Perini Andrea, Frodi iva e bancarotta fraudolenta patrimoniale: limiti della normativa penale tributaria e “supplenza” del diritto penale fallimentare, in Dir. Pen. e Processo, 2007, 2, 230
Frodi iva e bancarotta fraudolenta patrimoniale: limiti della normativa penale tributaria e “supplenza” del diritto penale fallimentare
Sommario: Il funzionamento delle frodi IVA: la posizione del soggetto importatore – (Segue): l’insolvenza dell’importatore come fulcro delle frodi IVA – Lotta alle frodi IVA: i recenti interventi del legislatore – I reati fallimentari come fattispecie penali di contrasto alle frodi IVA – La pronuncia della Corte di cassazione: la bancarotta come baluardo al dilagare delle frodi IVA – Note conclusive
La sentenza in esame dovrebbe costituire il primo precedente, perlomeno giunto a pubblicazione, nel quale la Cassazione “consacra” la fattispecie di bancarotta fraudolenta patrimoniale a principale strumento di contrasto della dilagante piaga delle cosiddette “frodi IVA”.
Come è ormai noto, tale diffusa pratica di evasione fiscale si impernia sulla peculiare posizione occupata, sotto il profilo dell’imposta sul valore aggiunto, dal soggetto italiano che acquista beni provenienti da un soggetto estero residente nell’Unione europea per poi rivenderli ad altro soggetto italiano. In tal caso, infatti, il soggetto italiano acquista senza corrispondere l’IVA (in quanto acquista da un soggetto estero) ma rivende i beni incassando l’IVA proveniente dai propri clienti italiani. È quindi fatale l’accumularsi, in capo a tali soggetti “importatori”, di ingenti debiti scaturenti dall’IVA incassata sulle vendite realizzate nei confronti di soggetti residenti.
Ed infatti, di norma, il “meccanismo” che presiede al funzionamento dell’imposta sul valore aggiunto, attraverso il (tendenziale) bilanciamento tra acquisti e vendite assoggettate ad IVA, garantisce un (tendenziale) pari bilanciamento tra debiti e crediti IVA, così da prevenire l’insorgenza di forti esposizioni connesse a debiti per IVA. Ma, se questa è la regola, occorre altresì tenere presente che, laddove il punto di avvio della catena distributiva sia collocato all’estero (e, più precisamente, in un Paese dell’Unione), il processo di traslazione dell’IVA viene a modificarsi, consentendo l’emersione di discrepanze che – pur non pregiudicando il funzionamento dell’imposta – comportano la polarizzazione di forti posizioni di debito e di credito su soggetti differenti.
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In sintesi, l’interposizione di un confine nazionale comporta il (parziale) venir meno dello strumento della compensazione tra IVA a debito ed IVA a credito, con conseguente sdoppiamento di quelle posizioni che – normalmente – vengono invece ad essere compensate. Di qui l’emersione, appunto, di ingenti debiti per IVA in capo al soggetto che importa beni di provenienza comunitaria per rivenderli a soggetti residenti.
Il funzionamento delle frodi IVA: la posizione del soggetto importatore
Proprio su tali asimmetrie, di per sé perfettamente lecite, si fondano le cosiddette “frodi IVA”.
Ed invero, è chiaro come per l’erario possa divenire particolarmente pericolosa la posizione del soggetto (italiano) “importatore”, ossia di colui che acquista dall’estero (senza IVA) per rivendere in Italia beni che, quindi, vengono assoggettati ad IVA: infatti, come si rilevava, è fisiologico che un tale soggetto economico accumuli ingenti debiti per IVA, dovendo versare all’erario l’IVA che incassa sulle vendite e non avendo, per contro, IVA sugli acquisti da portare in (almeno parziale) compensazione.
In una tale eventualità, se il soggetto “importatore” non dovesse versare l’IVA ma dovesse, al contrario, spogliarsi di ogni suo bene e svuotare i propri conti bancari, l’erario verrebbe a trovarsi nell’impossibilità di recuperare quell’IVA incassata dal soggetto importatore allorquando ha ceduto a soggetti italiani i propri beni provenienti dall’estero.
Proprio su tale distorsione illecita del sistema affonda le radici la pratica divenuta ormai nota come “frode IVA” o, nei casi più articolati, come “carosello IVA” (1): infatti, è agevole intuire come, in linea di principio, rischi di rivelarsi assai remunerativo un sistema che miri a sfruttare le descritte asimmetrie costruendo una catena distributiva imperniata proprio sulla fragilità del soggetto importatore.
In un tale scenario, ecco che la struttura distributiva nella quale si articolano i modelli più semplici di frode vede così, al proprio apice, un soggetto (produttore o distributore, poco importa) residente in un paese dell’Unione diverso dall’Italia. A “valle” rispetto a tale soggetto si colloca il vero fulcro della frode, ossia un soggetto importatore italiano che, a propria volta, rivende i beni importati al “reale” acquirente, ossia a quel soggetto che, effettivamente, si occuperà della collocazione del bene sul territorio nazionale, rivendendolo direttamente al consumatore finale oppure ad un ulteriore distributore. Giusta quanto si è dianzi rilevato, è chiaro come “l’importatore italiano” sia destinato ad accumulare ingenti debiti per IVA.
Tuttavia, è importante non perdere di vista come, fino a questo punto, il meccanismo descritto possa rivelarsi del tutto lecito ed obbedire a reali motivazioni imprenditoriali: in particolare, all’esigenza di costruire un’adeguata catena distributiva e/o di approvvigionarsi di beni particolari attingendo a mercati esteri più competitivi rispetto al mercato interno.
(Segue): l’insolvenza dell’importatore come fulcro delle frodi IVA
I profili di illiceità, invece, sorgono laddove il soggetto “importatore” sia ab origine destinato ad essere sistematicamente “svuotato” di risorse economiche, così da esser reso inadempiente nei confronti dei propri debiti IVA e, quindi, votato al fallimento. Ed è proprio questa patologia della catena distributiva a dar vita alla “frode IVA”.
Infatti, in tale costruzione, l’intera rete di distribuzione viene sdoppiata al di là ed al di qua dei confini nazionali onde consentire l’insorgenza delle suddette asimmetrie tra debiti e crediti IVA. Punto focale della frode diviene così il soggetto “importatore”, votato all’insolvenza in quanto acquista in esenzione IVA per rivendere incassando dai propri clienti quell’IVA che viene sistematicamente distratta a beneficio dell’intera catena.
Evidenti i vantaggi economici di un tale “carosello”: mentre la posizione del soggetto estero è del tutto “trasparente” rispetto all’IVA, il soggetto importatore effettua la distrazione sistematica di IVA pari al 20% del valore dei beni ceduti. Ciò può consentire un notevole abbattimento dei prezzi di vendita, garantendo, non solo al soggetto estero ma anche ai distributori italiani, la possibilità di collocare sul mercato beni a prezzi assai competitivi.
Chiaro, quindi, come lo stesso mercato sia assai incline ad assorbire soggetti dediti a tali manovre nonché i beni provenienti dalle stesse, in quanto dotati di una spiccata competitività, perlomeno sotto il profilo dei prezzi praticati.
Inoltre, nei singoli passaggi dei beni in questione da una società all’altra, una parte dello spread garantito dall’evasione di IVA si disperde fatalmente in molti rivoli distrattivi, andando a rimpinguare le casse degli artefici di una tale mise en scène.
Dunque, una manovra della quale tutti sembrano beneficiare ma il cui onere grava, ovviamente, sull’erario, in quanto è proprio la perdita di gettito di IVA a “finanziare” l’intero “carosello”, sia sub specie di risparmio di prezzo da parte dell’acquirente finale che sotto forma di distrazione tout court delle sostanze incassate dal soggetto importatore.
Inoltre, l’introduzione sul mercato di beni provenienti da “frodi IVA” rappresenta un elemento di distorsione del mercato stesso, in quanto l’evasione dell’imposta consente di offrire tali beni a prezzi particolarmente competitivi e, quindi, in grado di “spiazzare” la concorrenza che agisca lecitamente. Effetto tanto più pernicioso quanto maggiore sia la fetta di mercato penetrata da tale pratica.
Un tale meccanismo, poi, appare particolarmente efficace in mercati assai concorrenziali in quanto caratterizzati da elevata fungibilità dei beni, laddove, quindi, la leva del prezzo risulta cruciale per la vendita di un bene. Si comprende, così, come tale pratica abbia particolarmente attecchito, ad esempio, nel mercato delle autovetture, peraltro oggetto della vicenda giunta all’attenzione della Cassazione, raggiungendo dimensioni tali da contrastare – grazie a politiche di prezzo particolarmente spinte – persino la collocazione sul mercato di autovetture di produzione italiana o anche soltanto di provenienza estera “regolare”.
In un tale scenario, quindi, appare particolarmente inquietante una statistica recentemente pubblicata dalla quale emerge una perdita di gettito, in conseguenza delle frodi IVA, stimata – a livello comunitario – tra i 70 ed i 100 miliardi di euro (2).
Lotta alle frodi IVA: i recenti interventi del legislatore
Per contrastare tali forme di evasione fiscale, il legislatore ha recentemente ritenuto di dover intervenire, sul piano penale, coniando una fattispecie ad hoc, volta a colpire l’omesso versamento dell’IVA dichiarata. Attraverso tale fattispecie, infatti, il legislatore ha sostanzialmente preso atto di come, assai spesso, il soggetto importatore di beni oggetto di frodi IVA tenti di sottrarsi alla sfera di intervento penale presentando una dichiarazione IVA conforme a verità (dunque, dichiarando un rilevante debito IVA) alla quale, tuttavia, non fa ovviamente seguito il pagamento di un tale debito. Per tale via, quindi, il soggetto importatore sfuggirebbe all’area di prensione punitiva del delitto di omessa presentazione della dichiarazione annuale (art. 5 d.lgs. n. 74 del 2000).
Per colmare una tale lacuna del sistema, il legislatore ha recentemente introdotto l’art. 10-ter d.lgs. n. 74 del 2000, fattispecie cui è stata affidata proprio la repressione di un tale escamotage (3). Peraltro, non è inutile segnalare come – sotto il profilo amministrativo – il legislatore avesse già introdotto forme di solidarietà passiva del cessionario rispetto all’omesso pagamento, da parte del cedente, dell’IVA relativa a particolari categorie di beni, laddove questi fossero stati ceduti a prezzi inferiori a quelli di mercato (3). In una sorta di presunzione amministrativa di frode IVA, quindi, l’erario si era già dotato della possibilità di richiedere anche al cessionario l’IVA non versata dal cedente.
I reati fallimentari come fattispecie penali di contrasto alle frodi IVA
Sennonché, come la magistratura inquirente più avveduta non aveva mancato di percepire, lo strumentario repressivo più efficace per contrastare tali frodi non alberga, singolarmente, nel diritto penale tributario. E, d’altro canto, anche la fattispecie da ultimo introdotta contempla una pena talmente contenuta da indurre a dubitare della sua reale efficacia: anche prescindendo dal recente indulto, infatti, la reclusione da sei mesi a due anni non sembra assolvere ad una reale funzione dissuasiva, e ciò sia nella prospettiva della sospendibilità della pena che sotto il profilo degli strumenti di indagine concessi al pubblico ministero, il quale – alla luce dell’art. 266 c.p.p. – si vede precluso il ricorso alle più penetranti forme di ricerca della prova. E, last but not least, il “tetto” dei 2 anni di reclusione, seppur in linea con altre analoghe fattispecie incriminatici, non permette il ricorso a misure cautelari detentive.
In questo scenario, rimasto quindi sostanzialmente immutato anche dopo l’approvazione del noto “decreto Bersani”, alla magistratura inquirente non era sfuggito come il reale “nocciolo” delle frodi IVA fosse costituito, a ben vedere, da una classica e tutto sommato banale condotta di bancarotta patrimoniale. Difficile, infatti, ravvisare una tangibile differenza tra il protagonista di una frode IVA e colui che acquista beni a credito per poi distrarne il ricavato e darsi alla macchia. In ambedue le situazioni, ad essere “frodato” è il creditore della società, con l’unica peculiarità che, nel primo caso, tale creditore è l’erario. Dunque, si tratta pure di un creditore che non ha nemmeno potuto scegliere il soggetto da finanziare, atteso che una tale forma di credito è connaturata alla disciplina che governa il funzionamento dell’imposta sul valore aggiunto.
La pronuncia della Corte di cassazione: la bancarotta come baluardo al dilagare delle frodi IVA
Anche prima della pronuncia in commento era difficile non condividere un tale inquadramento, sotto il profilo penale fallimentare, delle frodi IVA.
Una simile interpretazione, infatti, veniva in qualche misura suggerita già da quel risalente orientamento giurisprudenziale che ha ritenuto rilevanti penalmente condotte di metodica vendita “sotto costo” di merce acquistata a credito, talora iscrivendole nell’ambito della distrazione (4) e talora in quello della dissipazione (5). E non vi è dubbio che la frode IVA comporti, almeno in parte, una vendita “sotto costo” dei beni oggetto di frode, atteso che, come si è detto, è proprio la distrazione dell’IVA a finanziare quell’abbattimento di prezzo che assicura il “successo” economico della frode.
Ma, soprattutto, è la chiara lettera dell’art. 223 comma 2 n. 2 l. fall. a suggerire una tale soluzione, laddove punisce il cagionamento del fallimento attraverso il ricorso ad “operazioni dolose”. Ed infatti, pare davvero arduo ritenere che un meccanismo frodatorio quale quello in esame non assuma i connotati dell'”operazione dolosa”: sotto il profilo prettamente fiscale, infatti, tale pratica contrasta quantomeno con l’art. 21 d.P.R. n. 633 del 1972, dando luogo a numerose fatturazioni di operazioni soggettivamente inesistenti (6). Ma è soprattutto nella prospettiva fallimentare che tale disegno di evasione trasuda tutta la sua illiceità, apparendo nitidamente come strumento di violazione dei vincoli posti, ex art. 2740 c.c., alla garanzia creditoria.
Ed infatti, elemento centrale della frode IVA è proprio lo stato di endemica insolvenza provocato in capo al soggetto importatore, il quale subisce la costante distrazione dei fondi necessari ad assolvere gli obblighi in materia di IVA. E ciò sia sub specie di effettivo dirottamento, su conti riservati, di parte del prezzo incassato dalla cessione dei beni importati, e sia sotto forma di cessione di tali beni a prezzi che ab origine non consentono di versare la relativa imposta sul valore aggiunto, atteso che il prezzo netto di cessione è inferiore rispetto al costo di acquisto del bene importato. Dunque, i beni importati fuoriescono dal patrimonio dell’importatore in assenza di una contropartita adeguata e, quindi, commisurata (anche) all’onere dell’IVA.
Note conclusive
Una tale costruzione interpretativa gode, ora, dell’autorevole avallo della Corte di cassazione, ancorché oggetto di pronuncia sia stata la legittimità di un provvedimento di custodia cautelare.
Intervenendo sul profilo della sussistenza degli indizi di colpevolezza, infatti, la Corte qualifica come bancarotta fraudolenta patrimoniale proprio quella forma di attacco all’integrità della garanzia creditoria che sorregge la frode IVA, il cui risultato ultimo è evidentemente quello di presentare all’erario, di norma creditore disattento, un contribuente gravato da ingenti debiti ma ormai del tutto insolvente.
Di qui la possibilità di trarre, da una tale sentenza, qualche ulteriore ed interessante corollario.
In primo luogo, la pronuncia in questione interviene in un caso in cui il soggetto importatore era un imprenditore individuale. Il fatto che la Corte abbia ritenuto comunque rilevante ex art. 216 l. fall. la condotta in esame, sembra in qualche misura avallare quell’autorevole orientamento dottrinale (7) che ha da tempo escluso che l’art. 223 comma 2 n. 2 l. fall., assolva ad una reale funzione incriminatrice, limitandosi piuttosto a ribadire la generale regola che governerebbe la bancarotta e che vorrebbe penalmente rilevante qualsiasi dolosa lesione della garanzia creditoria.
Nel caso di specie, infatti, la Corte, si limita a prendere atto di come «gli importi corrispondenti all’IVA fatturata risultavano fin dall’origine destinati ad essere sottratti alla loro naturale destinazione all’erario» per concludere nel senso della sussistenza del reato. In sostanza, quindi, la Corte sembra in qualche modo condividere l’argomento per cui le “operazioni dolose” di cui all’art. 223 l. fall. non possano, in fondo, non presentare una congenita connotazione distrattiva o, comunque, confliggere con il disposto dell’art. 2740 c.c. (8).
Inoltre, questa presa di posizione della Corte porta acqua anche alla tesi che rinviene nelle frodi IVA una condotta rilevante ex art. 11 d.lgs. n. 74 del 2000, risolvendosi in un’ipotesi di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte (9). Giusta la clausola di sussidiarietà posta in apertura della norma, è chiaro che una tale fattispecie non troverà applicazione allorquando sussista una declaratoria fallimentare e, dunque, la punibilità dei fatti in questione a titolo di bancarotta. Nondimeno, laddove lo scenario fallimentare non si fosse ancora aperto, oppure non fosse più percorribile per il decorso del termine previsto dall’art. 10 l. fall., il delitto in questione risulta assolvere ad un funzione di tutela in qualche modo residuale ma, comunque, tutt’altro che marginale, vista l’entità della risposta sanzionatoria.
Infine, la potenziale rilevanza penale fallimentare delle frodi IVA sembra consentire di superare agevolmente un’altra asperità ermeneutica – prospettata da un’autorevole dottrina (10) – che potrebbe porsi in presenza di frodi particolarmente articolate e pianificate da una pluralità di soggetti riuniti in un sodalizio criminoso. Ed infatti, la dottrina segnalata ha preso le mosse dall’art. 9 d.lgs. n. 74 del 2000 per adombrare una possibile incompatibilità tra la fattispecie associativa di cui all’art. 416 c.p. ed i delitti contemplati dagli artt. 2 ed 8 del medesimo decreto, fattispecie frequentemente evocate anch’esse per contrastare le frodi IVA (11). Non è questa la sede per dar conto delle questioni che pone sia la delimitazione dell’area applicativa dell’art. 416 c.p. che la riconducibilità delle frodi IVA alle fattispecie penali di emissione ed utilizzo di fatture per operazioni inesistenti. Ciò che, invece, preme ora sottolineare è l’indubbia possibilità che l’art. 223 l. fall. possa assolvere il ruolo di reato fine rispetto alla fattispecie associativa di cui all’art. 416 c.p. E, come è ormai evidente, il connubio tra tali risposte punitive arma il giudice penale di uno strumento assai acuminato per debellare le frodi IVA.
Tirando le fila di queste brevi considerazioni, vale forse la pena ribadire la portata di questa pronuncia della Cassazione, sottolineando l’importante indicazione che da essa proviene. Ed infatti, da questa presa di posizione, tutto sommato prevedibile ma non per questo meno significativa, emerge come sia proprio nel sistema dei reati fallimentari che debba essere ricercato lo strumento più efficace per contrastare questa perniciosa forma di frode fiscale.
Ciò che affiora, tuttavia, è una sorta di (efficace) supplenza del diritto penale del fallimento rispetto a taluni profili di inefficacia del sistema penale tributario messi a nudo dalle più raffinate forme di evasione. Sotto questo profilo, le pesanti sanzioni previste per la bancarotta, la sua compatibilità con la fattispecie associativa, il lungo termine di prescrizione e la sua decorrenza dalla data del fallimento, fanno del reato fallimentare la più temibile forma di repressione della criminalità economica in generale e, forse un po’ sorprendentemente, anche della criminalità fiscale.
Certo, anche il ricorso ad un tale strumento esige un prezzo, scolpito dall’art. 10 l. fall.: trascorso 1 anno dalla cancellazione dal registro delle imprese, il contribuente non potrà più essere dichiarato fallito. È questa, quindi, la “spada di Damocle” che pende sull’Amministrazione finanziaria e sul Pubblico ministero, dando vita ad un’autentica corsa contro il tempo che conduce gli evasori ad accorciare sempre più la vita delle loro società di importazione e la Guardia di finanza a raffinare gli strumenti di indagine onde renderli più efficaci e tempestivi. E, sotto questa prospettiva, è certamente curioso prendere atto di come un significativo rafforzamento della lotta all’evasione fiscale possa transitare attraverso l’eventuale modifica dell’art. 10 l. fall., apparentemente così lontano dagli interessi dell’erario (12).
Resta, in ogni caso, la singolare constatazione che vede la più antica figura di reato economico, risalente al Medioevo (13), assolvere al ruolo di solido argine a fronte delle più moderne forme di evasione fiscale: in un momento di repentine e, talvolta, raffazzonate riforme, mini-riforme e “ritocchi” del sistema penale, vale la pena tenere a mente il monito manzoniano secondo il quale non sempre ciò che viene dopo è progresso.
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(1) Per una articolata ricostruzione di tale fenomeno, per tutti, Izzo, Reati transnazionali ex l. n. 146/2006 e ricadute sanzionatorie sul contrabbando di tabacchi lavorati esteri e sulle frodi carosello, in Fisco, 2006, 4544; Peirolo, Le “frodi carosello” in ambito intracomunitario e le recenti misure di contrasto allo studio della Commissione UE, ibidem, 5005; Magni-Sopranzetti, Carosello IVA e sequestro preventivo. Truffa o frode fiscale?, ibidem, 2006, 5099; Antonacchio-Monfreda, Le società “filtro” nelle frodi IVA, ivi, 2005, 7062. V. altresì gli scritti raccolti in AA.VV., “Frodi IVA”: Analisi del fenomeno e adeguatezza degli interventi di contrasto (Atti del Convegno organizzato dall’Agenzia delle entrate-Direzione regionale ligure e dal Centro di Diritto penale tributario di Torino, Genova, 1 dicembre 2005), in http://liguria.agenziaentrate.it.
(2) Caprino-Nastasia, Frodi IVA, la UE alza il tiro, in Il Sole 24-Ore, 23 gennaio 2006, 25.
(3) Cfr. il noto d.m. 22 dicembre 2005, in G.U., 31 dicembre 2005, n. 304 e in Fisco, 2006, 286 ss. Su tale argomento, per tutti, Mastrogiacomo, La responsabilità solidale del cessionario nelle frodi IVA (art. 60-bis del dPR n. 633/1972), ibidem, 2639; Ditolve, Frodi IVA e norme di contrasto, ivi, 2005, 5518. Per una “ratifica comunitaria” di tale forma di solidarietà passiva, v. CGCE, 12 gennaio 2006, cause riunite C-354/03, C-355/03, C-484/03, in GT, 2006, 285 ss.
(4) Trib. Napoli, 8 ottobre 1980, Cerciello, in Il Fall., 1981, 557.
(5) Ad es., Cass., Sez. V, 21 marzo 1979, Gilli, in Cass. pen., 1980, 1458.
(6) E non privo di significatività, sotto questo profilo, è il precedente, in materia di contrabbando, costituito da Cass., Sez. V, 24 giugno 1992, Chiabotti, in Riv. pen. ec., 1993, 351.
(7) V. Giuliani-Balestrino, La bancarotta e gli altri reati concorsuali, Milano, 1999, 437 ss.
(8) Ed è, a ben vedere, esattamente quanto ha da tempo sostenuto Giuliani-Balestrino, op. cit., 437 ss.
(9) E cfr., pur in uno scenario che parrebbe alquanto eterogeneo rispetto a quello in esame, la recente Cass., 18 maggio 2006, in Fisco, 2006, 4882 ss.
(10) Caraccioli, Interposizione e norme antifrodi in materia di IVA: profili penali, in Fisco, 2006, 2156. E v. altresì Id., Omesso versamento IVA, “frodi carosello” e concorso di persone, ibidem, 4877. In senso contrario, cfr. Izzo, Associazione per delinquere e frodi carosello in tema di IVA, ibidem, 4059, nonché Trib. Milano, 22 marzo 2005, ibidem, 426.
(11) Per un importante precedente in tal senso, in materia di art. 8, cfr. Cass., Sez. III, 13 aprile 2006, in Fisco, 2006, 5827.
(12) Peraltro, per una interpretazione “controcorrente” dell’art. 10 l. fall, v. Trib. Padova, 13 agosto 2004, in Le Società, 2005, 765.
(13) Se ci si riferisce alla bancarotta come reato connesso al fallimento e non al mero inadempimento del debitore in quanto, altrimenti, occorrerebbe risalire assai più indietro nel tempo. |
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