Antonio Albanese, I contratti conclusi con professionisti non iscritti all’albo.
Sommario: 1. Il compenso dei professionisti non iscritti all’albo. – 2. Impossibilità, per il professionista, di rivalersi per mezzo dei rimedi restitutori. – 3. I casi particolari dell’agente di commercio e del mediatore. – 4. La responsabilità del professionista non iscritto.
1. Il compenso dei professionisti non iscritti all’albo.
L’art. 2231 c.c. esclude il diritto al compenso per le prestazioni esecutive di contratti conclusi con professionisti non iscritti in un albo o elenco, se l’iscrizione era prescritta dalla legge ([1]).
L’albo professionale risponde ad una funzione di interesse generale: per suo tramite le associazioni di categoria svolgono una verifica deontologica dei requisiti di professionalità dei loro iscritti, a garanzia dell’intera categoria professionale (sebbene di ciò si avvantaggino, anche, i futuri contraenti) ([2]).
Ha funzione, inoltre, di garanzia per i fruitori delle prestazioni professionali, dovendosi peraltro distinguere a seconda che si abbia riguardo alle prestazioni esclusive o a quelle non esclusive dei professionisti protetti: «Per le prime l’iscrizione all’albo professionale, con ciò che sta a monte di esso, ubbidisce ad una esigenza di ordine generale: non è solo una garanzia, per il fruitore, di buona qualità della prestazione; è anche una garanzia, per l’intera collettività, di buon funzionamento del settore sociale di pertinenza» ([3]). Per le prestazioni non esclusive, invece, vale a dire per quelle prestazioni che possono essere offerte anche dai non iscritti all’albo professionale, l’iscrizione «vale ad accreditare il professionista di fronte al potenziale fruitore, ponendo in una condizione di vantaggio rispetto al prestatore di analoghi servizi non iscritto» in considerazione della maggiore fiducia riposta dal cliente rispetto ad un professionista iscritto, in virtù del curriculum che quell’iscrizione presuppone. Nel contempo, «viene soddisfatto l’interesse corporativo del professionista iscritto, il quale sa di potere contare sul sostegno e sulla prestazione che gli
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Perché l’art. 2231 trovi applicazione, le prestazioni eseguite dal professionista non iscritto, al di là della qualificazione datane dalle parti, devono costituire attività riservata in via esclusiva agli iscritti negli albi professionali. È poi evidente che la sanzione colpisce anche il professionista che, pur regolarmente iscritto, svolga in settori estranei alla propria categoria attività che la legge prescrive siano esercitate esclusivamente da professionisti iscritti in albi professionali diversi ([5]). Per converso, se l’iscrizione obbligatoria non è prevista, non ha alcun rilievo che trattasi di attività normalmente svolta da professionisti iscritti ([6]).
Particolarmente incisiva, in proposito, è la già cennata distinzione ([7]) fra prestazioni esclusive o tipiche da un lato e prestazioni non esclusive o atipiche dall’altro: le prime sono riservate agli iscritti all’albo, le seconde, sebbene normalmente eseguite da iscritti all’albo, possono essere fornite anche dai non iscritti. Significativo è l’esempio della consulenza legale stragiudiziale: «È valido il contratto di opera intellettuale avente ad oggetto consulenza legale extragiudiziale, stipulato con soggetto non iscritto al locale albo, non riferendosi ad attività che la legge prescrive siano poste in essere esclusivamente da professionisti abilitati all’esercizio di attività professionale; ne consegue che la relativa prestazione contrattuale è lecita e va retribuita pur non potendosi al compenso applicare obbligatoriamente la tariffa professionale» ([8]). Infatti, «la prestazione di opere intellettuali nell’ambito dell’assistenza legale è riservata agli iscritti negli albi forensi solo nei limiti della rappresentanza, assistenza e difesa delle parti in giudizio e, comunque, di diretta collaborazione con il giudice nell’ambito del processo. Al di fuori di tali limiti, l’attività di assistenza e consulenza legale non può considerarsi riservata agli iscritti negli albi professionali e conseguentemente non rientra nella previsione dell’art. 2231 c.c.»([9]).
Può accadere che oggetto del contratto sia l’incarico professionale conferito congiuntamente a due diversi professionisti, soltanto uno dei quali non iscritto nell’albo. In tal caso la nullità che colpisce la pattuizione del compenso, convenuto unitariamente, nei confronti del professionista non iscritto, influisce negativamente anche sulla retribuzione dell’altro soltanto se il committente provi, secondo la regola dell’art. 1419 c.c., che egli non avrebbe concluso il contratto senza quella parte che è colpita da nullità, riguardante l’obbligazione del professionista non iscritto ([10]).
L’ambito operativo dell’art. 2231 c.c. è circoscritto al contratto d’opera professionale e non è estensibile al contratto di lavoro subordinato ([11]). Si tratta di una peculiare sanzione contro il non iscritto all’albo che esercita un’attività intellettuale protetta: è, precisamente, una sanzione civile indiretta ([12]).
Parimenti, e inversamente, non si applica al lavoratore autonomo non iscritto all’albo la tutela della prestazione lavorativa di fatto sancita all’art. 2126 c.c., la quale opera esclusivamente per le prestazioni di lavoro subordinato (e, al massimo, parasubordinato) ([13]): è quanto si desume, oltre che dai lavori preparatori del codice del 1942, dalla collocazione della norma all’interno del titolo relativo al lavoro nell’impresa. Il diritto alla retribuzione deve essere riconosciuto anche al professionista intellettuale non iscritto all’albo solo se ha svolto la propria attività professionale (di fatto) alle dipendenze altrui: in questo caso l’art. 2126 prevale sull’art. 2231 c.c. per effetto del rinvio operato dal primo comma dell’art. 2238 c.c., secondo cui «se l’esercizio della professione costituisce elemento di un’attività organizzata in forma d’impresa, si applicano anche le disposizioni del titolo II». Qui la posizione di inferiorità in cui versa il lavoratore ed il correlativo potere di controllo del datore di lavoro fanno riemergere, al di là della concreta qualifica professionale, le esigenze di tutela su cui si fonda la regola dell’art. 2126 c.c.
Un caso frequente, negli ultimi anni, di esercizio abusivo della professione riguarda le prestazioni riservate agli esercenti la professione sanitaria iscritti negli albi professionali dei medici chirurghi e odontoiatri. Quando queste prestazioni sono eseguite da odontotecnici non iscritti ad alcuno di questi albi, si ha «nullità assoluta, rilevabile d’ufficio, del rapporto contrattuale intercorso tra professionista e cliente, con conseguente venir meno del diritto del professionista alla retribuzione ed il sorgere del diritto del cliente a ripetere quanto già corrisposto» ([14]).
Altro caso frequente è quello del geometra che esercita attività riservate agli iscritti all’albo degli ingegneri ed architetti ([15]).
In tutti questi casi, il contratto concluso col professionista non iscritto è nullo ex art. 1418 c.c. perché contrario ad una norma imperativa, l’art. 2231 c.c. appunto; ma questa nullità produce soltanto la denegatio actionis per il professionista, mentre resta salvo il diritto di ripetere per il cliente che abbia già corrisposto il prezzo della prestazione ([16]). Il cliente, pertanto, da un lato non deve corrispondere alcun corrispettivo, dall’altro, se il professionsita lo ha già percepito, ha diritto alla ripetizione della somma secondo le regole dell’indebito.
Ma poiché la disciplina dell’indebito prevede il ripristino dello status quo ante, occorre interrogarsi sulla sorte della prestazione professionale già svolta: anch’essa dovrà essere restituita? Anche il professionista avrà diritto alla ripetizione (nella specie: per equivalente) o ad essere indennizzato secondo la regola dell’arricchimento ingisutificato?
2. Impossibilità, per il professionista, di rivalersi per mezzo dei rimedi restitutori.
Sono numerosi i casi nei quali il professionista, impedito al conseguimento del pagamento dall’art. 2231 c.c., tenta di rivalersi per altra via, solitamente per mezzo dell’art. 2041 c.c. La tesi avanzata in giudizio può essere così riassunta: nella fattispecie regolata dall’art. 2231 c.c. si assiste ad un fenomeno di arricchimento-impoverimento, perché il professionista si impoverisce per effetto dell’esecuzione di una prestazione che arricchisce il cliente e rimane priva di corrispettivo.
Tuttavia, concedere al professionista di azionare il rimedio restitutorio significherebbe dare ristoro ad un soggetto immeritevole di tutela: ecco perché le Corti, correttamente, escludono «che basandosi sul disposto dell’art. 2041 c.c., il non iscritto all’albo possa vantare alcuna pretesa verso il cliente, in quanto la funzione integratrice e sussidiaria dell’azione di indebito arricchimento viene meno allorché l’ordinamento, per ragioni di ordine pubblico o per altro motivo, neghi tutela ad un determinato interesse» ([17]). Chi non può ottenere il compenso a causa del divieto posto dall’art. 2231 c.c. non ha neanche diritto ad ottenere alcunché sulla base dell’azione generale di arricchimento ([18]).
La tutela restitutoria non può essere concessa a chi, col proprio comportamento, ha dimostrato di non meritarla. Inoltre, sul piano pratico, se il solvens sapesse che, pur non potendo ottenere il corrispettivo pattuito, ha comunque diritto alla restituzione per equivalente, avrebbe minori remore ad eludere il divieto di legge (caduta la sanzione civile, rimarrebbero soltanto le sanzioni di natura amministrativa o penale, variabili a seconda di quale sia la professione abusivamente esercitata).
La protezione della prestazione di fatto, d’altra parte, è un fenomeno eccezionale, peculiare dei casi ove è espressamente previsto o, quanto meno, ove sia ravvisabile chiaramente un’identità di ratio rispetto alle previsioni legali: il professionista intellettuale, allora, potrebbe fruire di una tutela solamente se questa fosse espressamente valutata dall’ordinamento come prevalente sulle ragioni della sanzione; in pratica, laddove l’attività professionale sia stata svolta in forma di lavoro subordinato (art. 2126 c.c.).
In senso contrario si è affermato ([19]) che «ciò di cui si discute è il diritto del professionista al compenso, diritto che presuppone la validità del contratto e che invece non sussiste se il contratto è nullo». Pertanto, il contratto è nullo e la prestazione non dà diritto al compenso, «ma con ciò nulla si dice sul se la prestazione possa essere ripetuta per equivalente». Il legislatore intende escludere che il contratto produca effetto, altra cosa è l’effetto restitutorio ([20]).
Ma a favore dell’esclusione dell’azione di ripetizione può ribattersi che il generale diritto spettante al solvens ex art. 2033 ss. c.c. non può vanificare una norma di portata speciale come quella in esame. Non va sottaciuta, peraltro, la progressiva, discutibile, tendenza giurisprudenziale ([21]) ad operare una sorta di sanatoria del contratto nullo nei casi di prestazioni già eseguite di fare o di far godere (in ragione della loro “irrestituibilità”): così procedendo si utilizza come parametro di riferimento non più il mercato ma il corrispettivo pattuito tra le parti in base ad un contratto invalido (e quindi oggetto di una valutazione negativa da parte dell’ordinamento); sicché la restituzione per equivalente si trasforma, da diritto alla corresponsione dell’oggettivo valore commerciale della prestazione eseguita, in diritto al prezzo convenuto. Ecco allora che la disciplina delle professioni protette e quella dell’indebito, diversamente da come opina la tesi surriportata, non operano più su piani separati, e che la seconda rischia di elidere ogni efficacia della prima.
Peraltro, va esclusa anche l’azione di arricchimento: l’art. 2231 c.c. costituisce, nella specie, una idonea giustificazione della locupletazione. Sotto altro aspetto, se il giudice deve valutare gli interessi in conflitto sotto il profilo dell’ingiustizia del profitto avendo riguardo alla posizione delle parti, non potrà fare a meno di denunciare come indegna della tutela restitutoria la posizione dell’impoverito, il quale per procurarsi un profitto ha contravvenuto ad una norma imperativa.
Tornando allora all’esempio del laureato che si fregi del titolo di dottore commercialista o di titoli similari pur non essendosi iscritto nell’apposito albo, è corretto il ragionamento della Cassazione ([22]) che, una volta vagliato che le attività esercitate (nella specie: tenuta dei libri contabili, registrazione di fatture, predisposizione della modulistica per la dichiarazione dei redditi, chiusura della contabilità e assistenza nell’atto di cessione dell’azienda), formano oggetto della professione di ragioniere e perito commerciale (e di dottore commercialista) e per il loro esercizio è necessaria l’iscrizione all’albo ([23]), conclude che «ai sensi dell’art. 2231 c.c., il professionista che abbia esercitato le suddette attività senza essere iscritto all’albo non può chiedere alcun compenso, neppure in base all’azione generale di arricchimento senza causa» ([24]).
Erra però quella giurisprudenza che, pur negando correttamente ogni possibilità di conseguire un compenso anche sotto il profilo dell’indebito arricchimento, giustifica questa soluzione con la funzione sussidiaria dell’azione generale di arricchimento, la quale verrebbe meno a fronte di una norma negatrice di tutela ad un determinato interesse ([25]). In realtà basterebbe prendere atto che l’arricchimento non è ingiustificato, perché, nella specie, la legge stessa è giusta causa dell’arricchimento ([26]).
Distinta questione nasce se il cliente, sin dall’inizio avvertito della mancata iscrizione all’albo, pur sapendo di non esservi tenuto, decide spontaneamente di corrispondere ugualmente il compenso, in conformità ad un dovere morale. In questo caso potrebbe configurarsi una soluti retentio in favore del professionista, ex art. 2034 c.c. ([27]). La giurisprudenza prevalente, tuttavia, al fine di scoraggiare ogni tentativo di esercizio di attività professionale da parte di soggetti non legittimati, esclude che la fattispecie possa configurare una obbligazione naturale ([28]).
3. I casi particolari dell’agente di commercio e del mediatore.
La Suprema Corte ha accordato l’azione di arricchimento ([29]) all’agente di commercio non iscritto nell’apposito ruolo (dapprima istituito dalla legge 12 marzo 1968, n. 316, e in seguito sostituito da quello ex legge 3 marzo 1985, n. 204) ([30]), valutando che in questa fattispecie non si applica l’art. 2231 c.c.
Riconosciuto, infatti, che il contratto di agenzia concluso con un agente non iscritto all’albo è nullo per violazione di norma imperativa, si ritiene che «al relativo rapporto si applicano i principi generali in materia di prestazioni non dovute di fare, non potendo, rispetto ad esso, trovare applicazione gli art. 2231 e 2126 c.c.» ([31]).
La spiegazione è nel fatto che il ruolo istituito per gli agenti di commercio è ritenuto, per valore e caratteristiche, diverso dagli albi o elenchi cui si applica l’art. 2231 c.c., «in quanto la funzione del ruolo, circoscritta al settore economico, non raggiunge alcuna finalità o funzionalità di carattere sociale e collettivo e non ha rilievo di interesse generale»; ne consegue che «il contratto di agenzia, stipulato da chi non sia iscritto all’apposito ruolo, è nullo per contrarietà a norma imperativa, senza che ad esso possa essere applicata, neppure in situazione di c.d. parasubordinazione, la disciplina eccezionale dettata per la prestazione di fatto di lavoro subordinato» ([32]). Stante perciò l’inapplicabilità dell’art. 2231 c.c. e dell’art. 2126 c.c., riemerge la facoltà di agire per mezzo dell’art. 2041 c.c.
Fino a poco tempo fa, la posizione della giurisprudenza poteva essere così riassunta:
1) un indirizzo minoritario riteneva applicabile l’art. 2126 c.c.([33]).
2) La posizione prevalente era nel senso di considerare nullo, ai sensi dell’art. 1418 c.c., il contratto di agenzia commerciale stipulato con un soggetto non iscritto nel ruolo degli agenti e rappresentanti di commercio, per violazione della norma imperativa di cui all’art. 9 legge n. 204 del 1985; norma, questa, ritenuta non derogabile da parte dei contraenti, in quanto rivolta alla protezione non solo degli interessi della categoria professionale degli agenti, ma degli interessi generali della collettività. Pertanto, l’agente di commercio non iscritto nel ruolo non può agire con l’azione contrattuale per conseguire le provvigioni relative all’attività espletata, né sono applicabili al caso gli artt. 2231 e 2126 c.c., norma quest’ultima riguardante il solo rapporto di lavoro subordinato, non suscettibile di interpretazione analogica per il suo carattere eccezionale. Devono trovare applicazione, invece, i principi in materia di prestazioni non dovute di fare, riconoscendosi all’agente la possibilità di rivalersi nei confronti del preponente ex art. 2041 c.c. con l’azione di arricchimento senza causa.
3) In casi isolati, si riteneva che l’agente potesse agire, anziché in arricchimento, con l’azione di ripetizione dell’indebito ([34]).
4) A volte veniva offerta all’agente una diversa possibilità: quella di invocare la «conversione del contratto di agenzia nullo in un contratto atipico di procacciamento di affari o di mediazione», e di conseguire il compenso per l’opera svolta in relazione a detti contratti ([35]).
La questione sembra destinata a dissolversi nei prossimi anni: infatti, nel 1986, è stata emanata la direttiva del Consiglio 18 dicembre 1986, n. 86/653 Cee, relativa al coordinamento dei diritti degli Stati membri concernenti gli agenti commerciali indipendenti. Nel 1998, la Corte di Giustizia delle Comunità Europee ha deciso che la direttiva osta ad una normativa nazionale che subordini la validità di un contratto di agenzia all’iscrizione dell’agente di commercio in un apposito albo.
Di conseguenza, «il giudice nazionale, nell’applicare disposizioni del diritto nazionale anteriori o successive alla detta direttiva, è tenuto ad interpretarle quanto più possibile alla luce del tenore e delle finalità della direttiva stessa in modo da consentirne un’applicazione conforme agli obiettivi di quest’ultima ([36])».
Fino a pochi anni fa era discusso se la direttiva europea potesse esplicare effetti immediati nel nostro ordinamento in assenza di un adeguamento ad opera del legislatore nazionale. Col tempo si è sempre più fatta strada, però, l’idea della prevalenza del diritto comunitario sul diritto interno e della diretta operatività del primo negli ordinamenti degli Stati membri ([37]).
Il 13 luglio 2000 è intervenuta una nuova decisione della Corte di giustizia (n. 456), con la quale la Corte europea si è occupata, ai sensi dell’art. 177 del trattato Ce, di una questione pregiudiziale relativa appunto all’interpretazione della direttiva in questione, ribadendo con riferimento ad una società il principio già in precedenza affermato nella decisione del 1998.
Di recente, la Cassazione ([38]), ha quindi potuto affermare che l’agente non iscritto al ruolo può esercitare direttamente l’azione contrattuale per ottenere il compenso, senza più necessità di fare ricorso ai rimedi restitutori.
A fronte dell’orientamento prevalso di attribuire all’agente di commercio il diritto alla restituzione ex art. 2041 c.c., si è venuta a creare una discrasia con la figura del mediatore, al quale detto diritto viene negato nonostante il relativo albo sembri invero assolvere identica funzione del ruolo degli agenti di commercio; una funzione, cioè, limitata agli aspetti economici e senza quei connotati pubblicistici che hanno spinto il legislatore a formulare l’art. 2231 c.c. ([39]).
Infatti l’art. 6 della legge 3 febbraio 1989, n. 39, prescrive per i mediatori la stessa regola che l’art. 2231 c.c. appronta per i professionisti in senso stretto: «hanno diritto a provvigione soltanto coloro che sono iscritti nei ruoli» ([40]). Di conseguenza i giudici escludono che il mediatore non iscritto al ruolo possa essere indennizzato della prestazione eseguita grazie all’art. 2041 c.c. ([41]).
La differenza di trattamento tra agente e mediatore giustifica però pienamente l’invito fatto ai giudici a rimeditare questa soluzione ([42]).
4. La responsabilità del professionista non iscritto.
L’art. 348 del codice penale prescrive che chiunque esercita abusivamente una professione, per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato, è punito con la reclusione fino a sei mesi o con una multa.
L’art. 348 c.p. ha natura di norma penale in bianco, in quanto postula, come si evince dalla stessa formulazione del testo normativo (vedasi l’avverbio «abusivamente») l’esistenza di altre disposizioni di legge che stabiliscono le condizioni soggettive ed oggettive in difetto delle quali non è consentito – ed è quindi abusivo – l’esercizio di determinate professioni: trattasi propriamente di altre disposizioni che, essendo sottintese dall’art. 348, sono integrative della norma penale ed entrano a fare parte del suo contenuto quasi per incorporazione, così che la violazione di esse si risolve in violazione della norma incriminatrice ([43]).
La sanzione penale risponde all’obiettivo di salvaguardare i terzi da attività che risultano potenzialmente pericolose se poste in essere da chi è privo di quelle cognizioni tecniche che si presuppongono in chi, dopo aver conseguito la laurea, ha altresì superato l’esame di abilitazione all’esercizio della professione ([44]).
Ma è importante distinguere tra mancanza di abilitazione e mera mancanza di iscrizione all’albo.
La norma penale si applica, a differenza di quella civile, non per effetto dell’esercizio professionale senza previa iscrizione all’albo, bensì per punire l’esercizio professionale in assenza di abilitazione. L’abilitazione conseguita mediante esame di Stato, è presupposto per iscriversi all’albo; il comportamento di chi esegue la prestazione in assenza di abilitazione è più grave del comportamento di chi, una volta ottenuta l’abilitazione, esercita la professione senza iscriversi all’albo ([45]).
Commette un reato, pertanto, il laureato che, senza aver conseguito la prescritta abilitazione, utilizza abusivamente il titolo. Non lo compie, invece, il laureato abilitato ma non iscritto, al quale si applica esclusivamente, sempre che si tratti di prestazioni esclusive, la regola dell’art. 2231 c.c.
Ma ciò vale, ovviamente, anche per tutte quelle attività per il cui esercizio è richiesta un’abilitazione, pur a prescindere da un titolo di studio: commette il reato di cui all’art. 348 c.p., ad esempio, chi esercita abusivamente l’attività di insegnante di snowboard, per la quale occorre la speciale abilitazione prevista per i maestri di sci. È stato così condannato un soggetto che, presentatosi all’albergo dove soggiornavano i potenziali clienti, aveva offerto ad un pubblico generalizzato la possibilità di prendere lezioni di snowboard ad un prezzo economico, qualificandosi come maestro di sci, fornendo l’attrezzatura necessaria, stabilendo un preciso prezzo orario, ed indossando una speciale divisa recante un distintivo alludente all’insegnamento della tecnica sportiva ([46]).
In definitiva, solo le prestazioni compiute senza la prescritta abilitazione ricadono nell’ambito penale, mentre la nullità che affetta le prestazioni compiute da soggetto abilitato ma non iscritto all’albo è soggetta soltanto alla sanzione civilistica della denegatio actionis.
Occorre chiedersi se l’interesse tutelato dal reato di cui all’art. 348 c.p. abbia esclusivo carattere generale. Se così fosse, la sua lesione riguarderebbe in via diretta e immediata la pubblica amministrazione, la cui organizzazione è offesa dalla violazione delle norme che regolano le professioni, mentre solo di riflesso toccherebbe gli interessi c.d. professionali, cioè particolari.
Sul piano della legittimazione attiva questo comporterebbe che gli ordini professionali e le associazioni di categoria, non essendo portatori del predetto interesse generale – oggetto specifico della tutela penale – non possono costituirsi parte civile per tutelare gli interessi morali, e per ciò astratti, della categoria, ma solo per far valere un danno diretto, di carattere patrimoniale. Così ragionando, ad esempio, è stato escluso che l’associazione medici dentisti italiani potesse chiedere il risarcimento del danno morale per l’esercizio abusivo della professione di odontoiatria da parte di odontotecnici ([47]).
Può però obiettarsi che il reato di esercizio abusivo di una professione non lede solo l’interesse dell’amministrazione pubblica (intesa in senso lato) a che la professione stessa sia esercitata da soggetti abilitati, ma anche quello circostanziato e diffuso degli appartenenti alla categoria. Ne deriva che «il danno si riverbera non solo sul piano patrimoniale, ma anche su quello morale, derivando dall’esercizio abusivo della professione, oltre che un pregiudizio economico per la concorrenza sleale operata da non iscritti nell’albo, anche un danno non patrimoniale per la lesione dell’interesse morale a che la professione sia esercitata da soggetti abilitati, in quanto presumibilmente dotati di maggiore preparazione ed esperienza in ragione del superamento dell’esame di abilitazione». E poiché i soggetti abilitati sono unitariamente rappresentati dall’ordine professionale, sembra nel giusto la giurisprudenza che ammette la legittimazione dell’associazione di categoria a costituirsi parte civile nel procedimento penale contro gli autori del reato ([48]).
Un secondo profilo risarcitorio riguarda la responsabilità nei confronti del cliente, e specificamente come incide sulle regole generali il fatto che il danno è stato causato da un soggetto non abilitato o non iscritto: la questione ha particolare rilievo in materia di responsabilità medica. È stato evidenziato ([49]) come con riferimento alla colpa professionale dell’odontotecnico i giudici censurano la condotta di chi abbia praticato un intervento, poi risultato peggiorativo, nonostante sapesse della propria inesperienza in quel settore: «sussiste responsabilità per colpa professionale per imperizia e imprudenza a carico del dentista qualora abbia intrapreso un lavoro impegnativo e rischioso pur sapendo, o dovendo sapere, di non disporre di adeguata preparazione scientifica e capacità tecnica» ([50]). Anche sotto questo aspetto, l’assenza di abilitazione deve essere valutata con maggior severità rispetto alla mancata iscrizione all’albo.
Un ulteriore dato tipizzante la professione medica è questo: non vale, per essa, la distinzione tra prestazioni esclusive (o tipiche) e prestazioni non esclusive (o atipiche); le prestazioni sanitarie, in rapporto al bene collettivo della salute, sono sempre prestazioni esclusive, e sono quindi protette in ogni loro manifestazione ([51]).
[1] Cass., 4 maggio 1994, n. 4330, in Giust. civ. Mass., 1994, p. 609 ed in Riv. arbitrato, 1994, p. 499, con nota di Luiso: «L’art. 2231 c.c., per il suo carattere cogente ed inderogabile, trova applicazione anche negli arbitrati di equità, giacché gli arbitri, se pure debbono giudicare in conformità di questa e non dello stretto diritto, hanno comunque il dovere di osservare le norme di ordine pubblico, dettate in vista di interessi generali e non derogabili dalla volontà delle parti».
[2] Galgano, Alla ricerca delle sanzioni civili indirette, premesse generali, in questa rivista, 1987, p. 536.
[3] Galgano, Le professioni intellettuali e il concetto comunitario di impresa, in questa rivista, 1997, p. 20.
[4] Galgano, ult. op. cit., p. 20.
[5] Sul piano processuale, si è stabilito che qualora il diritto del professionista al compenso, fatto valere in via monitoria, venga contestato dal cliente, con opposizione alla ingiunzione, in relazione al requisito della riconducibilità dell’attività espletata fra quelle alle quali il professionista medesimo è abilitato, incombe a carico di quest’ultimo, in quanto attore in senso sostanziale, di fornire la relativa prova (Cass., 25 maggio 1984, n. 3232, in Giust. civ. Mass., 1984, fasc. 5).
[6] Cass., 18 luglio 1991, n. 8000, in Giust. civ. Mass., 1991, fasc. 7.
[7] Galgano, ult. op. cit., p. 20 e p. 4.
[8] Cass., 7 luglio 1987, n. 5906, in Nuova giur. civ., 1988, I, p. 338 ed in Giust. civ. Mass., 1987, fasc. 7.
[9] Cass., 8 agosto 1997, n. 7359, in Rass. forense, 1998, p. 145.
[10] Cass., 28 aprile 1988, n. 3214, in Giust. civ. Mass., 1988, fasc. 4; Cass., 7 maggio 1980, n. 3012, in Giust. civ., 1980, I, p. 2736.
[11] Cfr., ad es., per un caso di nullità di un contratto di lavoro giornalistico, Cass., sez. lav., 6 aprile 1990, n. 2890, in Giust. civ. Mass., 1990, fasc. 4.
[12] Così Galgano, Alla ricerca delle sanzioni civili indirette, premesse generali, cit., p. 536: «Il prestatore d’opera intellettuale non ha azione per il compenso, e questa è una sanzione prevista a tutela di interessi che non sono certo particolari. Ecco perché è una sanzione, ossia una misura punitiva: non è posta a tutela dell’interesse del cliente, ma a tutela di interessi generali, se si vuole di interessi corporativi, degli interessi della categoria professionale, che l’ordinamento giuridico mostra di avere fatto propri. Certo, chi si trova nella condizione di avere fruito di una prestazione professionale senza doverla pagare ne ritrae un vantaggio, ma la norma non è diretta a soddisfare un suo interesse. Dunque, sanzione civile, che colpisce nel patrimonio il soggetto, ma vera e propria sanzione, con la funzione tipica della sanzione, quale misura afflittiva volta a garantire l’effettività dell’ordinamento giuridico».
[13] Cfr. Dell’Olio, La prestazione di fatto del lavoro subordinato, Padova, 1970; Id., Sulla «inefficacia dell’invalidità» del contratto di lavoro (art. 2126, comma 1°, c.c.), in Studi in onore di Francesco Santoro Passarelli, V, Napoli, 1972, 272; Zago – Garelli, I rapporti di fatto con particolare riguardo al rapporto di lavoro, Padova, 1964; Fedele, Invalidità del contratto di lavoro e prestazione di fatto del lavoro, in Dir. economia, 1958, p. 136 ss.; Caferra, Disciplina dell’indebito e tutela del lavoro, in Riv. dir. civ., 1979, I, p. 321; Montecalvo, Applicabilità dell’art. 2126 c.c. nei casi di prestazione di fatto di lavoro non subordinato, in Giur. it., 1986, IV, p. 366; Albanese, L’invalidità del contratto di lavoro subordinato, in questa rivista, 2005, p. 200.
[14] Cass., 16 ottobre 1995, n. 10769, in Giust. civ., 1996, I, p. 66, ed in Rass. amm. sanità, 1995, p. 417.
[15] Cfr. Cass., 22 giugno 1982, n. 3794, in Riv. giur. edilizia, 1983, I, p. 239. Gli esempi sono numerosi: essendosi ritenuto che la progettazione di un impianto di illuminazione pubblica sul territorio comunale non rientri tra le attribuzioni professionali dei geometri (quali sono indicate tassativamente dall’art. 16 r.d. 11 febbraio 1929 n. 274), ma fra quelle degli ingegneri ed architetti, si è negato il diritto a compenso per l’opera prestata al geometra che aveva espletato siffatto incarico commessogli da un comune (Cass., 5 novembre 1992, n. 11994, in Giust. civ. Mass., 1992, fasc. 11). Cass., 7 maggio 1987, n. 4231, in Giust. civ. Mass., 1987, fasc. 5, ha sancito: «Allorquando un soggetto agisce per ottenere il pagamento del compenso per la prestazione, a favore della controparte, di assistenza tecnico-amministrativa, rientrante nell’ambito delle attività riservate per legge agli iscritti nell’albo dei ragionieri, incombe su di lui l’onere – trattandosi di un presupposto condizionante l’accoglimento della domanda – di produrre in giudizio il certificato di iscrizione in detto albo; nè l’esistenza di tale presupposto può essere desunta dall’iscrizione del professionista nel distinto albo dei revisori ufficiali dei conti, la cui equipollenza con l’albo dei ragionieri è soltanto ipotetica, essendo prevista, sia pure in via eccezionale, la possibilità di iscrizione in esso a prescindere da quella nel correlativo albo professionale».
[16] Cfr. Trib. Milano, 16 maggio 1991, in Giur. it., 1991, I, 2, c. 737.
[17] Cass., 22 giugno 1982, n. 3794, in Giust. civ., 1982, I, p. 2575. Cass., 2 ottobre 1999, n. 10937, in Giust. civ. Mass., 1999, p. 2059, ha ritenuto applicabili i medesimi principi anche quando la prestazione resa sia riferibile ad una società di capitali, per essersi essa assunta contrattualmente tale impegno, a nulla rilevando che la società si sia servita, per l’espletamento di detta attività, di tecnici iscritti ai relativi albi.
[18] Trib. Cagliari, 9 gennaio 1991, in Riv. giur. Sarda, 1991, p. 765. Contra, però, Rescigno, Note a margine dell’ultima legge sulla mediazione, in Riv. dir. comm., 1990, I, p. 250, il quale osserva che la legge si limita a negare l’azione per il compenso al professionista non abilitato. È opinione, pienamente condivisibile, di questo autore (Id., Professioni «protette» e lavoro subordinato, in Dir. e giur., 1996, p. 209 ss.) che, nel caso che le attività protette siano oggetto di un contratto di lavoro subordinato, al professionista lavoratore subordinato si applichi, oltre che l’art. 2231 c.c., anche l’art. 2126 c.c.
[19] Maffeis, Contratti illeciti o immorali e restituzioni, Milano, 1999, pp. 137-152.
[20] Maffeis, op. cit., p. 147, considera inoltre decisivo che soltanto all’art. 2035 c.c. la legge vieta espressamente la restituzione, e poiché l’art. 2035 c.c. è norma eccezionale, occorrerebbe escludere la irripetibilità nei casi, come quello ex art. 2231 c.c., in cui non si ha immoralità. Ma, mi pare, il fatto che la causa turpe sia necessaria affiché operi l’art. 2035 c.c., non dovrebbe escludere che anche per le prestazioni non connotate da immoralità possano sussistere ragioni assolutamente differenti atte a pervenire allo stesso risultato, ossia all’irripetibilità della prestazione.
Esclude correttamentela restituzione Gallo, Arricchimento senza causa e quasi contratti (i rimedi restitutori, Torino, 1996, p. 209, rilevando come questa si risolverebbe in una frustrazione della ratio di cui all’art. 2231 c.c., e aggiungendo (p. 183 s.) che se il solvens eseguisse nella consapevolezza di poter ripetere per equivalente eluderebbe la sanzione della nullità.
Su quest’ultimo punto, ribatte Maffeis, op. cit., p. 148 s., che «anche l’accipiens elude la sanzione della nullità, quando riceve sapendo di non dovere restituire per equivalente». Ritengo però che la legge voglia evitare questo: che il solvens esegua. Ottenuto ciò, d’altronde, il problema dell’accipiens è risolto in radice.
[21] Cfr. Albanese, Il pagamento dell’indebito, Padova, 2005, p. 150 ss., p. 549.
[22] Cass., 5 luglio 1997, n. 6057, in Fallimento, 1997, p. 12077. Analogamente, Cass., 2 dicembre 1993, n. 11947, in Giust. civ. Mass., 1993, fasc. 12, è giunta a negare il rimborso dopo aver vagliato la pertinenza dell’attività espletata all’interno di quelle per cui era richiesta dalla legge l’iscrizione: la S.C. ha confermato la decisione di merito, la quale aveva ritenuto che l’attività consistita nell’approntare la documentazione necessaria per un affidamento bancario, redigendo una relazione sulla gestione di un’azienda ed un’analisi della situazione patrimoniale, con studio e presentazione del bilancio, rientrasse tra le attività professionali esclusivamente riservate agli iscritti nell’albo dei ragionieri ai sensi dell’art. 1 lett. b) e c) del d.P.R. 27 ottobre 1953 n. 1068).
[23] Secondo la previsione di cui all’art. 1, lett. a) e b), del decreto ministeriale concernente l’ordinamento delle dette professioni (d.p.r. 27ottobre1953 n. 1067 e n. 1068).
Galgano, Professioni intellettuali, impresa, società, in questa rivista, 1991, p. 5; Id., Le professioni intellettuali e il concetto comunitario di impresa, cit., p. 6, osserva che ciò che, di norma, fa il dottore commercialista, può liberamente farlo chiunque, poiché la professione del dottore commercialista, sebbene professione protetta, non annovera alcuna prestazione esclusiva. L’affermazione non è in contrasto con la decisione citata nel testo, la quale ammette, infatti, che quelle prestazioni possano essere svolte anche da ragionieri e periti commerciali (purché iscritti ai relativi albi).
[24] Per il caso invece in cui venga concessa l’azione di arricchimento, va comunque sottolineato che la quantificazione dell’indennizzo spettante al professionista va effettuata secondo i criteri fissati dall’art. 2041 c.c., mentre resta esclusa la possibilità di un’applicazione diretta della tariffa professionale, la quale spiega rilievo solo come parametro di valutazione oltre che come limite massimo di quella liquidazione. Cfr. Cass., 27 giugno 1994, n. 6182, in Giust. civ. Mass., 1994, fasc. 6.
[25] Così, ad esempio, Cass., 22 giugno 1982, n. 3794, in Giust. civ., 1982, I, p. 2575.
[26] Sulla considerazione della legge come giusta causa dell’arricchimento rinvio ad Albanese, Ingiustizia del profitto e arricchimento senza causa, Padova, 2005, p. 210 ss. I giudici, sovente, anziché pronunciarsi sulla qualificazione del fatto che è fonte dell’indennizzo, preferiscono riferirsi al nesso di correlazione o alla natura sussidiaria dell’azione; questi requisiti dell’azione, interpretati nella maniera più restrittiva possibile, permettono di rifiutare il temuto rimedio restitutorio senza pronunciarsi sui fattori di ingiustizia. Il risultato, in questi casi, è che si nega la restituzione dell’arricchimento senza sancire se esso è giusto o ingiusto.
[27] Pret. Torino, 16 marzo 1996, in GIUS, 1996, p. 1544: «Il pagamento di provvigioni, effettuato in esecuzione di un contratto di agenzia nullo per difetto di iscrizione all’albo dell’agente, configura un adempimento di obbligazione naturale, con conseguente irripetibilità delle somme spontaneamente pagate».
[28] App. Brescia, 27 maggio 1953, in Corti Brescia e Venezia, 1953, p. 522.
[29] Cass., sez. lav., 19 agosto 1992, n. 9675, in Foro it., 1993, I, c. 428, con nota di Pardolesi, ed in Giust. civ., 1993, I, p. 1583, con nota di D’Amore. Conf.: Cass. lav., 10 giugno 1992, n. 7112, in Giust. civ. Mass., 1992, fasc. 6.
[30] L’art. 9 della legge del 1985, riproducendo l’art. 9 della legge del 1968, sancisce: «È fatto divieto a chi non è iscritto al ruolo di alla presente legge di esercitare l’attività di agente o rappresentante di commercio (…). Chiunque contravviene alle disposizioni della presente legge è punito con (…) sanzione amministrativa».
[31] Trib. Torino, 3 ottobre 1997, in Giur. piemontese, 1997, p. 460. Conforme: Trib. Milano, 31 maggio 1996, in GIUS, 1996, p. 3236, che ha negato il diritto all’agente al pagamento del corrispettivo ex art. 2126 c.c., ma ha ammesso quello all’indennizzo per arricchimento senza causa ove venga fornita la prova dell’arricchimento del datore di lavoro e del depauperamento del lavoratore. Cass., sez. lav., 13 novembre 1991, n. 12093, in Giust. civ. Mass., 1991, fasc. 11: «il contratto di agenzia o rappresentanza commerciale stipulato con soggetto non iscritto nel ruolo istituito dalla l. 12 marzo 1968, n. 316, è nullo, ai sensi dell’art. 9 della legge stessa, per contrarietà a norma imperativa, non per illiceità della causa o dell’oggetto, ed al relativo rapporto non si applicano né l’art. 2231 c.c. né l’art. 2126, comma 1º, dello stesso codice, ma i principi generali in materia di prestazioni non dovute di fare. Pertanto l’agente di commercio non iscritto nel ruolo non ha diritto alle provvigioni relative all’attività espletata, e può agire nei confronti del preponente soltanto ai sensi dell’art. 2041 c.c. per arricchimento senza causa».
[32] Cass., sez. un., 3 aprile 1989, n. 1613, in Nuova giur. civ. commen., 1990, I, p. 1 ed in Foro it., 1989, I, c. 1420.
[33] Cfr. App. Firenze, 23 ottobre 1979, in Giur. it., 1981, I, 2, c. 470: «in difetto di iscrizione dell’agente di fatto nel ruolo per gli agenti e rappresentanti di commercio, il contratto di agenzia è nullo per contrarietà a norme imperative e non già per illiceità della causa o dell’oggetto di esso; al relativo rapporto contrattuale di fatto è applicabile, in via analogica, la regola della inefficacia della invalidità del contratto, dettata per la prestazione di fatto di lavoro subordinato, con conseguente diritto dell’agente di fatto alle provvigioni, sugli affari conclusi per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione, nella misura pattuita, e non già la regola che esclude l’azione per il pagamento della retribuzione della prestazione eseguita dal non iscritto, quando l’esercizio di una attività professionale è condizionato alla iscrizione in un albo od elenco». Conformi: Cass., 2 aprile 1986, n. 2267, in Rep. Foro it., 1986, Agenzia, n. 9; Cass., 26 gennaio 1983, n. 726, in Rep. Foro it., 1983, Agenzia, n. 26; Cass., 15 gennaio 1982, n. 225, in Giur. comm., 1982, II, p. 598; Pret. Pisa, 8 agosto 1980, in Giur. it., 1981, I, 2, c. 456.
[34] Pret. Ancona, 24 ottobre 1989, in Nuovo dir., 1990, p. 785, con nota contraria di Lotito, Contratto di agenzia stipulato da soggetto non iscritto nell’apposito ruolo – Nullità per violazione di norma imperativa – Prestazioni eseguite – Indebito oggettivo – Configurabilità.
[35] Cfr. Cass., 4 novembre 1994, n. 9063, in Contratti, 1995, p. 172, con nota di Franceschelli, in Nuova giur. civ. comm., 1995, I, p. 818, con nota di Bochicchio, in Giust. civ. Mass., 1994, fasc. 11; Pret. Milano, 22 marzo 1995, in GIUS, 1995, p. 2257. Detta conversione è stata invece negata da Cass., sez. un., 12 novembre 1983, n. 6729, in Giust. civ., 1984, I, p. 1546: «il contratto di agenzia stipulato da soggetto non iscritto al ruolo è nullo per violazione di norma imperativa. Detto contratto non può essere convertito in quello di procacciamento di affari né in alcuna altra forma» (Nella specie la questione si poneva nei confronti di una società commerciale).
[36] Corte Giustizia Comunità Europee, 30 aprile 1998, resa nel procedimento C-215 del 1997, Bellone c. Yokohama s.p.a., in Foro it., 1998, IV, c. 193, con nota di Pardolesi ed in Mass. giur. lav., 1998, p. 756, con nota di Bortolotti.
[37] Cfr. sul punto Albanese, Il pagamento dell’indebito, Padova, 2004, p. 879 ss., e le sentenze della Corte di Giustizia europea ivi citate.
[38] Cass., 18 maggio 1999, n. 4817, in Foro it., 1999, I, c. 2542, con nota di A. Palmieri; Cass., 17 aprile 2002, n. 5505, in Giur. comm., 2003, II, p. 467, con nota di Lomonaco, ed in Giust. civ. Mass., 2002, p. 660: «la direttiva 86/653/CEE, relativa al coordinamento dei diritti degli Stati Membri concernenti gli agenti commerciali indipendenti, in quanto incondizionata e sufficientemente precisa nel contenuto, produce effetti diretti nel nostro ordinamento ed impone al giudice nazionale di non applicare l’art. 9 della l. n. 204 del 1985, incompatibile con la normativa comunitaria. Di conseguenza i contratti di agenzia, stipulati con soggetti non iscritti nello specifico ruolo, non possono più considerarsi nulli per violazione di norma imperativa».
[39] Astone, L’arricchimento senza causa, Milano, 1999, p. 165 s.
[40] La stessa regola è prescritta per i mediatori marittimi: «La l. 12 marzo 1968 n. 478, sulla disciplina dei mediatori professionali marittimi, la quale subordina l’iscrizione nei relativi ruoli professionali al possesso di determinati requisiti ed al superamento di esame, secondo modalità da fissare con apposito regolamento di esecuzione, salva l’iscrizione di diritto nei ruoli medesimi dei mediatori marittimi già iscritti nell’albo dei mediatori professionali comuni di cui alla l. 21 marzo 1958 n. 253, comporta, per il periodo intercorrente fra la sua entrata in vigore e l’entrata in vigore del suddetto regolamento di esecuzione (emanato con d.P.R. 4 gennaio 1973 n. 66), che la professione di mediatore marittimo resta riservata agli iscritti nell’albo di cui alla menzionata legge del 1958, con la conseguenza che l’attività di mediazione svolta da soggetti diversi, in quanto priva dell’indefettibile presupposto della iscrizione del ruolo professionale prescritto dalla legge del 1968, non dà azione per il pagamento del compenso (art. 2231 c.c.)» (Cass., 29.7.1983, n. 5238, in Giust. civ. Mass., 1983, fasc. 8).
[41] Trib. Monza, 18.5.1998, in GIUS, 1998, p. 2927.
Cass., 3.11.2000, n. 14381, in Giust. civ. Mass., 2000, p. 2250: «In tema di mediazione, per effetto dell’art. 6, comma 1, della legge n. 39 del 1989, la mancata iscrizione di chi eserciti detta attività nell’apposito albo professionale esclude il diritto alla provvigione, senza che possa essere considerata equivalente alla effettiva iscrizione la mera volontà in tal senso manifestata dal legale rappresentante della società esercente la mediazione. E poiché la norma che prevede la necessità di tale iscrizione è imperativa – come si desume dall’art. 8 della stessa legge, il quale punisce con una sanzione amministrativa l’esercizio della mediazione in assenza di iscrizione nel ruolo, oltre a prevedere, in tal caso, l’obbligo di restituzione alle parti contraenti delle provvigioni percepite – è nulla la contraria pattuizione tra le parti, ai sensi dell’art. 1418, comma 1°, c.c.».
Cass., 17 maggio 1999, n. 4800, in Foro it., 1999, I, c. 2896: «Per effetto dell’integrazione della l. 3 febbraio 1989 n. 39 ad opera del d.m. 21 dicembre 1990 n. 452, recante il regolamento di attuazione della legge, il quale ha previsto una quarta sezione del ruolo dei mediatori destinata agli agenti in servizi vari, nella quale vengono iscritti gli agenti che svolgono attività per la conclusione di affari relativi al settore dei servizi, nonché tutti gli altri agenti che non trovano collocazione in una delle altre tre sezioni precedenti, devono essere iscritti in detta sezione, atteso il suo carattere residuale, in particolare, i soggetti che svolgono attività di intermediazione per i contratti di finanziamento (per i quali è stata successivamente prevista dalla l. n. 108 del 1996 l’istituzione di un apposito albo) con la conseguenza, che in difetto di iscrizione, non compete al mediatore finanziario per l’opera prestata il diritto al compenso (art. 2231 c.c.)».
[42] Astone, op. cit., p. 166.
[43] Così, testualmente, Cass. pen., sez. VI, 5 marzo 2001, n. 16230, in Studium Juris, 2002, p. 104.
Perché possa essere ritenuto sussistente il reato di abusivo esercizio di una professione, tuttavia, non è sufficiente che l’agente non abilitato abbia illegittimamente provveduto alla iscrizione nell’albo professionale, né che egli abbia allestito uno studio, trattandosi di meri atti prodromici ed essendo viceversa necessario almeno un atto concreto in cui l’abusivo esercizio si sia manifestato (Cass. pen., sez. V, 18 febbraio 2002, n. 12177, in D&G – Dir. e Giust., 2002, f. 19, p. 72).
[44] Sulle perplessità in merito all’adeguatezza dell’esame di Stato ai fini di un’adeguata selezione (nonché sul rischio che esso costituisca una barriera corporativa all’accesso alla professione), v. Galgano, Le professioni intellettuali e il concetto comunitario di impresa, cit., p. 14 ss.
[45] Sul punto: Ciocia, L’obbligazione naturale. Evoluzione normativa e prassi giurisprudenziale, Milano, 2000, 157.
[46] È il caso all’attenzione di Trib. Trento, 21 marzo 2002.
[47] Cass. pen., sez. VI, 18 ottobre 1990, in Riv. it. medicina legale, 1991, p. 264. Conf.: Cass. pen., sez. II, 12 ottobre 2000, in Cass. pen., 2001, p. 2346 (nella fattispecie, relativa ad eccezione di incompatibilità del difensore di ufficio al contempo anche persona offesa in quanto iscritto all’ordine professionale asseritamente leso dal reato sotto il profilo morale, la Corte, affermando il principio, ha di conseguenza ritenuto la insussistenza della predetta incompatibilità, atteso che il singolo professionista non ha alcuna legittimazione a partecipare al giudizio nella qualità di persona offesa); Cass. pen., sez. VI, 18 ottobre 1988, in Giur. it., 1989, II, c. 316 ed in Cass. pen., 1989, p. 1983.
[48] Cass. pen., sez. V, 11 luglio 2001, in Resp. civ. prev., 2002, p. 122, con nota di Feola.
Cass. pen., sez. V, 1° giugno 1989, in Cass. pen., 1991, I, p. 743 ed in Riv. pen. Economia, 1990, p. 316, ha riconosciuto l’ammissibilità della costituzione di parte civile dell’associazione medici dentisti italiani, Sezione di Forlì, nei confronti di numerosi odontotecnici della zona imputati del reato di cui all’art. 348 c.p.
App. Trento, 18 dicembre 1985, in Dir. lav., 1986, II, p. 124, dopo aver premesso che integra la fattispecie criminosa di esercizio abusivo di una professione o arte, punita dall’art. 348 c.p., l’ipotesi di chi, non essendo iscritto all’albo dei consulenti del lavoro, svolge, sia pure in misura limitata e marginale, attività di assistenza ai datori di lavoro negli adempimenti in materia di lavoro previdenza ed assistenza sociale dei lavoratori dipendenti (attività prevista espressamente dalla l. 11 gennaio 1979 n. 12, sull’ordinamento della professione di consulente del lavoro), ha affermato che «il consiglio provinciale dei consulenti del lavoro, ente esponenziale degli interessi della categoria dei singoli iscritti all’ordine, è legittimato a costituirsi parte civile per il risarcimento di danni morali connessi al reato di cui sopra».
Pret. Taranto, 25 gennaio 1989, in Riv. pen., 1989, p. 1121, ha affermato la legittimazione a costituirsi parte civile nel procedimento penale per il reato di esercizio abusivo della professione forense l’ordine degli avvocati e procuratori, in quanto istituzionalmente preposto alla tutela degli interessi dell’intera categoria professionale, mentre ha negato che tale legittimazione spettasse al sindacato avvocati e procuratori, in quanto associazione portatrice solo degli interessi dei suoi iscritti.
Cass. pen., sez. V, 1° giugno 1989, cit., evidenzia come l’interesse delle associazioni professionali all’esercizio esclusivo della professione da parte degli iscritti in una delimitata area, coincide con l’interesse dello Stato a che la professione sia esercitata soltanto da coloro che vi siano abilitati. In tale ipotesi, per quel che riguarda l’associazione professionale, al danno consistente nell’offesa all’interesse circostanziato preso a cuore dall’associazione medesima, si aggiunge il danno anche patrimoniale ad essa derivante dal reato di esercizio abusivo della professione a causa della concorrenza sleale subita in quel determinato contesto territoriale dai professionisti iscritti
[49] Franzoni, L’illecito, in Tratt. della resp. civ. dir. da M. Franzoni, Milano, 2004, p. 239.
[50] Trib. Verona, 15 novembre 1989, in Giur. merito, 1991, p. 751.
[51] Galgano, Le professioni intellettuali e il concetto comunitario di impresa, cit., p. 4; Id., Professioni intellettuali, impresa, società, in questa rivista, 1991, p. 1.