. 26325, in Rep. Foro it., 2008, Contratto in genere, 477; Cass., 18 febbraio 1989, n. 962 (obiter), in Giust. civ., 1989, I, 1049, in Arch. civ., 1989, 483, in Riv. dir. proc., 1990, 876, con nota di F. Rota, Dalla domanda di adempimento a quella di risoluzione; Cass., 19 novembre 1963, n. 2995, un estratto della quale è riportato nella motivazione della sentenza in epigrafe. 4 Cfr. Cass., 13 dicembre 2010, n. 25159, per esteso in Pluris, dove, peraltro, l’ammissibilità della domanda di risarcimento viene giustificata sulla base di un’argomentazione di carattere processuale che non appare condivisibile. Essendo state le domande di risoluzione del contratto e risarcimento del danno proposte in esercizio dello ius variandi entro la prima udienza di trattazione, e risultando dedotti a fondamento di esse gli stessi fatti allegati all’azione di adempimento inizialmente esercitata, il giudice ritiene essersi verificata una semplice emendatio libelli, come tale compatibile con la disciplina processuale (art. 183 c.p.c.): in quanto fondate sulla medesima causa petendi, in altri termini, quelle di risoluzione e risarcimento non costituirebbero domande nuove, ma semplici modificazioni dell’azione di adempimento esercitata con l’atto di citazione. È da ritenere, invece, che avendo oggetto diverso da quella di adempimento le domande di risoluzione e risarcimento debbano essere ritenute nuove, sicché anche se proposte entro la prima udienza di trattazione la loro ammissibilità merita di essere argomentata sulla base non tanto della disciplina processuale, quanto del disposto dell’art. 1453, 2° comma c.c. Nella giurisprudenza di merito v., in senso favorevole all’ammissibilità della domanda di risarcimento proposta contestualmente all’esercizio dello ius variandi, TAR Lombardia, 18 aprile 2013, n. 365, per esteso in Pluris; Trib. Foggia, 20 settembre 2011, per esteso in Pluris; Trib. Ruvo di Puglia, 2 ottobre 2009, per esteso in Pluris. 5 Si allude a Cass., 2 luglio 2013, n. 16556, in Rep. Foro it., 2013, Contratto in genere, 343 (la domanda di risarcimento del danno proposta contestualmente a quella di risoluzione viene dichiarata inammissibile perché – essendo applicabili alla controversia le norme processuali anteriori alla novella del 1990 – il convenuto non aveva accettato il contraddittorio in relazione ad essa; l’ulteriore motivo con cui la parte inadempiente sosteneva l’inammissibilità della domanda di risarcimento in quanto nuova viene dichiarato assorbito, richiamandosi tuttavia in modo del tutto incidentale il precedente di Cass. 870/2012, citato alla nota seguente, contrario all’ammissibilità della domanda); Cass., 14 marzo 2013, n. 6545, per esteso in Pluris (la controversia scaturisce da un preliminare di permuta di un terreno, regolarmente trasferito, contro un edificio destinato a sorgere su di esso: dopo aver preteso in prima battuta, ai sensi dell’art. 2932 c.c., il trasferimento coattivo dell’edificio promesso, nel corso del giudizio il proprietario del terreno chiede in via subordinata la condanna generica del costruttore al risarcimento del danno derivante dall’inadempimento senza domandare contestualmente la risoluzione del contratto; la subordinata con cui viene chiesta la condanna generica a risarcire il danno viene dichiarata inammissibile in quanto nuova: il giudice osserva che essa non risulta ancorata all’esercizio dello ius variandi previsto dalla legge – non avendo l’attore chiesto la risoluzione del contratto – ed afferma che la domanda di adempimento può essere convertita in quella di risoluzione, ma non in quella di risarcimento); Cass., 18 gennaio 2008, n. 1003, in Rep. Foro it., 2008, Contratto in genere, 481 (dopo aver chiesto in un primo momento il trasferimento coattivo dell’immobile ai sensi dell’art. 2932 c.c., il promissario acquirente domanda la risoluzione del contratto e il risarcimento del danno, allegando a fondamento di entrambe le azioni la violazione dell’obbligo di trasferire il bene «libero da garanzie reali o da altri vincoli»; il giudice osserva che la domanda di adempimento inizialmente proposta non può essere convertita in quella di risoluzione in quanto l’attore ha dedotto a fondamento di essa un fatto diverso da quello allegato all’azione di adempimento: fatto che, pure, «in quanto non sopravvenuto nel corso del processo… avrebbe potuto essere dedotto con l’atto introduttivo»; il rigetto della domanda di risarcimento proposta dall’attore risulta, dunque, giustificato dal fatto che il suo presupposto non risulta integrato, in quanto lo ius variandi non è stato validamente esercitato: essendo questa la ratio decidendi sostanziale della sentenza, il giudice aggiunge che – a differenza della domanda di restituzione delle prestazioni eseguite – quella con cui si chiede il risarcimento del danno, in quanto autonoma da quella di risoluzione, non può essere proposta nel corso del giudizio). 6 Cfr. Cass., 23 gennaio 2012, n. 870, in Rep. Foro it., 2012, Contratto in genere, 595. Nella giurisprudenza di merito, appare orientato in senso contrario all’ammissibilità della domanda di risarcimento proposta contestualmente all’esercizio dello ius variandi Trib. Reggio Emilia, 25 novembre 2005, in Pluris (s.m.), che, pure, ritiene il creditore legittimato ad ottenere la restituzione della prestazione eseguita. 7 Cfr. Cass., 31 agosto 2005, n. 17562, in Nuova giur. civ. comm., 2006, I, 689, con nota di M. Cuccovillo, Spese sostenute dalla parte non inadempiente: tra risoluzione del contratto per inadempimento e interesse negativo, ed in Corr. giur., 2005, 1684, con nota di V. Mariconda, Risoluzione per inadempimento del contratto preliminare di compravendita e danno risarcibile. 8 In questi termini v. Cass., 17 ottobre 2002, n. 14744, in questa rivista, 2003, 877, con nota di C. Romeo, Risoluzione per inadempimento e spese sostenute dalla parte adempiente. 9 Cfr. A. Luminoso, in A. Luminoso, U. Carnevali, M. Costanza, Della risoluzione per inadempimento, Artt. 1453-1454, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1990, 352 ss. 10 Cfr. A. Luminoso, in A. Luminoso, U. Carnevali, M. Costanza, Della risoluzione per inadempimento, cit., 355. 11 Cfr. A. Luminoso, in A. Luminoso, U. Carnevali, M. Costanza, Della risoluzione per inadempimento, cit., 359. 12 Cfr. P. Trimarchi, Il contratto: inadempimento e rimedi, Milano, 2010, 103; Id., Interesse positivo e interesse negativo nella risoluzione del contratto per inadempimento, in Riv. dir. civ., 2002, I, 647 s. 13 Viene così disatteso l’orientamento prevalente nella giurisprudenza anteriore, incline ad ammettere il mutamento della domanda: cfr. Cass., sez. un., 14 gennaio 2009, n. 553, in questa rivista, 2009, 779, con nota di F. Torrasi, Caparra confirmatoria e rimedi per la parte non inadempiente; in Corr. giur., 2009, 333, con note di A. Palma, La (in)compatibilità della domanda giudiziale di ritenzione della caparra (o di richiesta del suo doppio) con i vari modi di risoluzione del contratto, diversi dal recesso ex art. 1385, comma 2 c.c. e di M. Ruvolo, Le sezioni unite mutano il loro “granitico” orientamento in tema di diffida ad adempiere e di rinuncia all’effetto risolutorio; in Danno resp., 2009, 625, con nota di M. Dellacasa, Caparra confirmatoria e disponibilità dell’effetto risolutorio; in Giur. it., 2009, 1114, con nota di G. Sicchiero, Indisponibilità dell’effetto risolutivo stragiudiziale del contratto (artt. 1454, 1456 e 1457 c.c.); in Giust. civ., 2009, I, 1294, con nota di D. Amoroso, In tema di caparra confirmatoria: intervento delle sezioni unite; in Nuova giur. civ. comm., 2009, I, 680, con nota di C. Leggieri, Caparra confirmatoria ed inadempimento: inammissibilità del recesso nel caso di preventiva domanda di risoluzione e risarcimento del danno; in Resp. civ., 2009, 604, con nota di F. Toschi Vespasiani e L. Fantechi, La caparra confirmatoria: tra recesso e risoluzione per inadempimento, le sezioni unite fanno il punto sulle tutele ex art. 1385 c.c.; in Resp. civ. prev., 2009, 1089, con nota di E. Lucchini-Guastalla, Risoluzione del contratto e irrinunciabilità dell’effetto risolutorio. Ulteriori commenti si devono a M. Cognolato, La caparra confirmatoria e la «rinuncia» all’effetto risolutorio secondo le sezioni unite, in Obbl. contr., 2010, 107; A. Di Majo, Le tutele contrattuali, Torino, 2009, 222 ss.; E. Lucchini Guastalla, Caparra confirmatoria, recesso e risoluzione del contratto, in Riv. dir. civ., 2009, II, 327; G. Pardi, Brevi riflessioni in tema di rapporti tra caparra confirmatoria e azione risarcitoria, in Giust. civ., 2010, I, 671; V. Viti, La disponibilità dell’effetto risolutorio nella diffida ad adempiere, in Giur. it., 2009, 2416. Per una valutazione dell’impatto della sentenza sulla giurisprudenza posteriore v., volendo, M. Dellacasa, Caparra confirmatoria, risarcimento ed altri rimedi: come stabilizzare la giurisprudenza ?, in Nuova giur. civ. comm., 2012, II, 580 ss. 14 Cfr. M. Dellacasa, Inadempimento e affidamento del contraente deluso: una riflessione su risarcimento e caparra, in Riv. dir. priv., 2013, 203 ss., spec. 232-236. 15 Perviene a tale conclusione la stessa Cass., sez. un., 14 gennaio 2009, n. 553, cit. 16 Cfr. P. Trimarchi, Interesse positivo e interesse negativo, cit., 646. 17 La già citata Cass., 23 gennaio 2012, n. 870. 18 V., supra, nota 12. 19 Per un’analoga valutazione v. C. De Menech, Mutamento della domanda di adempimento in quella di risoluzione, cit., 129, la quale ritiene che la sorte della domanda di risarcimento proposta contestualmente all’esercizio dello ius variandi costituisca «un vero e proprio casus omissus», avendo il legislatore «rinunciato tout court a disciplinare la questione». 20 Entrambe le argomentazioni sono modellate sulle riflessioni di G. Gabrielli, Proponibilità delle domande risarcitoria e restitutoria, cit., 603. 21 Si allude nuovamente a G. Gabrielli, Proponibilità delle domande risarcitoria e restitutoria, cit. 601 ss. Non si può dire che il tema sia stato molto frequentato in dottrina: oltre all’Autore appena citato, a favore dell’ammissibilità della domanda di risarcimento proposta in occasione dell’esercizio dello ius variandi si esprimono M. Dellacasa, Adempimento e risarcimento nei contratti di scambio, Torino, 2013, 331 s.; U. Carnevali, La risoluzione giudiziale, in U. Carnevali, E. Gabrielli, M. Tamponi, La risoluzione, nel Tratt. Bessone, XIII, Torino, 2011, 77; A. Luminoso, in A. Luminoso, U. Carnevali, M. Costanza, Della risoluzione per inadempimento, cit., 22 s. In senso contrario si annovera solo un contributo piuttosto risalente: cfr. G. Giannozzi, La modificazione della domanda nel processo civile, Milano, 1958, 219 ss. Per così dire intermedia la posizione di G. Sicchiero, La risoluzione per inadempimento, in Comm. Schlesinger, Artt. 1453-1459, Milano, 2007, 313 s., 458 s.: mentre il contraente che esercita lo ius variandi potrebbe senz’altro esigere la restituzione delle prestazioni eseguite, sarebbe invece legittimato a chiedere il risarcimento del danno solo se lo ha domandato contestualmente all’adempimento. La tesi viene riproposta in uno scritto più recente: cfr. G. Sicchiero, in G. Sicchiero, M. D’Auria, F. Galbusera, Risoluzione dei contratti, nel Tratt. Notariato, diretto da P. Perlingieri, Napoli, 2013, 191 s. 22 Nella medesima prospettiva v., sia pure con accenti diversi, G. Sicchiero, La risoluzione per inadempimento, cit., 269 ss.; F. Rota, Dalla domanda di adempimento alla domanda di risoluzione, cit., 880 ss., 890 ss.; L. Mosco, La risoluzione del contratto per inadempimento, Napoli, 1950, 248. 23 Cfr. G. Tarello, L’interpretazione della legge, in Tratt. Cicu-Messineo, I, 2, Milano, 1980, 369 s. 24 Cfr. G. Tarello, L’interpretazione della legge, cit., 369-371. 25 Cfr. G. Gabrielli, Proponibilità delle domande risarcitoria e restitutoria, cit., 603. 26 Sotto questo profilo – e nonostante le alterazioni riscontrabili nella giurisprudenza recente – la fisionomia dell’eccezione di inadempimento risulta nettamente differenziata da quella della risoluzione: il primo rimedio essendo funzionale a favorire l’attuazione del rapporto contrattuale, il secondo essendo invece finalizzato a provocarne lo scioglimento. Sul punto v., in continuità con un consolidato indirizzo ricostruttivo, A. M. Benedetti, Le autodifese contrattuali, Artt. 1460-1462, in Comm. Schlesinger, Milano, 2011, passim, spec. 23, 49, 58-61; V. Roppo, Il contratto, 2ª ed., in Tratt. Iudica-Zatti, Milano, 2011, 920. 27 Cfr. Cass., sez. un., 6 giugno 1997, n. 5086, in Corr. giur., 1997, 768, con nota di V. Carbone, Il creditore può rifiutare il tardivo adempimento ?, in questa rivista, 1997, 450, con nota di L. Barbiera, Tardivo adempimento del debitore, rifiuto del creditore e risoluzione del contratto, in Giust. civ., 1997, I, 2765, con nota di M. Costanza, Rifiuto legittimo della prestazione da parte del creditore e gravità dell’inadempimento; Cass., sez. un., 9 luglio 1997, n. 6224, in Giust. civ., 1998, I, 825, con nota di F. Picardi, Rifiuto dell’adempimento tardivo e risoluzione del contratto. 28 Nella giurisprudenza successiva al duplice intervento delle sezioni unite a cui si riferisce la nota precedente, cfr. Cass., 2 maggio 2006, n. 10127, in Rep. Foro it., 2006, Contratto in genere, 597; Cass., 5 settembre 2006, n. 19074, in Riv. dir. civ., 2007, II, 509 (s.m.) con commento di M. Dellacasa, Offerta tardiva della prestazione e rifiuto del creditore: vantaggi e inconvenienti di una risoluzione “atipica”, a cui si rinvia per i riferimenti alla giurisprudenza anteriore. 29 Entrambe le argomentazioni riproducono il pensiero di G. Gabrielli, Proponibilità delle domande risarcitoria e restitutoria, cit., 604 s. 30 La tesi appare nuovamente in sintonia con l’opinione di G. Gabrielli, Proponibilità delle domande risarcitoria e restitutoria, cit., 604, il quale osserva che anche se, insieme all’adempimento, il creditore avesse domandato “in prima battuta” «il risarcimento del danno, si sarebbe trattato del danno da ritardo; danno ben diverso da quello che il contraente in regola subisce in dipendenza dello scioglimento imputabile all’altra parte». In senso contrario si è espresso, in dottrina, G. Sicchiero, La risoluzione per inadempimento, cit., 313 s., 458 s.; Id., La risoluzione giudiziale, in G. Sicchiero, M. D’Auria, F. Galbusera, Risoluzione dei contratti, cit., 191 s. Sulla posizione dell’Autore v., supra, nota 21. 31 Cfr. Cass., sez. un., 18 febbraio 1989, n. 962, cit. Nello stesso senso, nella giurisprudenza posteriore, Cass., 27 maggio 2010, n. 13003, in Rep. Foro it., 2010, Contratto in genere, 496; Cass., 6 aprile 2009, n. 8234, in Rep. Foro it., 2009, Contratto in genere, 443; Cass., 18 gennaio 2008, n. 1003, cit.; Cass., 4 settembre 1996, n. 8070, in Rep. Foro it., 1996, Contratto in genere, 410. 32 Cfr. G. Iorio, Ritardo nell’adempimento e risoluzione del contratto, Milano, 2012, 92 ss.; U. Carnevali, La risoluzione giudiziale, cit., 77 s.; M. Dellacasa, Il giudizio di risoluzione, in Tratt. contratto, diretto da V. Roppo, V, Rimedi-2, a cura di V. Roppo, Milano, 2006, 220 s. Per uno spunto in questo senso v. anche V. Roppo, Il contratto, 2ª ed., cit., 894, il quale osserva che la legittimazione, accordata alla parte fedele, di mutare la domanda di adempimento in quella di risoluzione, è «tanto più giustificata, se si considera che i presupposti della risoluzione (come l’importanza dell’inadempimento) possono essere insussistenti al tempo della domanda di adempimento, e sopravvenire in corso di causa». 33 Per i riferimenti giurisprudenziali v., infra, note 44, 45. 34 Cfr. G. Sicchiero, La risoluzione per inadempimento, cit., 308 ss.; U. Carnevali, in A. Luminoso, U. Carnevali, M. Costanza, Della risoluzione per inadempimento, cit., 82 s., testo e nota 9, e 86 (in un’opera successiva, peraltro, lo stesso Autore ammette che possano essere dedotti a fondamento dell’azione di risoluzione fatti sopravvenuti alla notificazione della domanda di adempimento: v., supra, nota 32). 35 V., supra, nota 32. 36 Cfr. G. Gabrielli, Proponibilità delle domande risarcitoria e restitutoria, cit., 598, 604 s.; F. Rota, Dalla domanda di adempimento alla domanda di risoluzione, cit., 877 ss. 37 Si allude nuovamente a Cass., sez. un., 18 febbraio 1989, n. 962, cit. 38 Anche in questo passo della motivazione, le sezioni unite recepiscono l’opinione di G. Gabrielli, Proponibilità delle domande risarcitoria e restitutoria, cit., 605 s. 39 Cfr. G. Sicchiero, La risoluzione per inadempimento, cit., 312-314 e 459. 40 Cfr. G. Iorio, Ritardo nell’adempimento e risoluzione del contratto, cit., 93, il quale ipotizza il ricorso alla rimessione in termini ogni qualvolta il creditore che esercita lo ius variandi sia incorso nelle decadenze previste dal codice di rito (dunque, anche quando a fondamento della domanda di risoluzione proposta nel corso del processo vengono dedotti fatti sopravvenuti). M. Dellacasa, Il giudizio di risoluzione, cit., 220 s., ritiene invece necessario ricorrere a tale procedimento nella sola situazione in cui – scaduti i termini assegnati dal giudice nel corso della prima udienza di trattazione (art. 183, comma 6° c.p.c.) – il creditore abbia appreso fatti preesistenti alla notificazione della domanda di adempimento, ma da lui non conosciuti né conoscibili con l’ordinaria diligenza, essendo invece i fatti sopravvenuti liberamente allegabili e deducibili fino all’udienza di precisazione delle conclusioni nel rispetto delle garanzie del contraddittorio; in grado di appello il creditore non potrebbe, invece, dedurre a fondamento della domanda di risoluzione fatti diversi da quelli allegati all’azione di adempimento esercitata con l’atto di citazione, essendo incompatibile con il principio del doppio grado di giurisdizione la proposizione di una domanda differente da quella notificata in prima istanza tanto per il petitum, quanto per la causa petendi. 41 Cfr. U. Carnevali, La risoluzione giudiziale, cit., 78; Id., in A. Luminoso, U. Carnevali, M. Costanza, Della risoluzione per inadempimento, cit., 82 s.; M. Tamponi, La risoluzione per inadempimento, in Tratt. contratti, diretto da P. Rescigno ed E. Gabrielli, I contratti in generale, 2ª ed., Torino, 2006, 1746 s.; M. Dellacasa, Il giudizio di risoluzione, cit., 223. 42 Cfr. Cass., 27 luglio 2006, n. 17144, in Rep. Foro it., 2006, Contratto in genere, 592; Cass., 26 aprile 1999, n. 4164, in Rep. Foro it., 1999, Contratto in genere, 534; Cass., 9 aprile 1998, n. 3680, in Rep. Foro it., 1998, voce Contratto in genere, 483; Cass., 30 marzo 1984, n. 2119, in Rep. Foro it., 1984, Procedimento civile, 100. 43 Cfr. Cass., 27 luglio 2006, n. 17144, in Rep. Foro it., 2006, Contratto in genere, 592; Cass., 28 luglio 2005, n. 15883, in Rep. Foro it., 2005, Procedimento civile, 200. 44 Cfr. Cass., 28 luglio 2010, n. 17688, in questa rivista, 2011, 136, con nota di M. Mastrandrea, Esecuzione in forma specifica ed offerta di adempimento della controprestazione; Cass., 22 febbraio 2001, n. 2613, in Foro it., 2001, I, 2244, con nota di B. Tassone, La Cassazione tira dritto sulla trasmissibilità agli eredi del diritto di prelazione di origine convenzionale; Cass., 20 agosto 1993, n. 8797, in Arch. civ., 1994, 32; TAR Lombardia, 18 aprile 2013, per esteso in Pluris. V. tuttavia, in senso contrario, Cass., 14 marzo 2013, n. 6545, su cui v., supra, nota 5. 45 Cfr. Cass., 16 marzo 2011, n. 6181, in Foro it., 2011, I, 3376 ed in Giust. civ., 2012, I, 492; Cass., 1° marzo 1995, n. 2346, in Rep. Foro it., 1995, Appalto, 47. 46 In questi termini, in particolare, Cass., 16 marzo 2011, n. 6181, cit.; Cass., 28 luglio 2010, n. 17688, cit.; Cass., 28 luglio 2005, n. 15883, cit.; Cass., 22 febbraio 2001, n. 2613, cit.; Cass., 1° marzo 1995, n. 2346, cit.; TAR Lombardia, 18 aprile 2013, cit. 47 Cfr. Cass., sez. lav., 16 giugno 2009, n. 13953, in Rep. Foro it., 2009, Contratto in genere, 446; Cass., sez. lav., 27 marzo 2004, n. 6161, in Rep. Foro it., 2004, Contratto in genere, 569. 48 Cfr. Cass., 28 luglio 2010, n. 17688, cit.; Cass., 22 febbraio 2001, n. 2613, cit.; TAR Lombardia, 18 aprile 2013, cit. 49 Come nel caso considerato da Cass., 20 agosto 1993, n. 8797, cit. 50 Cfr. Cass., 16 marzo 2011, n. 6181, cit.; Cass., 1° marzo 1995, n. 2346, cit. 51 Cfr. Cass., 28 luglio 2005, n. 15883, cit. V. tuttavia, in senso contrario, Cass., 14 marzo 2013, n. 6545, sintetizzata supra, nota 5. 52 Basti pensare al fatto che non è possibile prevedere se non in modo grossolanamente approssimativo per quanto tempo il contraente fedele sarà tenuto sostenere le spese relative alla gestione della prestazione che a seguito della conclusione del contratto riteneva di aver dismesso, né i costi che dovrà affrontare per collocarla nuovamente sul mercato. 53 I cui estremi si ravvisano nella situazione in cui il promittente alienante abbia trasferito a terzi il bene destinato alla controparte: cfr. Cass., 28 luglio 2010, n. 17688, cit.; Cass., 22 febbraio 2001, n. 2613, cit.; TAR Lombardia, 18 aprile 2013, cit. 54 Cfr. Cass., 16 marzo 2011, n. 6181, cit.; Cass., 28 luglio 2005, n. 15883, cit.; Cass., 1° marzo 1995, n. 2346, cit. 55 Cfr. G. Grisi, Responsabilità del debitore, in Comm. cod. civ. diretto da E. Gabrielli, Torino, 2013, sub art. 1218, 32; Id., La mora debendi nel sistema della responsabilità per inadempimento, in Riv. dir. civ., 2010, I, 78 ss.; Id., Inadempimento e fondamento dell’obbligazione risarcitoria, negli Studi in onore di Davide Messinetti, a cura di F. Ruscello, II, Napoli, 2009, 117, nota 20; A. Di Majo, Le tutele contrattuali, Torino, 2009, 137, nota 27 e 157.Contenuto Riservato!