Andrea Perini, Fusione di società tra elusione, frode fiscale e nuovo diritto penale tributario, in Dir. e Prat. Trib., 2001, 1, 20066
Fusione di società tra elusione, frode fiscale e nuovo diritto penale tributario
1. – Note introduttive: il significato della sentenza in commento
La sentenza che si annota interviene su di un tema spesso oggetto di dibattito dottrinale (1) ma assai poco dissodato dalla giurisprudenza: i rapporti tra i fenomeni di elusione fiscale e le fattispecie penali tributarie (in specie il delitto di frode fiscale) nel contesto di operazioni di ristrutturazione societaria. Tema ancor più interessante allorquando si constati come il delicato terreno di confine tra elusione e frode fiscale appaia oggetto di esplorazione da parte della giurisprudenza penale pressoché esclusivamente per affermare l’irrilevanza delle operazioni di cc.dd. «dividend washing» o «dividend stripping» (2): non appena si fuoriesca da tale tipologia di operazioni, invece, ecco che le pronunce giurisprudenziali assumono connotati autenticamente pionieristici, il che contribuisce a rendere meritevole della massima attenzione la recente pronuncia della magistratura pinerolese.
Non solo. La recente riforma del sistema penale tributario attribuisce ulteriori profili di rilevanza ad una sentenza che, intervenendo proprio all’indomani dell’entrata in vigore della nuova disciplina, ha dovuto farsi carico (almeno in qualche misura) altresì dei problemi innescati dal succedersi dei due impianti normativi. Di qui la scelta di estrapolare – nell’ambito di una vicenda peraltro assai aggrovigliata – le due massime in commento, ritenute di particolare interesse generale.
2. – La concentrazione di società come terreno di sperimentazione dei rapporti tra elusione ed evasione
Oggetto di attenzione da parte della sentenza è stata, in questo caso, una complessa operazione di fusione che, articolata in più passaggi intermedi, ha visto l’accorpamento in un unico soggetto giuridico di cinque società facenti parte di un gruppo. In sostanza, un’operazione di concentrazione (peraltro descritta solo nei tratti essenziali dai brani di sentenza riportati) attuata attraverso una serie di fusioni per incorporazione, ognuna delle quali accompagnata da una consistente rivalutazione dei beni appartenenti alle società incorporate, con conseguente emersione di notevoli disavanzi di fusione. A tale riguardo, occorre sottolineare come il tutto sia avvenuto alla vigilia dell’entrata in vigore della l. 23 dicembre 1994, n. 724 che, com’è noto, introdusse il c.d. «principio di neutralità» della fusione, superando la previgente normativa che invece attribuiva rilevanza fiscale all’ammortamento del disavanzo di fusione o, comunque, delle rivalutazioni dei cespiti patrimoniali nei quali tale disavanzo poteva essere allocato. Iscriviti alla nostra newsletter per avere accesso immediato Se sei già iscritto, inserisci nuovamente la tua email per accedere In breve, la disciplina tributaria della fusione di società vigente al momento dei fatti consentiva di utilizzare il disavanzo di fusione per incrementare (sia direttamente che indirettamente, attraverso la rivalutazione di cespiti patrimoniali) gli ammortamenti riconosciuti fiscalmente, con la conseguente possibilità di abbattere il reddito imponibile negli esercizi successivi alla fusione. Assai complessa, al riguardo, la stratificazione normativa che ha preceduto la legislazione di fine 1994 (3): prima dell’entrata in vigore del T.U. delle imposte sui redditi, l’art. 16 2° comma, del d.p.r. n. 598 del 1973disponeva che delle plusvalenze iscritte in bilancio non si tiene tuttavia conto … fino a concorrenza della differenza tra il costo delle azioni o quote delle società incorporate o annullate per effetto della fusione ed il valore del patrimonio netto delle società stesse risultante dalle scritture contabili. Successivamente, la norma fu sostituita dall’art. 123 del T.U., ai sensi del quale (nella sua versione originaria) nella determinazione del reddito della società risultante dalla fusione o incorporante non si tiene conto dell’avanzo o disavanzo iscritto in bilancio per effetto del rapporto di cambio delle azioni o quote dell’annullamento delle azioni o quote di alcuna delle società fuse possedute da altre, né delle plusvalenze dei beni delle società fuse o incorporate, comprese quelle relative alle rimanenze e il valore di avviamento, iscritte in bilancio in luogo e fino a concorrenza del disavanzo. Tuttavia, la versione originaria del T.U. appena ricordata non trovò applicazione in quanto, con decorrenza 1° gennaio 1988 (data di entrata in vigore del T.U.), l’art. 123 venne modificato dall’art. 7 della l. 11 marzo 1988, n. 67, il quale prevedeva che nella determinazione del reddito della società risultante dalla fusione o incorporante non si tiene conto dell’avanzo o disavanzo iscritto in bilancio per effetto del rapporto di cambio delle azioni o quote o dell’annullamento delle azioni o quote di alcuna delle società fuse possedute da altre, e delle plusvalenze iscritte in bilancio non si tiene conto fino a concorrenza della differenza tra il costo delle azioni o quote delle società incorporate annullate per effetto della fusione e il valore del patrimonio netto delle società stesse risultante dalle scritture contabili. Il succedersi delle diverse formulazioni dell’art. 123 del T.U. ha innescato una nutrita serie di questioni interpretative volte a ricercare il significato di una tale evoluzione normativa: tuttavia, ciò che non pare oggetto di controversia, «salvo la solitaria posizione del S.e.c.i.t. (4), è che all’epoca dei fatti sottoposti al vaglio del Tribunale di Pinerolo fosse consentito (in linea di principio) al contribuente di ammortizzare il disavanzo di fusione, facendo di tale operazione di concentrazione un mezzo per rivalutare le attività patrimoniali dell’impresa e poter godere delle maggiori quote di ammortamento a ciò conseguenti (5). D’altra parte, tale possibilità fu talmente appetita dai contribuenti che, al fine di evitare fenomeni di abuso, il legislatore introdusse nel 1990 un’apposita norma antielusiva (art. 10 l. n. 408 del 1990) che attribuiva all’Amministrazione finanziaria il potere di disconoscere ai fini fiscali i vantaggi tributari conseguiti in operazioni (tra le altre) di fusione poste in essere senza valide ragioni economiche ed allo scopo esclusivo di ottenere fraudolentemente un risparmio di imposta (6). Al di là degli innumerevoli problemi interpretativi che tale norma ha suscitato, ci si è allora interrogati sulle (eventuali) implicazioni penali della stessa e quindi, in ultima analisi, sulla possibilità che una fusione eventualmente elusiva potesse altresì essere censurata sotto il profilo penale. Ed è proprio a questa domanda che la sentenza in commento offre un’apprezzabile risposta. 3. – Segue: l’ampia portata del (previgente) art.4, lett. f), seconda parte, del d.l. 10 luglio 1982, n. 429 In via preliminare, onde procedere ad un puntuale inquadramento della questione, occorre spendere qualche parola per illustrare i tratti essenziali della fattispecie penale tributaria ante-riforma che più appariva idonea (e che infatti è stata contestata dall’accusa) a colpire fenomeni in qualche misura «di confine» quale quello posto al vaglio del Tribunale di Pinerolo: l’art. 4, lett. f), del d.l. 10 luglio 1982, n. 429, convertito dalla l. 7 agosto 1982, n. 516, così come modificato dalla l. 15 maggio 1991, n. 154. Tale ipotesi di reato tipizzava due distinte tipologie di condotta, aventi in comune la falsità ideologica della dichiarazione dei redditi ma contraddistinte: – la prima dall’utilizzazione di documenti a loro volta ideologicamente falsi; – la seconda dall’ostacolare fraudolentemente l’accertamento di fatti materiali (rispettivamente, prima e seconda parte della norma in esame) (7). In sostanza, ad essere punita era la falsità della dichiarazione dei redditi (tutela esclusiva dell’imposizione diretta) supportata da ulteriori condotte ingannatorie poste a sostegno di codesta falsità, ossia da quel c.d. quid pluris che la Corte costituzionale (sentenza n. 35 del 1991) impose al legislatore di inserire nella fattispecie onde equipararne il «tasso di fraudolenza» alle note di disvalore emergenti dalle altre ipotesi di frode fiscale raccolte nelle lett. da a)ad e)dell’art. 4 (o, se si preferisce, dai numeri da 1 a 6 dell’art. 4 ante-riforma del 1991). Inoltre, la clausola di soccombenza della fattispecie in caso di integrazione delle condotte tipizzate dall’art. 1 del d.l. 429 del 1982 valeva ad assicurare l’insussistenza della frode fiscale in presenza di violazioni di obblighi di registrazione non sostenuti da ulteriori condotte ingannatorie ma semplicemente accompagnati da bilanci e dichiarazioni redatte recependo i dati di una contabilità inficiata da mere omissioni. In estrema sintesi ed utilizzando il linguaggio della prassi, poteva dirsi che il semplice «nero» confluisse nelle fattispecie contravvenzionali più blande di cui all’art. 1, mentre il «nero» accompagnato da artifici (dal celebre quid pluris oggetto di tanti dibattiti) dava invece luogo a frode fiscale, sotto forma di dichiarazione mendace «supportata» da comportamenti fraudolenti (8). Tali comportamenti ingannatori, infine, nel particolare caso previsto dalla lett. f), potevano assumere tanto la forma di falsità ideologiche quanto quella di (sostanzialmente onnicomprensivi) «altri comportamenti fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento di fatti materiali». Ed è proprio facendo riferimento a tale fattispecie residuale, indubbiamente dotata di una notevole portata criminalizzante, che ci si chiede se e fino a che punto sia possibile colpire penalmente fenomeni meramente elusivi tenuti antecedentemente all’entrata in vigore della riforma penale tributaria del 2000 (9). Gli esempi che usualmente vengono proposti riguardano: – l’intestazione di libretti di risparmio a soggetti diversi da quelli che effettivamente sono i titolari delle somme da questi risultanti (10); – l’occultamento di merci in luoghi appartati diversi dal normale «magazzino»; o anche comportamenti più «sofisticati», quali: – l’acquisizione delle c.d. «bare fiscali»; – particolari operazioni di finanziamento spesso oggetto di «attenzione» da parte dei funzionari della pubblica amministrazione, quali il «sale and lease–back», ecc. (11). Ovviamente, la gamma delle ipotesi si dilata con la fantasia degli operatori desiderosi di individuare le falle di un sistema impositivo certo non invulnerabile; il punto, tuttavia, è quello di verificare se, ponendo effettivamente in essere una serie di negozi di per sé leciti (in specie, più fusioni di società), sia possibile attuare dei «mezzi fraudolenti» idonei ad ingannare il fisco. 4. – La netta separazione tra frode fiscale ed elusione fiscale nella pronuncia del Tribunale di Pinerolo In questo contesto generale si inserisce il caso deciso dalla pronuncia in commento, in cui la complessa operazione di concentrazione viene ritenuta «elusiva» dal Tribunale di Pinerolo (in un obiter dictum posto a chiusura della motivazione) il quale, nondimeno, conclude per l’atipicità della condotta rispetto alla fattispecie prevista dall’art. 4, lett. f) (12). E, proprio a tale riguardo, appare meritevole di sottolineatura il fatto che il Tribunale di Pinerolo si sia orientato per l’esclusione della rilevanza penale della condotta tenuta dagli imputati nonostante la propria convinzione (peraltro estranea al thema decidendum)in merito alla natura elusiva dell’operazione: così facendo (a prescindere dalla fondatezza di tale convinzione), il giudice penale è allora costretto a tracciare una nitida linea di demarcazione non solo tra elusione ed evasione ma, diremmo, ancor più tra elusione e frode fiscale. Senza dubbio, un tale ordine di idee merita di essere condiviso nella misura in cui permette di tenere ben distinti i diversi livelli di reazione dell’ordinamento tributario di fronte a comportamenti del contribuente volti a «comprimere» (in senso lato) la materia imponibile: dal semplice (ed ovviamente lecito) risparmio di imposta si giunge così, in una scala di graduazioni via via più intense di disvalore, fino alle più gravi ipotesi di frode fiscale. A mezza via si collocano i fenomeni di elusione(13), al cospetto dei quali, tuttavia, il tribunale esclude che la risposta possa essere di natura penale rimanendo, piuttosto, circoscritta al disconoscimento dei vantaggi fiscaliconseguiti dai negozi realizzati dal contribuente, senza che neppure venga meno la validità dei negozi stessi. D’altro canto, il tribunale appare conscio dell’illogicità che connoterebbe la comminatoria della sanzione penale a fronte di comportamenti negoziali rispetto ai quali l’ordinamento giuridico neppure reagisce se non decretando una semplice parziale inefficacia (14)dei negozi stessi. Ed al riguardo, non solo è noto come ampia parte della dottrina escluda tout court che l’elusione fiscale si sostanzi in fatti illeciti (15), ma la stessa natura dei comportamenti elusivi – trattandosi di condotte fatte assolutamente palesi dal contribuente – appare del tutto antitetica rispetto agli scopi repressivi della frode fiscale, volta a colpire condotte decettive strumentali ad una rappresentazione dei fatti difforme rispetto al reale (16). Se può dirsi che nell’ambito della frode il contribuente si muove nell’ombra, tenendo riservata (secondo le più diverse ed insidiose tipologie di condotta) la realtà economica dei fatti, nell’elusione fiscale accade l’esatto contrario, agendo il contribuente secondo percorsi certamente tortuosi e strumentali ma comunque fatti palesi all’Amministrazione finanziaria. Viene quindi meno quell’ostacolo all’accertamento dei fatti materiali che funge da perno attorno al quale ruota l’intera fattispecie penale. In piena aderenza con l’opinione prevalente in dottrina (17), quindi, il tribunale ritiene che l’unica forma di contrasto ai fenomeni (ritenuti) elusivi sia ravvisabile nel disconoscimento di quei vantaggi fiscali ottenuti realizzando comportamenti negoziali effettivi e validi ma privi di ragioni economiche in quanto strumentali all’ottenimento del solo risparmio fiscale. In questa prospettiva, l’(autentica) evasione rimane un fenomeno affatto eterogeneo, colpito con sanzioni conseguenti alla realizzazione di fatti illeciti quali appunto sono i fatti di evasione; a seconda della tipologia di evasione realizzata, poi, seguirà una più o meno grave risposta sanzionatoria che, nei casi ritenuti di speciale gravità, viene altresì ad assumere carattere penale. 5. – La linea di demarcazione tra elusione ed evasione in ambito di fusione con disavanzo: la congruità del disavanzo Tutto ciò in linea di principio. Con particolare riguardo alla realizzazione di operazioni di concentrazione con rivalutazione delle attività, la pronuncia riconosce la sussistenza di un limite all’operato del contribuente, oltrepassato il quale si intuisce lo sconfinamento nella sfera dell’evasione passibile di censura penale: la congruità dei valori emergenti dalla fusione, così come rivalutati a seguito dell’allocazione del disavanzo di fusione. Una volta escluso dalle consulenze tecniche che il prezzo pagato dalle società incorporanti per l’acquisto delle incorporande fosse stato artificialmente «gonfiato» al fine di far lievitare il disavanzo di fusione, il giudice conclude coerentemente che non si «determinò una rappresentazione simulata ed inveritiera della situazione impositiva delle società interessate, in grado di impedire o ostacolare l’accertamento di fatti materiali». Emerge così quella che pare divenire la vera chiave di volta in materia di fusioni (ritenute) elusive (18): la congruità del disavanzo di fusione sembra allontanare dall’operazione qualsiasi sospetto di ordine penale. E non sarà inutile ricordare come, di recente, una complessa serie di operazioni di concentrazione con emersione di grossi disavanzi di fusione sia stata censurata penalmente (ai sensi, tuttavia, del delitto di false: comunicazioni sociali) proprio in quanto i valori emersi non apparivano economicamente congrui (19). Dunque, lo strumento della rivalutazione di attività patrimoniali in presenza di operazioni di concentrazione deve ritenersi lecito (o, perlomeno, non penalmente rilevante) nella misura in cui non si risolva in un meccanismo di artificioso «gonfiamento» del patrimonio societario (20). 6. – L’impatto della nuova disciplina penale tributaria sui rapporti tra evasione ed elusione Come preannunciato, tuttavia, la pronuncia in esame deve essere altresì segnalata per le questioni di diritto intertemporale che viene a sfiorare, fornendo tanto indicazioni di immediata tangibilità quanto interessanti spunti di riflessione. Sotto il profilo di più diretta «utilizzabilità» pratica, il Tribunale di Pinerolo si trova a dover confrontare la abrogata fattispecie di frode fiscale prevista dal più volte ricordato art. 4, lett. f) del d.l. 10 luglio 1982, n. 429, con il nuovo materiale normativo introdotto dal d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74. Al riguardo, sarebbe certamente improprio ritenere che tale abrogazione si sia risolta in un indiscriminato fenomeno di abolitio criminis, comportante il venir meno della punibilità di tutti i fatti penalmente rilevanti commessi in vigenza della normativa antecedente (21). Ciò in quanto – anche venuta meno la c.d. «ultrattività» delle norme penali tributarie (22) (cfr. art. 24 d.lgs. 30 dicembre 1999, n. 507) – la previsione di nuove fattispecie di reato, per taluni versi sovrapponibili alle precedenti, rende quantomeno delicato il discernimento delle situazioni di operatività della disciplina dell’abolitio criminis dai casi incriminati ex novo e da quelli caratterizzati da una «continuità di tipo d’illecito» capace di conservarne la punibilità(23). Con particolare riferimento al caso di specie, incentrato sulla contestazione del delitto di frode fiscale di cui all’art. 4 lett. f), la nuova norma chiamata in causa appariva essere (quantomeno in prima battuta) l’art. 3 del nuovo d.lgs. (24): è infatti questa la novella disposizione che tipizza tutte quelle forme di evasione imperniate su una falsa dichiarazione dei redditi e supportate da un quid pluris diverso dall’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti. Logico quindi che quelle condotte che si supponevano rientranti nella sfera dell’art. 4 lett. f) debbano oggi essere – in primis – traguardate dalla prospettiva del novello art. 3 del decreto, onde accertarne la eventuale tipicità e porre – dunque – una questione di permanenza della punibilità indipendentemente dall’intervenuta abrogazione della fattispecie di frode fiscale in origine contestata. Solo dopo aver svolto infruttuosamente tale verifica sarà possibile spostare l’attenzione sulla fattispecie residuale di cui all’art. 4 dello stesso decreto. A tale riguardo, può allora constatarsi come la novella fattispecie prevista dall’art. 3 preveda una condotta sostanzialmente trifasica, tipizzante un articolato comportamento evasivo culminante nella presentazione di una dichiarazione falsa: è questo, infatti, l’ultimo anello di una catena, l’ultima «fase» di una condotta che deve, in precedenza, snodarsi attraverso una falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie a sua volta sorretta da mezzi fraudolenti idonei ad ostacolarne l’accertamento (25). In buona sostanza, quindi, la nuova fattispecie colpisce condotte nelle quali convivono (simultaneamente, si badi bene) la falsità della dichiarazione, la falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie ed i mezzi fraudolenti idonei ad ostacolarne l’accertamento. 7. – Segue: breve raffronto tra la frode fiscale di cui l’art. 4, lett. f) del d.l. 10 luglio 1982, n. 429 e la novella fattispecie di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici L’intenzione espressa dal legislatore, peraltro, chiaramente desumibile dall’art. 9, 2° comma., lett. a)n. 1 della l. di delegazione (l. n. 205 del 1999), è dunque quella di punire innanzitutto la falsa documentazione posta a sostegno di una contabilità mendace e seguita da una dichiarazione parimenti inveritiera; inoltre, la punibilità è estesa (con formula che si vorrebbe onnicomprensiva) a tutti gli artifici destinati a sfociare in falsità contabilipurché, ovviamente, connotati da un sufficiente grado di recettività espresso dal riferimento all’idoneità ad ostacolare l’attività di accertamento. Di qui due, rilevanti, conseguenze: la novella dichiarazione fraudolenta sembra destinata ad ampliare – da un lato – ma a restringere – sotto altra prospettiva – la fattispecie di cui alla lett. f) dell’art. 4 (26); viene infatti ad essere dilatata l’area di tutela penale fino a comprendere l’imposizione indiretta (27) (in precedenza non contemplata dall’ultima fattispecie prevista dall’art. 4), così come la materia delle valutazioni è destinata ad entrare nella sfera di tipizzazione della norma (28), Al contrario, la novella ipotesi cardine di frode fiscale sembra più restrittiva rispetto alla lett. f) dell’art. 4 sia (come già si è detto) nel colpire i soli contribuenti soggetti ad obblighi contabili e sia nel tipizzare gli artifici frodatori diversi dal falso: là erano sufficienti comportamenti fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento di fatti materiali, mentre la figura di recente conio – sotto pena di violare la delega – tipizza la già descritta (e più articolata) catena che vede l’anello ultimo della dichiarazione non veritiera dover essere preceduto sia dalla falsità contabile che dall’ulteriore artificio (29). In breve, si inserisce la richiesta che l’artificio si ripercuota sulla contabilità, rendendola falsa. 8. – Il ruolo delle nuove soglie di punibilità: la perizia contabile e la soluzione adottata dal Tribunale di Pinerolo Proprio in tale prospettiva, può allora osservarsi come, da un lato si assista ad una dilatazione dell’area di tutela penale fino a comprendere le valutazioni (ovviamente, tale novum deve essere considerato irretroattivo).Con riferimento, invece, alla compressione dell’area di rilievo penale, un ruolo particolarmente significativo è svolto dalle novelle soglie di punibilità, le quali sostanzialmente depenalizzano (nel senso che trova applicazione il 2° comma dell’art. 2 c.p.) tutte le condotte in precedenza rilevanti ex art. 4 lett. f) (si ricorda che tale fattispecie non prevedeva soglie di punibilità) ma di entità tale da rimanere al di sotto delle soglie introdotte. Dunque, le condotte (ritenute) in precedenza tipiche ai sensi dell’art. 4 lett. f) devono oggi essere riconsiderate tenendo nel dovuto conto le nuove soglie di punibilità, concernenti sia gli elementi attivi (se indicati in misura inferiore a quella effettiva) che gli elementi passivi fittizi (nel caso di specie, le quote di ammortamento contestate). In particolare, si richiede che, congiuntamente: a)l’imposta evasa sia superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a lire centocinquanta milioni; b) l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi fittizi, sia superiore al cinque per cento dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o, comunque, sia superiore a lire tre miliardi. Ora, non essendo stata recepita dalla versione definitiva del decreto la previsione contenuta nell’art. 25 dello «schema» del decreto legislativo messo a punto dalla «Commissione Tinti», con la quale si tentava di dettare una compiuta serie di norme transitorie, il legislatore ha inteso lasciare totalmente aperto il campo al lavoro interpretativo degli operatori del diritto, chiamati di volta in volta a decidere – nel caso concreto – quale sia il comma dell’art. 2 del c.p. a trovare applicazione (30). Nel caso di specie, tutto ciò comportava che, ancor prima di scendere nel merito della sussistenza o meno del delitto di frode fiscale, si sia proceduto ad un’attenta analisi dell’impatto delle novelle soglie di punibilità onde verificarne il superamento. Ed a tale riguardo, il Tribunale di Pinerolo si è dimostrato particolarmente sensibile alle indicazioni fornite dalla stessa Relazione governativa di accompagnamento al decreto di riforma, secondo cui «l’introduzione – imposta dal n. 1) della lett. c) dell’art. 9 della legge delega – di soglie di punibilità ragguagliate all’ammontare dell’imposta evasa comporterà, inevitabilmente, un considerevole appesantimento del procedimento penale, imponendo al giudice di sottoporre a verifica in tale sede l’intera posizione del contribuente, quale premessa per l’accertamento del quantum di evasione». Dunque, un delicato profilo di accertamento che abbraccia in toto la posizione fiscale del contribuente imponendo di quantificare «l’imposta evasa» (31): di fronte alla complessità di tale accertamento, il Tribunale altro non ha potuto fare se non ricorrere alla perizia contabile. 9. – L’elusione fiscale alla luce della recente riforma: brevi spunti di riflessione Come si è anticipato, la pur significativa presa di posizione del tribunale in merito alla necessità della perizia contabile onde verificare il superamento delle nuove (articolate) soglie di punibilità, non esaurisce gli argomenti di riflessione suscitati dalla pronuncia in commento che, compiendo un’attenta actio finium regundorum tra elusione ed evasione, fa sorgere spontaneo il quesito sull’attualità di una simile distinzione alla luce della recente riforma. E ciò in linea generale, ossia indipendentemente dall’attuale «neutralità fiscale» della fusione. 9.1 – Elusione ed «elementi passivi fittizi» Ed infatti, si è fatto cenno a come la dichiarazione presentata dal contribuente, per rilevare penalmente ai sensi dell’art. 3 (ma anche degli artt. 4 e 2), debba essere non conforme a verità, ossia debba indicare (tra l’altro)elementi negativi fittizi. Di qui trae origine un acceso dibattito attorno al significato da attribuire a tale locuzione ambivalente (32), secondo taluni interpretabile come riferimento a componenti negativi di reddito del tutto inesistenti in rerum natura (33), mentre secondo altre letture capace di aprire un varco all’attribuzione di rilevanza penale anche all’indicazione di componenti negativi di reddito semplicemente non deducibili(34). Quale che sia l’interpretazione ritenuta preferibile (35), a noi pare che in ogni caso la repressione penale non possa giungere fino alla punizione di comportamenti che siano meramente elusivi, ossia non in aperto contrasto con precetti di diritto tributario bensì imperniati sull’utilizzo distorto di negozi intrinsecamente leciti ma concatenati in modo anomalo onde conseguire «trasversalmente» un vantaggio fiscale diversamente precluso (36). Sotto questo aspetto, la nozione di «fittizietà» non pare dilatabile fino a coinvolgere il disconoscimento dei vantaggi fiscali conseguiti da una condotta elusiva poi «travolta» dal ricorso ad apposite norme antielusive: in tali situazioni di – appunto – mero «disconoscimento» di vantaggi fiscali, si è pur sempre al cospetto di negozi intrinsecamente leciti e produttivi di effetti, rispetto ai quali la reazione del sistema tributario non concerne tanto le singole manifestazioni negoziali quanto il concatenamento(37)delle stesse, valutato sia sotto il profilo temporale che delle motivazioni ad esso sottese. Comportamenti, in ultima analisi, nei quali non vi è nulla di fittizio e – almeno secondo una parte della dottrina – neppure di illecito(38). D’altra parte, solleverebbe notevoli perplessità in ordine al rispetto tanto del principio di determinatezza quanto di materialità dell’illecito penale qualsiasi «aggancio» di conseguenze penali all’applicazione di una norma quale l’art. 37 bis del d.p.r. n. 600 del 1973, fattispecie dai contorni alquanto fumosi ed ampiamente incentrata sulla componente marcatamente soggettiva (39) della «direzione» dei negozi all’aggiramento di «obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti» (1° comma) (40). Sufficientemente nitida appare allora la differenziazione che, tracciata dal Tribunale di Pinerolo, dovrebbe continuare a dispiegare i propri effetti anche dopo l’introduzione della nuova normativa tributaria: il fuoco della tutela viene concentrato sulla fedeltà della dichiarazione(41)adempimento direttamente connesso al verificarsi del presupposto dell’imposta (42), ergo, la fittizietà dei componenti negativi di reddito – anche ove se ne accetti una nozione normativa – non ci pare possa essere misurata se non prendendo a riferimento le disposizioni che presiedono in modo diretto alla determinazione di tale presupposto dell’imposta. Al riguardo, vale la pena ricordare come la funzione della norma antielusiva non sia quella di modificare o integrare la normativa tributaria oggetto di strumentalizzazione da parte del contribuente che elude l’imposta quanto, semplicemente, di impedire tale strumentalizzazione (43). E proprio sulla differenza tra violazione e strumentalizzazione della norma tributaria corre la distinzione tra elusione ed evasione, laddove solamente all’interno di codesta seconda tipologia di comportamenti può trovare cittadinanza la repressione penale. Breve: nella sfera dell’elusione, le disposizioni fiscali volte a determinare la base imponibile vengono strumentalizzate ed aggirate dal contribuente, il quale, operando per vie indirette, potrà vedersi sbarrare la strada unicamente da (ulteriori) norme (appunto) «antielusive» che, spingendo ad indagare sul concatenamento degli atti e sulle ragioni poste a fondamento di «fatti e negozi» effettivamente e validamente posti in essere, potranno disconoscere la (sola) rilevanza fiscale dell’attività negoziale. D’altra parte, si è autorevolmente rilevato in dottrina come la norma antielusiva permetta di apprezzare l’esistenza di disegni elusivi solo considerandola pluralità di atti giuridici attraverso i quali essi si manifestano rispetto alla singola fattispecie che – autonomamente osservata – ben difficilmente si presta a censura (44): è dunque sul particolare dipanarsi dell’attività negoziale nel suo complesso che viene posto l’accento, in una prospettiva che ci pare quindi assai differente rispetto al giudizio di fittizietà che deve invece essere mirato al singolo «elemento passivo». 9.2. – La scarsa significatività della norma in materia di diritto di interpello Tale conclusione non pare smentita dalla previsione dell’art. 16 del decreto in materia di adeguamento al parere espresso dal Comitato per l’applicazione delle norme antielusive (45), norma probabilmente superflua (46) e volta a rafforzare (prevedendo un baluardo sottratto alla discrezionalità del giudice) quanto previsto in linea generale dall’art. 5 c.p. in tema di errore inevitabile su norme incriminatrici, soprattutto dopo l’interpretazione che nel 1988 ne diede la Corte costituzionale (47). Ed anche la Relazione governativa depone in questo senso, spiegando come la norma si connetta «ai principi affermati dalla Corte costituzionale con la nota sentenza 24 marzo 1988, n. 364 e risponde alla medesima logica di fondo delle speciali disposizioni in tema di non punibilità delle valutazioni di cui all’art. 7: si tratta, cioè, di un criterio legale di esclusione del dolo di evasione richiesto per la configurabilità delle diverse ipotesi criminose » (48). 9.3 – Elusione e dichiarazione fraudolenta Ed allora, se la nozione di «elemento passivo fittizio» non pare idonea a colpire l’indicazione di componenti negativi di reddito derivanti da comportamenti elusivi degli obblighi tributari, la conclusione che deve essere tratta è nel senso dell’atipicità dell’elusione fiscale tanto rispetto all’art. 3 quanto rispetto all’art. 4 del d.lgs. n. 74 del 2000 (49): essendo ambedue le fattispecie imperniate sull’indicazione di (elementi attivi inferiori a quelli effettivi oppure) elementi passivi fittizi, è chiaro come l’affermata eterogeneità tra «elusione» e «fittizietà» deponga nel senso dell’irrilevanza penale dell’elusione. Tuttavia, non si può non sottolineare come questa conclusione non possa che uscire rafforzata allorquando si focalizzi l’attenzione sulla fattispecie di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici di qui all’art. 3: in tale ambito, proprio la constatata particolare articolazione della condotta punita, il suo snodarsi dall’impiego del mezzo «fraudolento» alla mendace dichiarazione passando per la «falsa rappresentazione nelle scritture contabili», introduce chiari elementi di decettività ed idoneità ingannatoria evidentemente incompatibili con la semplice elusione fiscale. Se quindi già la scelta di colpire l’indicazione in dichiarazione di elementi passivi fittizi pare ergersi a baluardo avverso la repressione penale dell’elusione ai sensi della fattispecie di dichiarazione infedele di cui all’art. 4, allorquando si passi all’esegesi della fattispecie (più grave) racchiusa nell’art. 3 la conclusione non può che uscirne ulteriormente rafforzata: d’altra parte, al crescere del disvalore della condotta tipizzata si accompagna un pari incremento della distanza tra condotta tipica e condotta elusiva. 9.4. – Elusione ed esclusione della punibilità in presenza di rilevazioni e valutazione estimative rispetto alle quali i criteri concretamente applicati siano stati comunque indicati I rilievi fin qui svolti permettono di evidenziare un ulteriore argomento sistematico che depone a favore dell’irrilevanza penale (sia ex art. 4 che, a fortiori, ex art. 3) dell’elusione fiscale. E’ infatti noto come tra le principali innovazioni introdotte dalla riforma del sistema penale tributario vi sia l’attribuzione di rilevanza penale alle valutazioni mendaci, con un radicale cambio di rotta rispetto alla normativa del 1982 ed alla (parziale) riforma del 1991 (50). Da tale contesto, pare emergere una rilevante indicazione sistematica laddove il legislatore esclude la punibilità (ai sensi delle fattispecie previste dagli artt. 3 e 4) delle «rilevazioni» e delle «valutazioni estimative» rispetto alle quali i criteri concretamente applicati siano stati indicati nel bilancio (art. 7, 1° comma, ultima parte). Quindi, il legislatore sembra subordinare la rilevanza penale della condotta del contribuente alla concreta difficoltà, da parte dell’Amministrazione finanziaria, di accertare la reale entità della posta valutata o, comunque, del componente (negativo o positivo) di reddito indicato in dichiarazione. Se l’operato del contribuente è facilmente individuabile, tanto da essere chiaramente spiegato il procedimento che si pone a monte dell’iscrizione di un valore fiscalmente rilevante, e se quindi può agevolmente essere constatata altresì la sua eventuale non conformità a legge, si rimane al di fuori della rilevanza penale (51). Vero ciò, l’atipicità dell’elusione fiscale ci pare conseguire de plano da una indiscussa caratteristica che connota tutte le condotte elusive: l’assoluta trasparenza delle stesse (52), trasparenza che consegue alla necessità di condurre l’Amministrazione finanziaria sugli stessi binari negoziali seguiti dal contribuente onde aggirare la normativa tributaria. Se il negozio A dà luogo a materia imponibile in applicazione della norma Y, il contribuente che voglia eludere tale norma Y cercherà di concatenare più negozi (B, C, D, ecc.) al fine di realizzare (pressoché) lo stesso risultato economico conseguente al negozio A ma senza realizzare la fattispecie tipizzata da Y (53). In questo contesto, è chiaro come il contribuente cerchi in ogni modo di illustrare chiaramente all’Amministrazione finanziaria il proprio «percorso negoziale» che si è snodato attraverso B, C, D, ecc. senza mai assumere i connotati di A e, quindi, senza mai integrare la fattispecie Y. Breve: se nell’evasione il contribuente cerca di «far perdere le tracce» della propria reale attività negoziale, in materia di elusione il contribuente – proprio perché strumentalizza determinati atti negoziali (54) – ha tutto l’interesse a rendere assolutamente trasparenti ed evidenti tali atti, così da (tentare di) scongiurare la riconduzione dell’attività elusiva alla fattispecie elusa. Ma se questo è vero, allora sembra potersi desumere dal nuovo sistema penale tributario un ulteriore e solido argomento avverso alla rilevanza penale dell’elusione fiscale, tanto più solido quanto più l’elusione sia «trasparente». 10. – Conclusioni Alla luce delle considerazioni fin qui svolte, ci sembra doveroso ascrivere al Tribunale di Pinerolo il merito di aver colto e sottolineato in ambito penalistico l’importante iato che separa l’elusione dall’evasione fiscale. E l’assolvimento di un tale delicato compito appare ancora più apprezzabile allorquando si consideri sia lo scarno contesto giurisprudenziale nel quale interviene quanto il carattere fortemente innovativo della riforma approvata alla vigilia della pronuncia. Nonostante la presenza di numerosi elementi idonei a rendere il terreno particolarmente scivoloso, la pronuncia in commento mantiene sempre un notevole tasso di lucidità, proponendosi quale importante passaggio nel riavviato dibattito sui rapporti tra elusione, evasione e repressione penale. Ed anche alla luce della recente riforma, questo approdo giurisprudenziale pare alieno dalla facile tentazione di sovrapporre i (distinti) piani dell’elusione e dell’evasione, segnando un condivisibile punto di equilibrio tra esigenze di tutela del gettito tributario e garanzie del contribuente. (1) Per tutti, Caraccioli, Fusione e scissione di società. Problemi penali, in Il fisco, 1993, 6717. (2) Cfr. Trib. Udine, 3 ottobre 1996, in Il fisco, 1997, 2716; Procura della Repubblica Trib. Vicenza, 22 agosto 1995, in Il fisco, 1995, 9385; Trib. Udine, 5 luglio 1997, in Il fisco, 1997, 13321; Trib. Pordenone, 12 luglio 1997, in Il fisco, 1997, 9991; Trib. Ivrea, 5 maggio 1997, in Il fisco, 1997; Procura della Repubblica Trib. Ravenna, 3 settembre 1994, in Il fisco 1994, 8189; Trib. Milano, 19 giugno 1996, in I1 fisco, 1997, 5233; App. Trieste, 15 luglio 1998, in I1 fisco 1998, 11921. (3) Sulla quale, da ultimo, Fico, Fusioni. deducibile il disavanzo se l’operazione non è elusiva, in Dir. prat. società, n. 18 del 2000, 59, in sede di commento a Cass., 24 luglio 2000, n. 9666. (4) Pubblicata in Rass trib., 1995, 401. (5) Sul punto, la dottrina è davvero imponente. Ci limitiamo a fare rinvio, per tutti, a Lupi, Profili tributari della fusione di società, Padova, 1989; Gelosa, Insalaco, Fusioni e scissioni di società. Profili civilistici e tributari, Milano, 1996; Colombo, Il bilancio d’esercizio struttura e valutazioni, Torino, 1987, p. 188-189 (l’autore in proposito espone il seguente caso esemplificativo di fusione «se la società A, dopo aver acquistato per 1.500 tutte le azioni della società B, l’incorpora, e i beni già di B possono essere iscritti in bilancio solo per 1.000, la differenza di 500 – cosiddetta differenza di fusione – può essere il prezzo pagato, al momento dell’acquisto della partecipazione, per l’avviamento: in tal caso è sostenibile che la differenza, sia … previo prudente controllo che di avviamento si tratti e non di perdita, è iscrivibile all’attivo come avviamento); Dezzani,Disavanzo di fusione e iscrizione della voce avviamento, in Il fisco, 1993, 8314; Dus, La fusione di società fra vecchia giurisprudenza e nuovi principi, in Le società, 1985, 318-319 (tale autore al riguardo espressamente sostiene»: quando il costo della partecipazione avesse tenuto conto al momento dell’acquisto di tale avviamento esso dovrebbe costituire uno dei cespiti su cui ripartire la differenza di fusione. Non si ignora che tale possibilità possa essere posta in dubbio dal principio di cui all’art. 2427 del c.c.; ma tale disposizione sembra avere ad oggetto il caso dell’acquisto dell’azienda per un prezzo specificamente riferito ad essa, e quindi l’avviamento, mentre nel caso di specie come accennato, la necessità di distribuire una quota del costo della partecipazione dovrebbe derivare dalla diversa qualificazione dei beni imposta dall’operazione di fusione); Gallo, Problematiche fiscali della fusione, in Il fisco 1992, 7565; Leo, Monacchi, Schiavo, Roxas, Le imposte sui redditi nel T.U., Milano, 1990, p. 1201; Tremonti, Note sulla disciplina fiscale della fusione di società e dell’iscrizione in bilancio dell’avviamento, in Riv. dir. fin., 1987, 90 ss.; Falsitta, Fusione di società e iscrizione dell’avviamento, in Rass. trib., 1986, 267 ss.; Caratozzolo, I bilanci straordinari delle società commerciali. Profili tributari, retro, 1981, I, 1481; Portale, I bilanci straordinari in AA.VV. Il bilancio di esercizio. Problemi attuali, Milano, 1978, p. 551 ss. (6) Sull’introduzione di tale norma e sulla sua successiva evoluzione, facciamo rinvio, per tutti, a Contrino, cit., 922 ss.; Paparella, Riflessioni in margine all’art. 10 della legge 1990, n. 408, relativo alla ristrutturazione delle imprese, retro, 1995, I, 1835 ss. (7) Sulla quale, per tutti, D’avirro, La nuova ipotesi di frode fiscale, in Riv. trim. dir. pen. ecc., 1991, 889; Di Nicola, Le fattispecie di frode fiscale previste rispettivamente dal n. 2 e dalla lett. f) dell’art 4, l. n. 516 del 82 prima e dopo la riforma del 1991, in AA.VV., Responsabilità e processo penale nei reati tributari, Milano, 1992, 272 ss. Perini, Elementi di diritto penale tributario, 3° ed., Torino, 1999, 180; Rampioni, La fattispecie di frode fiscale prevista dall’art. 4, lett. f) della l. 7 agosto 1982, n. 516, in AA.VV., Diritto penale tributario, a cura di Fiandaca, Musco, Milano, 1997, 206 ss.; Spagnolo, Diritto penale tributario, in AA.VV., Manuale di diritto penale dell’impresa, Bologna, 1999, 773; Traversi, Art. 4, 1° comma lett. f) in Caraccioli, Giarda, Lanzi, Diritto e procedura penale tributaria, Padova, 1994, 157. (8) E cfr. Cass., 12 maggio 1999, in Il fisco, 1999, 12008. (9) Sul punto la dottrina è particolarmente vasta: per tutti Caraccioli, Tutela penale del diritto di imposizione fiscale, Bologna, 1992, 108 ss.; Bersani, La rilevanza penale delle condotte elusive alla luce della nuova formulazione della frode fiscale, in Il fisco, 1994, 416 ss.; Dell’anno, Tito, I reati tributari in materia di imposte dirette e iva, Milano, 1992, 585; Rampioni, La fattispecie di frode fiscale, cit., 240. (10) Cfr. Bricchetti, De Ruggiero, Ireati tributari, Milano, 1994, 317; Di Nicola, Le fattispecie, cit., 359; Traversi, sub Art. 4, cit., in Caraccioli, Giarda, Lanzi, Diritto e procedura, vol. II, cit., 165; Venturati, Mariotti,La nuova frode nella dichiarazione dei redditi, Padova, 1993, 150 – 151. (11) Si veda, in proposito, l’efficacia rassegna di Nuzzo, Elusione casi materiali, in Quaderni di Rass. trib., Roma-Milano, 1998, passim. (12) Nello stesso senso, in un analogo caso di fusione, cfr. Trib. Roma, I ottobre 1998, in Rass. trib., 1999, II, 280; sentenza confermata da App. Roma, 9 dicembre 1999, in Giur. imposte, 2000, 220. (13) Ferme tutte le difficoltà che, in linea generale, emergono ogniqualvolta si tenti di operare una compiuta suddivisione tra condotte elusive e comportamenti evasivi: per tutti, Trivoli, Contro l’introduzione di una clausola generale antielusiva nell’ordinamento tributario vigente, retro, 1992, 1338 ss., ove ulteriori riferimenti. Tra i penalisti, Alessandri, L’elusione fiscale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1990, 1075. (14) Trivoli, Contro l’introduzione di una clausola generale antielusiva, cit., 1362 e 1367. (15) In questo senso è la Relazione governativa al d.lgs. n. 358 del 1997 che ha riscritto la norma antielusiva, nonché Cipollina, Elusione fiscale, in Riv. dir. fn. sc. fn., 1988, 122; Lupi, L’elusione come strumentalizzazione delle regole fiscali, in Rass. trib., 1994, I, 225; Pacitto, Attività negoziale, evasione ed elusione tributaria: spunti problematici, in Riv. dir. fn. sc. fn., 1987, 728 ss.; Trivoli, Contro l’introduzione di una clausola generale antielusiva, cit., 1339, ma si veda altresì Lupi, Elusione e legittimo risparmio d’imposta nella nuova normativa, in Rass. trib., 1997, 1100; ID., Elusione fiscale: modifiche normative e prime sviste interpretative, in Rass. trib., 1995, I, 409. Diversamente, tuttavia, per la qualificazione dell’elusione come fatto illecito, cfr. Russo, Brevi note in tema di disposizioni antielusive, in Rass. trib., 1999, 69; ID., Manuale di diritto tributario, Milano, 1999, 95. (16) Sul punto, per tutti, Caraccioli, Fusione e scissione di società. Profili penali, in Il fisco, 1993, 6717 ss.; Spagnolo, Diritto penale tributario, in AA.VV., Diritto penale dell’impresa, Bologna, 1999, 778; Viazzo, Profili di responsabilità penale per i reati tributari nelle imprese di grandi dimensioni, in Riv. it. dir proc. pen., 1992, 254. Ed in questo solco pare inserirsi la recente Trib. Roma, 1 ottobre 1998, in Rass. trib, 1999, II, 282, con nota adesiva della Manduchi (in tema di fusione). (17) Per tutti, Rampioni, Le fattispecie, cit., 240. Ulteriori riferimenti in Dell’anno Tito, Ireati tributari, cit., 585 ss.. (18) In un tale ordine di idee pare altresì inserirsi, con precipuo riferimento ai risvolti fiscali della questione, Cass., 24 luglio 2000, n. 9666, in Dir. prat. società, n. 18 del 2000, 55 ss. (19) Trib. Milano, 24 novembre 1999, in Giur. it., 2000, 2368, con nota di Perini. In quella sede, rileva il tribunale come «in nessuna delle operazioni poste in essere dagli odierni imputati esiste alcuna valutazione peritale o documento avente data certa che consenta di verificare come sia stato stabilito dal venditore il prezzo di acquisto per le successive incorporanti delle partecipazioni cedute» (Omissis)« … la plusvalenza non è mai stata verificata nella sua reale consistenza, … mentre la sua entità stessa avrebbe dovuto essere il risultato di un controllo mediante perizia della congruità del valore delle partecipazioni cedute rapportato ai singoli patrimoni netti» (Omissis) «va rimarcato che non vi è alcun elemento certo che faccia reputare corretto l’ammontare del disavanzo di fusione solo che si rifletta che qualora correttamente valutato in relazione all’effettivo ammontare del patrimonio netto delle società conferite avrebbe potuto evidenziare che ad esempio vi fossero nelle stesse perdite di gestione tali da incidere negativamente sul valore del conferimento stesso» (Omissis)«icespiti che sono entrati nel patrimonio dell’incorporante per effetto della fusione erano degli immobili, le cui valutazioni tutte a libro annotate per importi assai più modesti del patrimonio dell’incorporata, sono lievitate incredibilmente perché su di esse si è spalmato in modo indifferenziato e apparentemente proporzionale l’intero valore del disavanzo di fusione che è divenuto corrispondente alla rivalutazione degli immobili…»(Omissis) «si deve ritenere che le modalità di attribuzione di questi valori ai beni immobili siano censurabili perché non rispondenti ai criteri imposti dalle norme che regolano la materia, dato così come non vi era stato alcun controllo sull’effettivo valore dei conferimenti iniziali non vi è stata alcuna valutazione … circa l’effettiva rispondenza delle partecipazioni così conferite». (20) In una prospettiva parzialmente differente sembra porsi Caraccioli, Fusione e scissione, cit., 6718, secondo il quale non sarebbe censurabile penalmente (ai sensi della normativa penale tributaria riformata nel 1991) ma solo amministrativamente l’attribuzione del disavanzo di fusione a cespiti privi di margini di rivalutazione in quanto già iscritti al valore di mercato ovvero di presunto realizzo. Tuttavia, lo stesso Autore esprime successivamente (p. 6719) ampie riserve qualora il disavanzo di fusione emerga da artificiosi aumenti di capitale realizzati in collusione tra i soci dell’incorporata e dell’incorporante onde «gonfiare» l’importo di tale disavanzo. (21) Cfr., per tutti, Cerqua, Gli effetti dell’abrogazione di norme nella riforma dei reati tributari, in Dir. prat. società, n. 11 del 2000, 29; Zannotti, La nuova disciplina dei reati tributari. Il punto su alcuni aspetti di diritto transitorio, in Il fisco, 2000, 10648. (22) In argomento, per tutti, Flora, voce Legge penale tributaria, in Dir. disc. pen., vol. VII, Torino, 1993, 391; Padovani, La cosiddetta ultrattività delle leggi penali finanziarie ed il principio costituzionale di uguaglianza, in Foro it., 1975, I, 28; Rapisarda, Retroattività, legalità, uguaglianza e leggi penali finanziarie, in Cass. pen., 1995, 2077; Trapani, L’art. 20 della l. 7 gennaio 1929 n. 4 e la c.d. ultrattività delle norme penali tributarie, in Riv. it., dir. proc. pen., 1982, 207 ss.; Vassalli, Abolitio criminis e principi costituzionali, in Scritti giuridici, vol. I, tomo I, Milano, 1997, 414. (23) Sull’argomento, in linea generale, cfr. Padovani, Tipicità e successione di leggi penali, in Riv. it. dir. proc. pen., 1982, 1381. (24) Art. 3, (Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici). (25) Sul punto, per tutti, Napoleoni, I fondamenti del nuovo diritto penale tributario, Milano, 2000, 89; Traversi, Gennai, Inuovi delitti tributari, Milano, 2000, 183. (26) Nello stesso senso, Napoleoni, I fondamenti, cit., 90. (27) Assumma, Relazione, in AA.VV., La riforma del diritto penale tributario, Atti del Convegno di studi tenutosi a Torino il 23 febbraio 1998, in Il fisco, 1998, 5378. (28) Cfr. già Caraccioli, Il nodo valutazioni per la nuova 516, in Il Sole 24 Ore del 23 dicembre 1997, 16, cui adde ID., Poche novità dal Senato per la delega sui reati tributari, in Il fisco, 1999, 3990. Più di recente, cfr. per tutti Caraccioli, Falsitta, Le valutazioni estimative della riforma penal-tributaria tra violazioni costituzionali ed ambiguità lessicali, in Il fisco, 2000, 10012; Ferlazzo Natoli, Buccisano, Luci e ombre sulla riforma tributaria penale, in Boll. trib, 2000,1052. In senso positivo su questa dilatazione della repressione penale, cfr. Bersani, Il nuovo diritto penale tributario tra principi riformatori e vecchi problemi, in Il fisco, 1998,1344. (29) Per tutti, molto chiaramente, Napoleoni, I fondamenti, cit., 90 e 114 ss. (30) Ed infatti, proprio con questa indicazione si chiude la Relazione di accompagnamento al Decreto. (31) Sulle questioni sorte attorno all’introduzione di una soglia di punibilità parametrata al quantum di evasione e sul paventato ritorno ad una sorta di surrettizia pregiudiziale tributaria, ci sia permesso far rinvio al nostro Perini, Verso la riforma del diritto penale tributario: osservazioni sulla legge di delegazione, in Riv. trim.dir. pen. ecc., 1999, 692 e ss. (32) Caraccioli, Passivi fittizi senza margini interpretativi, in Il Sole 24 Ore del 1 aprile 2000, 17. ID., Dalle manette agli evasori alle manette agli estimatori, in Il fisco, 2000, 3362. (33) Cfr. Caraccioli, Passivi fittizi senza margini interpretativi, cit.; Traversi, Gennai, I nuovi delitti tributari, cit., 214; Dassano, La dichiarazione fraudolenta tra autonomia di disciplina e regole di contesto (artt. 2 e 3 deld.lgs. n. 74 del 2000), in AA.VV., La riforma del diritto penale tributario. Questioni applicative, a cura di Santoriello, Torino, 2001, 131, e ss. (34) Per tutti, in questo secondo senso, cfr. Napoleoni, I fondamenti, cit., 91 – 92. (35) Sul punto, facciamo rinvio al nostro Perini, Il delitto di dichiarazione infedele ex art. 4 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, in Dir. pen. processo, 2000, 1261. (36) Condivide tale conclusione Izzo, Esclusione del dolo per effetto di interpello e pareri dell’Amministrazione finanziaria, in Il fisco, 2000, 8005. Cfr. altresì Napoleoni, I fondamenti, cit., 234 e ss. In senso contrario, tuttavia, Bersani, Il nuovo diritto penale tributario tra principi riformatori e vecchi problemi, in Il fisco, 1998, 1344 – 1345. (37) Sottolinea tale elemento particolarmente Lupi, Elusione fiscale, modifiche normative, cit., 415. (38) Si veda la dottrina dianzi citata alla nota n. 15. (39) Sottolinea il rilevante ruolo svolto dall’elemento intenzionale del contribuente nell’ambito delle ipotesi di ritenuta elusione, ad esempio, Tabellini, L’elusione, cit., 35. (40) Analoghe perplessità, d’altra parte, solleverebbe altresì l’altra importante norma antielusiva contenuta nel 3°comma, dell’art. 37, sempre del d.p.r. 600 del 73. (41) Constatazione largamente condivisa. Per tutti, Caraccioli, Dalle contravvenzioni prodromiche ai delitti in dichiarazione, in Il fisco, 1998, 109; Cerqua, Commento, in Dir. pen e processo, 1999, 1206; Tinti, Il disegno di legge delega per un nuovo sistema penale tributario, in AA.VV., La riforma del diritto penale tributario, Atti del Convegno tenutosi a Torino il 23 febbraio del 1998, in Il fisco, 1998, 5344-5345. (42) Sul punto, limpidamente, Falsitta, Manuale di diritto tributario, 1997, 360. (43) In questo senso, autorevolmente, Lupi, Elusione fìscale. modifiche normative, cit., 414. Sostanzialmente negli stessi termini, La Rosa, Notarelle controcorrente in tema di scissioni e norme antielusive, in Rass. trib., 1994, 618. (44) Cfr. Lupi, Elusione fìscale: modifiche normative, cit., 415; Paparella, Riflessioni in margine all’art 10, cit., 1879. (45) Sulla quale cfr. le diverse interpretazioni di Bersani, Il nuovo diritto, cit., 1345; Izzo, Prospettive di criminalizzazione, cit., 3616; Cerqua, Commento, cit., 1209; Izzo, Pareri su interpello dei contribuenti e loro effetti sulla coscienza dell’illecito penale tributario, in Il fìsco, 1992, 5090; ID., Prospettive di criminalizzazione dell’elusione nel nuovo diritto penale tributario, in Il fisco, 1998, 3616. (46) Condivide questo giudizio Napoleoni, I fondamenti, cit., 238. Ma cfr. altresì Traversi, Gennai, I nuovi delitti tributari, cit., 150. (47) Ci riferiamo, ovviamente, a Corte cost., 23 marzo 1988, n. 364, in Riv. it. dir. proc. pen., 1988, 686 ss.. Ma cfr. altresì, Corte cost., 16 marzo 1992, n. 133, in Giur. Cost., 1992, I, 1113. Ma cfr. altresì Corte cost., 24 febbraio 1995, n. 61, in Cass. pen., 1995, 1760. In dottrina, per tutti, Palazzo, voce Ignoranza della legge penale, in Dig. disc. pen., vol. VI, 1993, 122 ss.; Patrono, Problematiche attuali dell’errore nel diritto penale dell’economia, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1988, 87 ss., part. 106 – 107; Pulitanò, Unasentenza storica che restaura il principio di colpevolezza, in Riv. it. dir. proc. pen., 1988, 686 ss. (48) Ed è ancora la stessa Relazione a ribadire, poco innanzi, che «Giova tuttavia ribadire e sottolineare – in risposta alle preoccupazioni delle quali la Camera si è fatta portavoce – che, nelle ipotesi di mancata sottoposizione del caso al parere del Comitato (anche perché esorbitante dai limiti delle sue attribuzioni), resta comunque pienamente salva la possibilità che la condotta del contribuente, intesa allo sfruttamento delle opzioni consentite dalla legge civile al fine di realizzare risparmi di imposta, vada ricondotta al paradigma di quella che è tradizionalmente qualificata come semplice «elusione di imposta», quale categoria concettualmente contrapposta all’evasione, rimanendo dunque priva d’ogni riflesso penale. In altre parole, la disposizione di cui all’art. 16 è unicamente di favore per il contribuente, e non può in alcun modo esser letta, per così dire, «a rovescio», ossia come diretta a sancire la rilevanza penalistica delle fattispecie lato sensu elusive non rimesse alla preventiva valutazione dell’organo consultivo». (49) Evidentemente, trattandosi di analizzare le fattispecie in qualche modo suscettibili di tipizzare fenomeni elusivi, non rileva la figura di reato prevista dall’art. 2 che, sebbene anch’essa imperniata sull’indicazione di elementi passivi fittizi, presuppone altresì l’utilizzazione di documenti ideologicamente falsi che, quindi, nulla hanno a che vedere con comportamenti di mera elusione. (50) Per tutti, Caraccioli, Dalle «manette agli evasori» alle «manette agli estimatori», in In fsco, 2000, 3362; Caraccioli, Falsitta, Le «valutazioni estimative» della riforma penal-tributaria tra violazioni costituzionali ed ambiguità lessicali, in Il fisco, 2000, 10012; Ferlazzo Natoli, Buccisano, Luci e ombre sulla riforma, cit., 1052; Napoleoni, I fondamenti, cit., 92 ss; Traversi, Gennai, I nuovi delitti tributari, cit., 242 ss. (51) «L’aperta ostensione in un documento destinato alla pubblicità dei metodi estimativi utilizzati, anche se scorretti, è stata ritenuta, difatti, incompatibile con la configurabilità di un dolo di evasione o, comunque, tale da escludere quel minimo di attitudine all’inganno nei confronti del fisco richiesta ai fini della configurabilità anche del delitto di dichiarazione infedele»: così la Relazione governativa di accompagnamento al Decreto. (52) Cipollina Elusione fiscale, cit., 122-123; Contrino, Sull’inapplicabilità, cit. 924-925, Lupi, L’elusione come strumentalizzazione, cit., 228; Id., Elusione fiscale, modifiche normative, cit., 410. (53) Per tutti, cfr. Antonini, Equivalenza di fattispecie tributaria ed elusione dell’imposta, in Riv. dir fin. sc. fìn., 1966, 167; Contrino, Sull’inapplicabilità, cit., 924; Morello, Frode alla legge, Milano, 1969, 339. (54) Il riferimento che si è fin qui fatto agli atti negoziali vuole solo cogliere le forme di elusione statisticamente più frequenti. Tuttavia, il ricorso a strumenti negoziali non è indispensabile per dar luogo a comportamenti elusivi: cfr. Tabellini L’elusione, cit., 35. Contenuto Riservato!
In giurisprudenza, da ultime, Cass., 24 luglio 2000, n. 9663, retro, 2000, II, 894; Cass., 24 luglio 2000, n. 9666, retro, 2000, II, 989. Per un commento alle stesse, cfr. Nuzzo, Sull’imputabilità ad avviamento del disavanzo di fusione nelle prime pronunce della sezione tributaria della Suprema Corte, in Rass. trib., 2000, 1525 e ss.
Cfr. anche la spesso citata (altresì dalla pronuncia in commento) App. Milano, 4 marzo 1992, in Le Società, 1992, 959: «Non costituisce irregolarità (…) l’iscrizione nel bilancio dell’incorporante successivo alla fusione, dei beni provenienti dall’incorporata per valori superiori a quelli che essi avevano nel bilancio dell’incorporata, così da pareggiare l’ammontare al quale era iscritta in bilancio la partecipazione (totalitaria) nell’incorporata, ove non risulti che il valore di iscrizione della partecipazione fosse eccessivo rispetto all’effettivo valore dei beni dell’incorporata»; Comm. trib. I Grado Milano, 4 maggio 1996, n. 239, retro, 1996, II, 917, con ampia nota di Contrino, Sull’inapplicabilità dell’art. 10, l. n. 408 del 1990 (così come modificato dall’art. 28 della l. n. 724 del 1994) alle fusioni di carattere elusivo,al quale rinviamo altresì per ulteriori riferimenti.
Per la riconduzione dell’elusione fiscale all’interno del fenomeno dell’abuso del diritto, cfr. Tabellini, L’elusione fiscale, Milano, 1988, 128 ss., mentre, per un quadro generale dei rapporti tra elusione ed evasione, si veda Lovisolo, L’evasione e l’elusione tributaria, retro, 1984, I, 1286 ss., ove ulteriori riferimenti (per inciso, anche questo autore ritiene che l’elusione fiscale non comporti una violazione delle legge tributaria: cfr. 1290).
Sottolinea, a tale riguardo, Alessandri, L’elusione fiscale, cit., 1076, come la repressione penale dell’elusione in assenza (tuttora) di una clausola generale antielusiva, presenti il rischio di «chiedere alla norma penale di caricarsi tutto il peso derivante dall’assenza di una clausola generale tributaria, trasformando anzi la norma penale stessa nella clausola generale antielusiva».
Per altri riferimenti alla congruità del valore emergente dalla rivalutazione di un immobile, pur se in ambito estraneo alla fusione, cfr. Cass. 25 maggio 1993, in Giust. pen., 1994, II, 713.
Attribuisce significatività alla congruità del disavanzo onde giudicare del carattere elusivo di un’operazione di fusione altresì il Parere n. 5 del 1999 del Comitato consultivo per l’applicazione delle norme antielusive.
1. Fuori dei casi previsti dall’art. 2, è punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, sulla base di una falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie e avvalendosi di mezzi fraudolenti idonei ad ostacolarne l’accertamento, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi fittizi, quando, congiuntamente:
a) L’imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a lire centocinquanta milioni;
b) L’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi fittizi, è superiore al cinque per cento dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o, comunque, è superiore a lire tre miliardi.
Non sarà allora inutile ricordare come si sia ritenuta l’inevitabilità dell’errore desumibile dall’intervento di «un comportamento positivo degli organi amministrativi o da un complessivo pacifico orientamento giurisprudenziale», tale da ingenerare nell’agente «ilconvincimento della correttezza dell’interpretazione normativa, e conseguentemente della liceità del comportamento tenuto»(Cass., Sez. Unite pen., 10 giugno 1994, in Cass. pen., 1994, 2925,e in Foro It. 1995, II, c. 154: fattispecie relativa a reati urbanistici, in relazione ai quali le sezioni unite hanno confermato l’assoluzione pronunciata dal giudice di merito App. Napoli 23 febbraio 1993 per mancanza dell’elemento soggettivo del reato, motivata dalla convinzione degli imputati dell’assenza del vincolo di inedificabilità, più volte affermata in provvedimenti del giudice amministrativo, nonché in specifici atti ufficiali del ministero dei beni culturali e ambientali e del comune interessato, ed hanno conseguentemente ritenuto assorbita, perché irrilevante, la questione della sindacabilità, da parte del giudice ordinario, della concessione «macroscopicamente illegittima»). Ecco allora che, seppur con limitato riferimento ai reati contravvenzionali, è stato ritenuto che «L’elemento soggettivo nei reati contravvenzionali è escluso dalla buona fede dell’agente, circa la liceità del suo comportamento. Buona fede determinata non dalla mera non conoscenza della legge, bensì da un fattore positivo esterno (circolare ministeriale) che abbia indotto il soggetto in errore incolpevole»(così Cass., 1° luglio 1993, in Cass. pen., 1995, 1198. In senso analogo, cfr. Cass., 3 luglio 1990, in Cass. pen., 1992, 1222; Pret. Lodi, 14 luglio 1994, in Cass. pen., 1995, 190).