Massimo Franzoni, Diritto, processo e precedente giudiziario, in Politica del diritto, 2013, p. 415 ss.
Diritto, processo e precedente giudiziario (*)
Prof. Massimo Franzoni, Alma Mater Studiorum
Università di Bologna
Sommario: 1. Il sistema delle fonti del diritto si modella a rete. – 2. Segue: le altre fonti. – 3. Il ruolo dell’interprete nella creazione del diritto. – 4. L’impiego della sentenza nella creazione del diritto. – 5. Il “diritto vivente” come risultato del dialogo fra le corti. – 6. Il “diritto vivente” e la legge. – 7. L’overruling e la certezza del diritto. – 8. Il giurista, il diritto e il processo.
1. Il sistema delle fonti del diritto si modella a rete.
Occorre constatare che il diritto non si identifica più univocamente con la legge. Questo dato di fatto può apparire banale, dal momento che le fonti del diritto sono sempre state variegate e tra diritto e legge c’è sempre stato un rapporto da genere a specie. Senonché l’attenzione rivolta alla legge, strumento cardine su cui si è consolidato il diritto positivo, ha distolto l’attenzione sulle altre fonti e in particolare sulla consuetudine che per molti secoli ha dominato la scena dell’Europa, quindi della quasi totalità dell’occidente (1).
Occorre, inoltre, constatare che il modello delle costituzioni del secondo novecento, con l’impiego della rigidità, alla stregua dell’art. 138 cost., ha differenziato l’efficacia della legge con un criterio diverso da quello usuale della territorialità. Ci sono norme di legge che valgono di più di altre, nello stesso luogo, e a prescindere dalla struttura federale di uno Stato, che implica fisiologicamente la compresenza di norme provenienti da organismi diversi. Proprio questa architettura giuridica ha contribuito a valorizzare i diritti umani come diritti fondamentali, specie i diritti inviolabili dell’uomo (2); ha favorito l’invenzione di concetti nuovi o nuove tecniche, come l’interpretazione costituzionalmente orientata della norma, che disvelano una incrementata complessità nell’applicazione della regola giuridica.
L’adesione dell’Italia al Trattato sull’Unione europea ha comportato una limitazione della sovranità interna in favore di norme formali di creazione transnazionale le quali prevalgono su quelle interne; si ritiene persino che, in conseguenza dell’appartenenza all’Unione europea, l’interpretazione delle norme costituzionali debba tener conto dei principi comunitari, con il solo limite dell’intangibilità dei principi e dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione. Questo c.d. “controlimite” ha un rilievo sistematico e qualitativo essenziale, sebbene non sia facilmente pensabile che organismi creati da ordinamenti di Stati dell’occidente, quindi di cultura e tradizione affini, possano creare un diritto che contrasti in concreto con i diritti fondamentali predicati dalla nostra Costituzione. Al riguardo mi sembra dirimente l’art. 6, comma 3º, del Trattato sull’Unione europea, successivamente modificato, secondo il quale «i diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali» (3).
Di fatto, l’adesione a questo Trattato ha comportato un’altra articolazione del sistema delle fonti ed in particolare una diversa graduazione di efficacia delle norme di legge, in ragione della diversa autorità dell’organo emanante, a prescindere dall’elemento della territorialità. Anche a questo riguardo si è riproposto il tema dell’interpretazione della legge ordinaria orientata a dare applicazione ai principi comunitari. Talvolta questo procedimento è incentivato proprio dalla stessa legge interna, come prevede l’art. 1, comma 4º, l. 10 ottobre 1990, n. 287: «l’interpretazione delle norme contenute nel presente titolo è effettuata in base ai principi dell’ordinamento delle Comunità europee in materia di disciplina della concorrenza» (4).
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L’attuale art. 117, comma 1º, cost. con la distinzione introdotta sul piano delle fonti fra i «vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali» ha creato una ulteriore articolazione. È proprio sulla base di questa scelta di architettura costituzionale che il giudice delle leggi ha attribuito un ruolo intermedio alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo fra le norme costituzionali e quelle ordinarie. È stato deciso che «l’art. 117, comma 1º, cost. condiziona l’esercizio della potestà legislativa dello stato e delle regioni al rispetto degli obblighi internazionali, fra i quali rientrano quelli derivanti dalla convenzione europea dei diritti dell’uomo, le cui norme pertanto, così come interpretate dalla corte europea dei diritti dell’uomo, costituiscono fonte integratrice del parametro di costituzionalità introdotto dall’art. 117, comma 1º, cost., e la loro violazione da parte di una legge statale o regionale comporta che tale legge deve essere dichiarata illegittima dalla corte costituzionale, sempre che la norma della convenzione non risulti a sua volta in contrasto con una norma costituzionale» (5).
L’attuale art. 117 cost. si compone di altri commi con i quali è stata introdotta la potestà legislativa alle regioni, in via generale, in via concorrente con quella statuale, tenuto conto di quella esclusiva riservata allo Stato. Anche questo nuovo assetto che vedrà un incremento del lavoro della Corte costituzionale comporta una ulteriore frammentazione del sistema delle fonti: la norma giuridica deve essere ricercata, dall’interno della legge, seguendo un percorso che si è articolato e che spesso è il risultato di dialoghi tra “diversi legislatori” (6).
2. Segue: le altre fonti.
Finora ho fatto cenno all’articolazione del sistema delle fonti che si muove all’interno della rappresentatività politica e che impiega il principio di maggioranza, come sinonimo di democrazia, per produrre la norma giuridica, ossia il diritto positivo comunemente inteso. Senonché gli ultimi decenni del secolo appena trascorso sono stati interessati anche da un fenomeno diverso che ha concorso ad avvalorare la tesi secondo la quale il diritto non si identifica più con la legge. Alludo all’impatto che la nuova lex mercatoria ha avuto nella regolamentazione dei rapporti fra privati, specie nella soluzione di rilevanti controversie nelle quali a decidere sono stati arbitri incardinati presso Camere arbitrali riconosciute nel mondo per la loro importanza, derivante da un’acquisita autorevolezza (7). Questo diritto per una parte si forma sugli usi, come del resto la sua progenitrice lex mercatoria; per un’altra si forma per prassi pattizie ripetute in ordinamenti diversi da quelli che hanno visto nascere il regolamento contrattuale; per un’altra ancora si forma dalla cultura del giudice che è chiamato a decidere delle controversie, a prescindere dai criteri spazio temporali del diritto positivo moderno.
C’è poi un altro sistema di produzione di regole che in determinati settori costituisce quasi la fonte esclusiva per la disciplina di certi rapporti che sono emanate da Autorità indipendenti, le quali non hanno l’investitura delle assemblee legislative. La Banca d’Italia, l’Ivass, la Covip, la Consob, Borsa italiana s.p.a., le altre authority, penso a quella della privacy, con provvedimenti variamente denominati (regolamenti, circolari, pareri, raccomandazioni e così via) dettano le norme giuridiche per il rapporto. A questi fini non è determinante sapere se la natura giuridica di questi provvedimenti sia o non sia quella dell’atto amministrativo regolamentare. Il punto fondamentale è che i rapporti tra i privati, operatori economici talvolta in posizione contrapposta, e l’organizzazione delle istituzioni dell’economia, come le banche, le assicurazioni, le società quotate, sono sempre più dipendenti da queste regole, la cui fonte non poggia sul principio di sovranità, ma su un’idea che, in senso lato, potremmo chiamare tecnocrazia (8).
Pur senza pretese di completezza va dato atto di un altro sistema di produzione di regole. Penso a quei consessi che si svolgono fra persone riconosciute talmente autorevoli da demandare loro la creazione di regole che, pur in mancanza della forma del diritto positivo, ugualmente poi verranno osservate. Penso al modo in cui vengono creati gli IAS (International Accounting Standards) da parte dello IASB (International Accounting Standards Board), organismo interno allo IASC foundation (International Accounting Standards Committee).
Penso a quel progetto elaborato da un’apposita Convenzione presieduta da Roman Herzog (ex presidente della Repubblica Federale tedesca) e composta di 62 membri, meglio nota come Carta di Nizza. Nel dicembre 2009, con l’entrata in vigore del trattato di Lisbona, è stato conferito alla Carta lo stesso effetto giuridico vincolante dei trattati. A tal fine, la Carta è stata modificata e proclamata una seconda volta nel dicembre 2007. Prima del 2009, era dubbio che questa carta contenesse delle vere e proprie norme giuridiche, secondo il tradizionale sistema delle fonti. Senonché è altrettanto vero che nessun giudice nazionale ha mai pensato di non riconoscere l’esistenza di alcuno dei diritti in questa carta menzionati, in sostanza tutti gli interpreti hanno ragionato come se quella Carta contenesse vere e proprie norme giuridiche.
Pur con qualche cautela, un ragionamento analogo può essere ripetuto anche per certe norme deontologiche, in ragione dell’autorevolezza dell’organismo che le ha emanate. Penso alle norme di certi codici deontologici approvati dagli organismi di alcune categorie professionale come i medici gli avvocati e così via che; penso al regolamento che è alla base del Giurì di autodisciplina pubblicitaria, le cui regole di condotta hanno fonte negoziale, come si suol dire (9); penso al Codice di Autodisciplina approvato dal Comitato per la Corporate Governance e promosso da Borsa Italiana s.p.a. e da ABI, Ania, Assogestioni, Assonime e Confindustria (10). I giornalisti da qualche decennio hanno avvertito l’esigenza di darsi una serie di regole di autodisciplina (11), in seguito questa esigenza sarebbe stata avvertita da altre categorie professionali ed immediatamente è stato rilevato che il carattere di queste norme aveva una impronta propriamente transnazionale, anche se all’epoca questo sintagma non aveva l’uso frequente al quale ci siamo abituati (12). La legge sulla privacy successivamente avrebbe ulteriormente favorito lo sviluppo di questa normazione, con l’ausilio del garante, al quale è attribuito il ruolo di promotore (art. 12 d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196).
Quand’anche quelle regole non siano vere e proprie norme giuridiche, tuttavia sono passibili di un impiego che sostanzialmente non diverge da quello proprio di tutte le norme giuridiche (13).
3. Il ruolo dell’interprete nella creazione del diritto.
Il mutamento del sistema delle fonti non è neutro quando si voglia indagare sul rapporto fra interprete e legge, e quando si voglia riflettere sulle diverse tecniche di interpretazione della stessa legge. Il compito dell’interprete è sempre più distante da quello di bouche de la loi, secondo l’idea illuministica del tempo della legislatio; spesso è proprio l’interprete che deve individuare la norma, componendola a partire da svariati frammenti dispersi nella “rete” in cui si trova il sistema delle fonti. L’“interpretazione costituzionalmente orientata” delle norme, così come l’“interpretazione volta a garantire enforcement ai principi del diritto comunitario”, predica un ruolo del giudice ben lontano da quello di bouche de la loi. Alla luce della nuova funzione c’è chi attribuisce all’ordinamento giudiziario nel suo complesso, e non solo alla Corte costituzionale, il ruolo di organo di garanzia costituzionale (14).
In alcuni momenti, inoltre, sembra che il legislatore non sia stato in grado di seguire i mutamenti della società civile con la tempestività che era richiesta dalla contingenza. Questo fenomeno è bene descritto in alcuni passi delle Relazioni presentate in occasione dell’Assemblea Generale della Corte di Cassazione sull’amministrazione della giustizia, tanto quella del suo primo presidente, quanto l’Intervento del Procuratore generale di qualche anno fa (15). In quei testi è evidentissimo che «tramontato l’ideale illuministico di una legge perfetta, espressione gelosa della sovranità nazionale, è oggi la dimensione europea ad indicarci una nozione nuova di legalità – attenta ad aspetti sostanziali più che formali – connotata dalla trasformazione del ruolo partecipativo della giurisprudenza alla formazione della norma o, come si legge in numerose sentenze della Corte costituzionale, del “diritto vivente” ed ancorata al rispetto dei diritti fondamentali della persona umana». Si aggiunge anche: «Occorre, altresì, riconoscere che la funzione legislativa è entrata in crisi anche sotto altro aspetto: la legge – in Italia come in altri Paesi – non riesce a regolare la complessità del reale; non riesce a tener dietro alla vertiginosa accelerazione dei processi sociali. Essa, inoltre, assume spesso carattere valutativo e non meramente descrittivo; ha bisogno del giudice per essere integrata nei suoi contenuti» (16).
Si tratta di affermazioni icastiche che mostrano un mutato ruolo del giudice, quindi dell’interprete, nel contesto di un diritto che è cambiato. Fra l’altro ciò che colpisce di queste relazioni è che descrivono il ruolo dell’operatore giuridico così come è, non già così come dovrebbe essere per il futuro (17). Ma se la legge non riesce a seguire il passo dei tempi a chi il compito di porvi rimedio? Nel corso del tempo questo spazio è stato occupato in via di fatto dalla giurisprudenza che, precedente su precedente, ha introdotto sostanziali modifiche nel diritto civile. Quelle più evidenti hanno riguardato la diversa portata precettiva della clausole generali contenute nel codice civile. Si pensi come è cambiato il fatto illecito, in seguito alla diversa portata precettiva attribuita al danno ingiusto dell’art. 2043 c.c., dal caso Meroni (18), fino al riconoscimento della tutela risarcitoria della lesione degli interessi legittimi (19), che forse chiude un percorso incominciato con la tragedia di Superga del 4 maggio 1949 (20).
Si pensi ancora a quanto è accaduto in sede di applicazione della clausola generale di buona fede dell’art. 1375 c.c. Dopo la sentenza sul caso Fiuggi, la buona fede è diventata una norma che consente di integrare il regolamento contrattuale (art. 1374 c.c.), introducendo obblighi che il testo contrattuale non prevedeva ed addirittura in contrasto con quello (21); dopo il caso Renault la stessa buona fede del medesimo articolo è diventata una norma con la quale si può evitare l’abuso del diritto e sulla quale si può, quindi, costruire la figura dell’exceptio doli generalis (22).
Senonché il processo creativo del diritto attraverso l’impiego dei precedenti ha investito anche ambiti non regolati da clausole generali, ed è proprio su queste che vale la pena di soffermarsi. Naturalmente la disamina non ha pretese di completezza ed investe soltanto alcuni settori del diritto privato, tralasciandone altri nei quali pure gli orientamenti giurisprudenziali sono il vero diritto vigente: penso alla disciplina delle revocatorie fallimentari prima della riforma, alla concorrenza sleale, senza dire di altri settori come il diritto del lavoro. Rimanendo al settore che ci occupa tra le principali innovazioni introdotte per via giurisprudenziale c’è sicuramente quella che ha riguardato gli usi bancari. Per lungo tempo, forse non sempre espressamente, questi sono stati intesi come usi normativi (art. 1 disp. att. c.c.); dal 1999 con una serie di sentenze pronunciate da diverse sezioni (23) e successivamente confermate dalle sezioni unite (24) gli stessi usi sono stati intesi come contrattuali (art. 1340 c.c.). Qui non è necessario indagare sul ragionamento seguito nella motivazione e neppure sulla fondatezza delle conclusioni raggiunte, è sufficiente constatare che sulla vicenda è dovuto intervenire a più riprese il legislatore e l’ultima pronuncia è stata della corte costituzionale (25). Con questo revirement è sostanzialmente mutato un certo rapporto fra cliente e banca, per decenni impostato sulle prassi di fatto interne alla banca e sulle modifiche unilaterali del contratto. Sicuramente questi precedenti sono stati all’origine di una normativa più ampia diretta a fornire una maggior tutela al risparmiatore.
C’è un altro ambito, che ha dato luogo ad un fenomeno molto italiano, in cui la giurisprudenza ha risolto diversi problemi posti dall’emergenza sociale: penso a quella casistica che si può riassumere nella figura del “contatto sociale”. La vicenda nasce ancora nel 1999 per trovare la disciplina al rapporto fra paziente e sanitario (26) ed al rapporto fra amministratore di fatto e società che eserciti l’azione di responsabilità nei suoi confronti (27). L’attore in giudizio deve assolvere all’onere della prova di un comune creditore dell’obbligazione, quindi si potrà avvalere del riparto stabilito dall’art. 1218 c.c. (28) e non dell’art. 2043 c.c. Inoltre la prescrizione applicabile al rapporto è quella ordinaria (art. 2946 c.c.) e non quella speciale, più breve, dell’art. 2947 c.c.
Anche questo revirement ha avuto un certo successo al punto che dietro il contatto sociale c’è stato sostanzialmente un ripensamento del sistema delle fonti dell’obbligazione che ha comportato una riqualificazione per una variegata tipologia di illeciti (29), fino a comprendere anche quello da rottura ingiustificata della trattative, dalla quale secondo molti autori avrebbe dovuto prendere le mosse (30).
Non si può non dare atto del revirement sull’art. 2059 c.c.; la sua rilettura costituzionale ha portato a mutare completamente la fisionomia del danno non patrimoniale con le sentenze gemelle del 2003 (31). Un bene o un interesse di rilievo costituzionale può soddisfare la riserva di legge prevista dall’art. 2059 c.c., mutando completamente orientamento sul modo di intendere la norma, stabilizzatosi da oltre sessant’anni. Questo orientamento avrebbe ricevuto a breve l’imprinting della Corte costituzionale (32) e con esso anche il pregevole obiter dictum con il quale era prefigurata la migrazione del danno biologico dall’art. 2043 c.c. all’art. 2059 c.c. Sulla funzione dell’obiter dictum e sul dialogo fra le corti mi soffermerò fra breve, qui vorrei ricordare che comincia a prendere forma l’idea di un “diritto vivente” ossia di un diritto che si modella a partire da una traccia formale, ma che può essere modificato nel tempo in ragione del mutato impatto che la società avverte per il tramite del giudice.
Ancora, procedendo in ordine sparso, si può ricordare la nota distinzione fra leasing finanziario traslativo e di godimento, che per lungo tempo è stato recepito anche in sede fallimentare, dando luogo ad una diversa disciplina applicabile al rapporto (33). Val, poi, la pena di riflettere sull’uso che incomincia ad essere fatto della causa in concreto, ossia dello scopo che le parti hanno avuto nel concludere il contratto e che si è palesato nel sinallagma del contratto. L’interesse non è propriamente teorico, ma è diretto ad individuare il rimedio apprestato nel caso in cui l’equilibrio contrattuale venga alterato, per un fatto non imputabile al creditore che non può ricevere una prestazione. Le riflessioni che sono state svolte hanno preso le mosse dal contratto di viaggio vacanza “tutto compreso” (c.d. “pacchetto turistico”, o package), disciplinato dall’art. 82 ss. d.lgs. d.lg. 6 settembre 2005, n. 206 (c.d. “codice del consumo”), e che si distingue dal contratto di organizzazione o di intermediazione di viaggio (ccv) disciplinato dalla convenzione di Bruxelles del 23 dicembre 1970 (resa esecutiva in Italia con la l. 27 dicembre 1977, n. 1084). Si suole affermare che «la “finalità turistica”, connota la sua causa concreta ed assume rilievo, oltre che come elemento di qualificazione, anche relativamente alla sorte del contratto, quale criterio di relativo adeguamento». Da ciò i giudici fanno discendere che, nell’economia funzionale complessiva di detto contratto, «l’impossibilità di utilizzazione della prestazione da parte del consumatore creditore per causa a lui non imputabile, pur se normativamente non specificamente prevista, è da considerarsi causa di estinzione dell’obbligazione, autonoma e distinta dalla sopravvenuta totale (di cui all’art. 1463 c.c.) o parziale (prevista dall’art. 1464 c.c.) impossibilità di esecuzione della medesima» (34).
L’interesse per questa figura, che influenza diversi settori del diritto dei contratti (35), qui si palesa nel fatto che dalla premessa fondata sulla causa in concreto, si giunge ad individuare un nuovo tipo di scioglimento del contratto, diverso dalla impossibilità sopravvenuta totale o parziale. Le esigenze di tutela del consumatore hanno suggerito questa “invenzione” per realizzare al meglio la finalità di una certa disciplina, e lo strumento è stato individuato in un mezzo nuovo di sicura creazione giurisprudenziale.
4. L’impiego della sentenza nella creazione del diritto.
In questo mutato quadro l’interperte è chiamato prima di tutto a trovare la norma e successivamente ad applicarla al caso da decidere. La novità del nostro tempo si palesa proprio in questo: nel ruolo assunto dall’interprete nel trovare la regola ubicata in un certo contesto, dal quale fare scaturire un precetto che sia congruente con quella fonte e con la fattispecie da risolvere. Questo fenomeno è andato sotto il nome di “diritto vivente” che di fatto indica il ruolo dell’interprete non esattamente corrispondente con chi deve effettuare una mera operazione sillogistica. Orbene, poiché l’interprete per eccellenza è il giudice, ed alla corte di cassazione a sezioni unite è attribuito il ruolo di garantire la nomofilachia, si può concludere che l’attività interpretativa è sempre più il risultato di un procedimento talvolta complesso, che spesso non si esaurisce all’atto della decisione presa sul caso singolo (36).
Il ragionamento fin qui condotto presuppone la distinzione tra la sentenza che decide la lite sottoposta al suo giudizio, agli effetti dell’art. 2909 c.c., e la sentenza depositaria di un dictum capace di orientare l’interprete nella soluzione di un caso successivo. È proprio questo il punto. La sentenza intesa come precedente giurisprudenziale implica un esame dello scritto, affatto diverso da quello che è chiamato a compiere l’avvocato di una delle parti in lite, il quale, ad esempio, si interroghi su come dare esecuzione al decisum nell’interesse del proprio cliente. La sentenza intesa come precedente giudiziario diventa uno degli strumenti per individuare il “diritto vigente”. Nonostante qualche autorevole autore da tempo sostenga che il precedente giudiziario sia diventato fonte del diritto, quindi abbia concluso per una sostanziale avvicinamento tra il sistema di Common Law e il sistema di Civil Law (37), non sembra che questa conclusione possa accogliersi senza riserve. Senonché è ormai pacifico che i precedenti sono il necessario ausilio per l’interperte che debba applicare il diritto, anche nei Paesi di Civil law. Pertanto da tempo sono invalse pratiche adoperate per l’esame della sentenza che sono molto simili a quelle impiegate nei Paesi di Common law.
In primo luogo occorre individuare un precedente, un leading case come si dice con altro linguaggio. Nel nostro sistema, a differenza di quelli di Common law non lo sono tutte le sentenze, ma verosimilmente soltanto quelle il cui contenuto innovativo per il diritto è espressamente voluto dalla corte e non è frutto di un errore, di una distrazione o del caso. Da qualche tempo, in un immaginario dialogo fra giudici e altri operatori del diritto, si è consolidata una sorta di prassi che vede pronunce gemelle, o plurigemellari sia da parte della Cassazione (38), sia da parte della Corte costituzionale (39). Un’altra tecnica consiste nell’individuare decisioni che confermano una precedente decisione sullo stesso punto di diritto, oppure che confermano un precedente obiter dictum, che ne aveva anticipato l’esito.
In secondo luogo occorre distinguere in una decisione: (a) la ratio decidendi, ossia il giudicato che si forma «sull’affermazione o negazione del bene della vita controverso, sugli accertamenti logicamente preliminari e indispensabili ai fini del deciso, quelli cioè che si presentano come la premessa indefettibile della pronunzia»; (b) dagli obiter dicta, ossia «le enunciazioni puramente incidentali e in genere le considerazioni estranee alla controversie e prive di relazione causale col deciso». «L’autorità del giudicato è circoscritta oggettivamente in conformità alla funzione della pronunzia giudiziale, diretta a dirimere la lite nei limiti delle domande proposte, sicché ogni affermazione eccedente la necessità logico giuridica della decisione deve considerarsi un obiter dictum, come tale non vincolante» (40).
A questa prima analisi della sentenza ne sono seguite altre ancora più sofisticate. Così è accaduto che una nuova regola talvolta non sia stata anticipata da un obiter dictum, come ci ha insegnato la tradizione, ma dalla enunciazione di una ratio decidendi alternativa, o apparentemente tale. Trovo che questa situazione si stia determinando con il criterio della “vicinanza della prova”. In tema di responsabilità professionale il medico viene condannato quando non assolva l’onere della prova a suo carico che consiste nella dimostrazione della sua perizia e diligenza o non fornisca la prova dell’art. 1218 c.c. Questa conclusione è raggiunta sulla base delle pronunce che hanno stabilito un certo riparto dell’onere della prova nel giudizio di responsabilità contrattuale (41), anche quando si tratti di contratto avente ad oggetto un’obbligazione di mezzi (42). Se il medico non prova la diligenza o il caso fortuito sarà responsabile e dovrà risarcire il danno, poiché il creditore (danneggiato) deve dimostrare soltanto il titolo e allegare l’inadempimento. Senonché, in questi giudizi, spesso si aggiunge un’altra ratio decidendi, la quale assume che la prova della diligenza riguarda fatti o atti per i quali al medico è più facile offrire la prova. Per il medico viene invocato il criterio della “vicinanza alla prova”: siccome per lui è più facile provare la diligenza, o la regolarità delle tenuta della cartella clinica, non assolvere quest’onere comporta di soccombere nel giudizio (43).
Orbene, questo capo della decisione non è un obiter dictum, secondo la definizione data in precedenza, giacché potrebbe decidere autonomamente la lite; non è neppure il (solo) capo decisorio sul medesimo punto, quindi presenta il carattere della ratio decidendi alternativa. La decisione avrebbe potuto essere presa soltanto sulla base del primo dictum, in punto di riparto dell’onere della prova, pertanto qual è il senso dell’ulteriore spiegazione condotta sulla “vicinanza della prova”?
Non sono certo che la c.d. “vicinanza della prova” sia concettualmente una derivazione della regola dell’onere della prova, secondo l’art. 2697 c.c.; neppure giurerei che riposi in alcuno dei principi costituzionali espressi dagli artt. 24, 25, 27 cost. In definitiva, mi pare che il dictum alternativo introduca una nuova regola, sostanzialmente diretta a garantire la migliore efficacia dell’uso dello strumento processuale, forse riconducibile alla clausola generale del giusto processo di rilievo costituzionale (art. 111 cost.).
Questa nuova regola, che ha una fonte mediata nella legge, di fatto è il risultato di un processo che bene si esprime nel concetto di “diritto vivente”.
5. Il “diritto vivente” come risultato del dialogo fra le corti.
La creazione di una regola spesso è il risultato del dialogo fra corti diverse. La Corte costituzionale continua a ritenere che il nuovo testo dell’art. 117 c.c., tenuto conto di una norma della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, può determinare la incostituzionalità di una norma ordinaria. Il punto è che le norme di quella convenzione devono essere interpretate dalla Cedu, ossia un giudice diverso rispetto a quello interno, chiamato a decidere della legittimità della legge (44).
Spesso il dialogo è ancora più articolato. Il pretesto per parlarne ci viene dalla legge sulla fecondazione assistita (l. 19 febbraio 2004 n. 40). Una Sentenza della Cedu (non definitiva) ha dichiarato in contrasto con gli artt. 8 e 14 della convenzione la legge austriaca sulla procreazione assistita, l. 1 luglio 1992, n. 293, che prevede di norma la fecondazione assistita soltanto omologa, ossia all’interno del matrimonio o di analogo rapporto di convivenza (art. 2), utilizzando esclusivamente ovociti o spermatozoi del partner (art. 3, comma 1°).
La ratio decidendi della decisione è riassunta dalla massima redazionale «in un ordinamento che consente la procreazione artificiale, il diritto di una coppia di farne uso per concepire un figlio rientra nella sfera dell’art. 8 della Cedu, in quanto espressione della vita privata e familiare. Pertanto i divieti di accesso ad alcune tecniche di procreazione artificiale (fecondazione in vitro con seme di terzo; fecondazione con donazione di ovociti), nella misura in cui pongono una coppia sterile in posizione differenziata rispetto alle altre, sono discriminatori, ai sensi dell’art. 14 Cedu, se non giustificati da finalità obiettive e ragionevoli e dal rispetto del criterio di proporzionalità tra i mezzi impiegati e gli obiettivi perseguiti» (45).
La legge austriaca non è identica a quella nazionale, poiché quest’ultima esclude qualsiasi forma di fecondazione eterologa. Tuttavia, forti di qualche autorevolissima pronuncia del Consiglio di stato, c’è chi è stato portato ad attribuire al giudice nazionale il potere di applicare direttamente la Convenzione europea mediante la disapplicazione del diritto interno contrastante, addirittura riducendo il potere discrezionale nell’accertamento, quando la Corte europea si sia già pronunciata sulla questione, come nel caso in questione (46). L’argomento impiegato dai giudici amministrativi muove dal nuovo art. 6 del Trattato UE, come modificato dal Trattato di Lisbona, secondo cui l’Unione europea «aderisce alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali» e «i diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali».
Per una norma con un carattere così forte, riferita a diritti la cui legittimazione ha una provenienza più importante del dato formale del diritto positivo, dovrebbe valere una interpretazione volta a superare il dato tecnico formale della mancata adesione, non essendo ancora completate le procedure del protocollo n. 8 annesso al Trattato (47). Dovrebbe, quindi, trovare spazio il rimedio della disapplicazione, come accade per le norme nazionali in contrasto con quelle dei regolamenti comunitari.
Il giudice ordinario, invece, chiamato a decidere della legittimità della normativa nazionale ha ritenuto di attribuire pregio alla omissione della formalità di adesione, quindi di non potersi discostare dall’architettura disegnata dalle sentenze della Corte costituzionale, n. 348 e n. 349 del 2007 (48).
Nel frattempo è intervenuta la grande camera della Corte europea dei diritti dell’uomo che ha cambiato la decisione presa in prime cure in ordine alla compatibilità di una normativa nazionale che escluda la tecnica della inseminazione eterologa (49). A questo punto la Corte costituzionale, anziché decidere sulla base della nuova pronuncia, ha deciso di restituire ai giudici a quibus gli atti relativi alla questione di legittimità costituzionale degli artt. 4, comma 3º; 9, commi 1º e 3º; e 12, comma 1º, l. 19 febbraio 2004 n. 40, per consentire ai giudici a quibus di pronunciarsi nuovamente in punto di rilevanza della questione, in riferimento agli artt. 2, 3, 29, 31, 32 cost. e, in relazione agli artt. 8 e 14 Cedu, all’art. 117, comma 1º, cost.
Il diritto applicabile, dunque, sarà l’esito finale di un dibattito svolto fra giudici diversi, fra l’altro appartenenti ad istituzioni diverse, anche se probabilmente non possiamo dire fra ordinamenti diversi. Ora la decisione finale è giunta con la sentenza della corte delle leggi che ha dichiarato incostituzionale la legge italiana, quindi ha ammesso la liceità della fecondazione eterologa anche in Italia (50).
6. Il “diritto vivente” e la legge.
Le riforme nell’ambito del diritto, anche quelle importanti, spesso recepiscono orientamenti consolidati in determinati settori, oppure recepiscono opinioni largamente seguite, ma in contrasto con il dato normativo; qualche volta innovano davvero, introducendo una regola diversa rispetto a quella precedente. Che cosa succede quando un orientamento consolidato, elaborato nel corso degli anni attraverso un dialogo costante fra le corti la dottrina e gli operatori del diritto, entra in contrasto con la regola introdotta da una modifica legislativa?
Il problema non è astratto, si è già posto almeno un due occasioni. Nel d.p.r. 3 marzo 2009, n. 37, dettato «per la disciplina dei termini e delle modalità di riconoscimento di particolari infermità da cause di servizio per il personale impiegato nelle missioni militari all’estero, nei conflitti e nelle basi militari nazionali, a norma dell’articolo 2, commi 78º e 79º, della legge 24 dicembre 2007, n. 244». L’art. 5, rubricato «Criteri per la determinazione dell’invalidità permanente», la lett. c), dispone: «la determinazione della percentuale del danno morale (DM) viene effettuata, caso per caso, tenendo conto della entità della sofferenza e del turbamento dello stato d’animo, oltre che della lesione alla dignità della persona, connessi e in rapporto all’evento dannoso, in una misura fino a un massimo di due terzi del valore percentuale del danno biologico». Il testo di questa disposizione speciale ripete il criterio seguito prima del 2008; ed in particolare distingue fra danno biologico e danno morale.
C’è un indubbio contrasto fra norma di legge e la regola giurisprudenziale del 2003 e del 2008 che ha inteso rendere meramente descrittive le figure del danno biologico, del danno morale e del danno non patrimoniale o esistenziale. Dal valore soltanto descrittivo di queste figure, i giudici hanno ritenuto che la categoria unitaria del danno non patrimoniale non debba risultare dalla sommatoria di ciascuna componente: ad esempio dal danno biologico, oltre al danno morale, autonomamente calcolati (51). E che, pertanto, secondo i casi, sia possibile che il danno non patrimoniale sia esaustivamente calcolato con riferimento soltanto al danno biologico, al danno morale o al danno c.d. esistenziale.
Il d.l. 13 settembre 2012 , n. 158, convertito con l. 8 novembre 2012, n. 189 (c.d. decreto Balduzzi), all’art. 3, comma 1º, prevede: «l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo». Tra i diversi problemi che la legge pone c’è il riferimento all’art. 2043 c.c. per determinare il risarcimento del danno in favore della vittima. È innegabile anche a questo riguardo che c’è un contrasto tra la norma e un indirizzo incominciato già nel 1999 (52), che ha ancorato al contatto sociale, quindi all’inadempimento del medico all’obbligazione sorta con il ricovero in ospedale del paziente. Come risolverlo?
La prassi ormai seguita per il primo come per il secondo caso si discosta dalla formale osservanza del sistema delle fonti, la quale vorrebbe la stretta applicazione della legge, senza porsi alcun altro problema. Da tempo si è incominciato ad affermare che il diritto vivente ha acquistato un proprio diritto di cittadinanza nell’ordinamento, alla luce del quale devono essere interpretate le norme ordinarie (53), ed alla luce del quale, quindi, si può quindi ragionare in termini di specialità. Con questo criterio, quindi, si può ritenere che la norma che consente di liquidare l’indennizzo ai militari in missione all’estero è speciale rispetto all’art. 2059 c.c., come è tuttora interpretato secondo il “diritto vivente”. Quindi il danno non patrimoniale da liquidarsi in seguito ad in incidente stradale non deve seguire i criteri dell’art. 5 d.p.r. 3 marzo 2009, n. 37, ma il consolidato orientamento giurisprudenziale in cui si condensa la comune interpretazione di questa norma.
Più delicata è la questione che riguarda l’art. 3 del decreto Balduzzi. Qui mi pare che le più autorevoli interpretazioni che si sono già proposte su questa norma privilegiano l’argomento dell’interpretazione sistematica, per evitare la rottura di continuità con il passato. L’interpretazione letterale fa leva sull’art. 2043 c.c. contenuta nell’art. 3, che porterebbe alla situazione anteriore al revirement del 1999; l’interpretazione sistematica fa leva sul lungo processo che ha condotto ad un preciso statuto della responsabilità professionale la cui validità si ritiene che non possa essere compromessa da un intervento legislativo che altrimenti risulterebbe estemporaneo. Discende che il riferimento all’art. 2043 c.c. deve essere inteso come sinonimo di risarcimento del danno, come sinonimo di colpa, ma non come riferimento al fatto illecito in senso tecnico (54).
In definitiva, anche in questo caso, si finisce per attribuire alla norma interpretata come “diritto vivente” una portata che supera il formale sistema delle fonti, per negare il cambiamento del diritto in un certo ambito.
7. L’overruling e la certezza del diritto.
Tempus regit actum è il principio che governa la successione delle leggi nel tempo e con essa il diritto in concreto applicabile per risolvere una certa controversia. Eccezionalmente questa regola può essere derogata, quindi abbiamo ipotesi in cui la legge produce un effetto retroattivo. Che dire quando la norma formalmente resti ferma, ma nel corso del processo muti la sua interpretazione, dunque quando il cambiamento del diritto non sia il risultato della successione delle leggi nel tempo, ma del “diritto vivente”? Astrattamente le tecniche invocabili in questi casi sono:
– il c.d. Prospective overruling, la Supreme Court, quando ritiene di discostarsi dal proprio indirizzo, dichiara la nuova regola come valevole solamente per il futuro e giudica per l’ultima volta la controversia posta al suo esame sulla base del vecchio orientamento (55);
– la rigorosa applicazione della regola codicistica della successione delle leggi nel tempo, considerando il processo come lo strumento che ferma il diritto al tempo in cui è incominciato;
– oppure l’impiego di rimedi non espressamente introdotti per questa vicenda, ma che sono comunque in grado di garantire una soluzione accettabile, come la figura della rimessione in termini (56).
Sul cambiamento di interpretazione di una norma di carattere processuale, le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno deciso che, se viene in considerazione il problema della ritualità dell’atto, pur se posto in termini, la parte va rimessa in termini al fine di poter proporre ritualmente l’atto processuale; se viceversa venga in considerazione un problema di tempestività dell’atto, il rimedio è quello dell’esclusa operatività della preclusione derivante dall’overruling nei confronti della parte che abbia confidato nella precedente interpretazione della regola stessa (57): la Suprema Corte ha giudicato ai sensi dell’art. 111 cost., alla luce del «valore superiore del giusto processo, la cui portata […] non si esaurisce in una mera sommatoria di garanzie strutturali formalmente enumerate nel comma 2º dell’art. 111 cost. (contraddittorio, parità delle parti, giudice terzo e imparziale, durata ragionevole di ogni processo), ma rappresenta una sintesi qualitativa di esse (nel loro collegamento reciproco e nel collegamento con le garanzie del diritto di azione e di difesa), la quale risente anche dell’effetto espansivo dell’art. 6 della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e della corrispondente giurisprudenza della corte di Strasburgo».
Il procedimento è autopoietico: l’interprete cerca di adattare la regola, talvolta la crea, e nel farlo si perita di garantire quella certezza del diritto che lo stretto principio di legalità della scuola dell’esegesi non è più in grado di assicurare.
8. Il giurista, il diritto e il processo.
Il giuscivilista del terzo millennio registra una cesura fra il diritto vigente e la legge, sempre meno centrale, poiché il sistema delle fonti si è progressivamente articolato al punto da rendere incerto proprio il diritto applicabile. Per questo sono diventati più usuali gli incontri istituzionali fra le autorità garanti di Paesi (e talvolta in continenti) diversi, per trovare una regola uniforme da applicare. Allo stesso modo sono diventati ordinari gli incontri istituzionali fra le Corti che presidiano l’esecuzione dei trattati, come la Corte di giustizia e la Cedu; fra le Corti delle leggi, fra le Corti supreme dei diversi Paesi dell’Unione europea per trovare una soluzione comune ed una uniformità nelle decisioni, specialmente in quelle che hanno ad oggetto i diritti inviolabili dell’uomo (58). Assistiamo ad un tentativo dell’interprete di rendersi autonomo ed autosufficiente nella creazione del diritto vivente, impiegando il processo come luogo di emersione del nuovo fenomeno.
Questo stato di cose ha legittimato Natalino Irti a ritenere ormai superato il modello che vede nella legge scritta per fattispecie astratta la premessa maggiore del sillogismo di cui il giudice è chiamato a dare esecuzione. Nel diritto civile una lite spesso è decisa per il solo fatto che un giudice terzo esprime una volontà, motivata, anche senza ius dicere un precetto preesistente. In effetti, molte controversie non sono risolte in applicazione di una predeterminata fattispecie normativa, bensì in ragione di una regola creata in motivazione dal giudice che, proprio per via della sua equidistanza dalle parti, è legittimato a decidere: la terzietà si sostituisce alla legge, quale premessa maggiore del sillogismo. La motivazione finisce per essere l’unica garanzia di validità del diritto applicato nella decisione, non la fattispecie normativa (59).
Agli esordi del terzo millennio il diritto civile, come diritto comune, vede accresciuto il ruolo dell’interprete, questi è spesso chiamato a creare un precetto sulla base di principi, di regole, di norme, spesso ubicate in ambiti diversi da quelli nei quali il legislatore ha impiegato clausole generali; è spesso chiamato a ragionare intorno a precedenti giudiziari talvolta ripresi formatisi in altri ordinamenti. Ciò non accade in quei settori del diritto civile la cui specialità o singolarità fa rivivere l’idea di una disciplina dettata per status. Penso, ad esempio, al diritto dei consumatori dove la specialità si fonda necessariamente su una legge, la quale ben può costituire applicazione di principi superiori, come quelli del diritto comunitario, o di norme costituzionali come l’art. 3, comma 2º, cost. Allo stato, tuttavia, un siffatto diritto non potrebbe esistere in assenza delle leggi che lo hanno introdotto.
Con questi presupposti, il ruolo del giurista si affina, diviene simile a quello del dogmatico che un tempo creava il “sistema geometrico di concetti”; ora, più che concetti, il civilista finisce per creare vere e proprie regole. Nel fare ciò deve coordinare i vari pezzi di un ragionamento che si sviluppa in ambiti e su piani diversi, così da garantirne la coerenza e la congruenza; proprio in ciò sta il nuovo ruolo del civilista che da creatore di verità attraverso il dogma, come se il diritto fosse una religione secolarizzata, sta diventando il garante della regola creata in progress, in concorso con il legislatore, e con il supporto dei principi di rango superiore (60).
(*) Il testo è una riscrittura della Relazione tenuta al Convegno annuale della Facoltà di Giurisprudenza Università degli Studi di Milano-Bicocca (22 e 23 novembre 2012), dal titolo «Diritto e processo: rapporti e interferenze».
(1) Sono le riflessioni magistralmente svolte da Grossi P., Crisi del diritto, oggi?, Dir. e società, 2011, p. 37 ss.; Id., Lo stato moderno e la sua crisi (a cento anni dalla prolusione pisana di Santi Romano), in Riv. trim. dir. pubbl., 2011, p. 1 ss.; Id., Società, diritto, stato – Un recupero per il diritto, Milano, 2007; cfr. le belle pagine di Padoa Schioppa A., Storia del diritto in Europa, Bologna, 2007, p. 657 ss., a proposito del ruolo del giurista ai nostri tempi.
(2) Cfr., per tutti, data l’autorevolezza, Rodotà, Il diritto di avere diritti, Bari, 2012, p. 62 ss.; Galgano, La forza del numero e la legge della regione – Storia del principio di maggioranza, Bologna, 2007, p. 241 ss.; Bobbio, L’età dei diritti, Torino, 2005, p. VIII ss.
(3) Cfr. ampiamente Mengozzi P., Corte di giustizia, giudici nazionali e tutela dei principi fondamentali degli stati membri, in Dir. Unione europea, 2012, p. 561.
(4) Su queste questioni ho riflettuto in Franzoni, L’impatto del diritto comunitario sul diritto privato, in L’incidenza del diritto dell’unione europea sullo studio delle discipline giuridiche, a cura di L. S. Rossi G. Di Federico, Napoli, 2008, p. 241 ss.
(5) Corte cost., 24 ottobre 2007, n. 348 e n. 349, pubblicate su tante riviste fra cui Foro it., 2008, I, c. 40, con nota di Cappuccio, La Corte costituzionale interviene sui rapporti tra convenzione europea dei diritti dell’uomo e Costituzione; Ghera, Una svolta storica nei rapporti del diritto interno con il diritto internazionale pattizio (ma non in quelli con il diritto comunitario).
(6) Cfr. Roppo, Diritto dei contratti, ordinamento civile, competenza legislativa delle regioni – Un lavoro complicato per la corte costituzionale, in Corriere giur., 2005, p. 1301; e in Politica del diritto, 2005, p. 377.
(7) Su questo aspetto, senza pretese di completezza, rinvio agli studi di Galgano, Lex mercatoria – Storia del diritto commerciale, Bologna, 2006; Marrella, La nuova lex mercatoria – Principi Unidroit ed usi dei contratti del commercio internazionale, in Tratt. dir. comm. e dir. pubbl. dell’ec., diretto da Galgano, XXX: Padova, 2003; Ferrari F., La vendita internazionale – Applicabilità ed applicazioni della convenzione delle nazioni unite sui contratti di vendita internazionale di beni mobili, in Tratt. dir. comm. e dir. pubbl. dell’ec., diretto da Galgano, XXI, Padova, 2006.
(8) Ho riflettuto su questi temi in Franzoni, Il contratto nel mercato globale, in Contratto e impr., 2013, p. 69 ss., ove ulteriori riferimenti bibliografici.
(9) Tra le «norme preliminari e generali» di questo codice c’è la seguente: «il Codice di Autodisciplina Pubblicitaria è vincolante per utenti, agenzie, consulenti di pubblicità, gestori di veicoli pubblicitari di ogni tipo e per tutti coloro che lo abbiano accettato direttamente o tramite la propria associazione, ovvero mediante la sottoscrizione di un contratto di pubblicità».
(10) La prima disposizione dei «Principi guida e regime transitorio» prevede che «l’adesione al presente Codice di autodisciplina (“Codice”) è volontaria».
(11) Cfr. Dell’Anna Misurale, Per un codice deontologico nazionale dei giornalisti, in Contratto e impr., 1993, p. 391, che di seguito pubblica la «Carta dei doveri del giornalista» (ivi, p. 403).
Si consideri che questo codice ha avuto come precursore un noto caso: Cass., 18 ottobre 1984, n. 5259, in Giust. civ., 1985, I, p. 356, con nota di Dogliotti, La cassazione e i giornalisti: cronaca, critica e diritti della persona; in Giust. civ., 1985, I, p. 364, con nota di Ulisse, Note sui limiti della responsabilità civile del giornalista; in Nuova giur. civ., 1985, I, p. 215, con nota di Alpa, Diritto di cronaca – Illecito civile; in Nuova giur. civ., 1985, I, p. 218, con nota di Roppo, La corte di cassazione e il decalogo del giornalista; in Quadrimestre, 1984, p. 609, con nota di Ferri G.B., Tutela della persona e diritto di cronaca; in Dir. informazione e informatica, 1985, p. 152, con nota di Fois, Il c.d. decalogo dei giornalisti e l’art. 21 cost.; in Dir. informazione e informatica, 1985, p. 166, con nota di Morozzo Della Rocca, Controllo di legittimità e giurisprudenza consolidata; in Dir. informazione e informatica, 1985, p. 163, con nota di Giacobbe G., Noterelle minime in margine ad una sentenza contestata; in Giur. it., 1985, I, 1, c. 1099, con nota di Tenella-Sillani, Libertà di stampa e concorrenza sleale; e in Giust. civ., 1984, I, p. 2957, con nota di Finocchiaro, La cassazione e l’uniforme interpretazione della legge.
(12) Cfr. le riflessioni di Grande Stevens, Le regole di deontologia degli avvocati dello stato di New York, in Contratto e impr., 1992, p. 1457, vale per gli avvocati, ma si può generalizzare.
(13) Mi sono occupato di questi aspetti in Franzoni, Violazione del codice deontologico e responsabilità civile, in Danno e responsabilità, 2013, p. 1 ss., dove ho anche suggerito di attribuire a certe norme deontologiche un carattere ermeneutico di quelle norme giuridiche scritte per concetti elastici, come la diligenza, la colpa, così da consentire all’interprete di valutare la diligenza pure alla luce dei precetti delle regole della deontologia.
(14) Per via dell’autorevolezza, cito Silvestri, Sovranità popolare e magistratura, in http://www.costituzionalismo.it/articoli/107/; Id., Lo Stato senza principe. La sovranità dei valori nelle democrazie pluraliste, Torino, 2005.
(15) Me ne sono occupato in Franzoni, L’interprete del diritto nell’economia globalizzata, in Contratto e impr., 2010, p. 366 ss.
(16) Cfr. Intervento del Procuratore generale nell’anno 2008, in http://www.cortedicassazione.it/Documenti/Intervento%20Procuratore%20Generale.doc. Prosegue ancora il Procuratore generale osservando che «muovendosi su questo terreno impervio vi è il rischio che il magistrato possa divenire mediatore di conflitti, che cerchi il consenso dei cittadini, se non addirittura quello del popolo, con conseguente sua politicizzazione e susseguente radicalizzazione dello scontro con le parti politiche».
Il “diritto vivente” fa la comparsa ufficiale nella Corte cost. [ord.], 22 giugno 1983, n. 187, in Foro it., 1983, I, c. 3140, anticipata da sparute pronunce di qualche pretore del lavoro: Pret. Roma, 29 dicembre 1981, in Giur. costit., 1982, II, p. 735; ora facendo una ricerca su una banca dati elettronica di un repertorio si ottengono più di 200 documenti con le chiavi di ricerca “diritto vivente”. Ora in un passo della motivazione della Corte cost., 12 ottobre 2012, n. 230, in Foro it., 2011, I, c. 2588, si legge: «anche la giurisprudenza costituzionale riconoscerebbe un “decisivo rilievo” al “diritto vivente”, specie se “cristallizzato” a seguito di interventi delle Sezioni unite, al punto da reputare inammissibili le questioni di legittimità costituzionale sollevate da ordinanze che lo trascurino».
(17) Nelle relazioni degli anni precedenti l’accento è rivolto soprattutto alla tecnica della legislazione che non è più soddisfacente. In un passo si legge: «la situazione – che, va detto, non è dissimile da quella della legislatura precedente – non è molto cambiata neppure con la finanziaria per il 2008 (l. 24 dicembre 2007 n. 244) dotata di ben 1193 norme, ripartite, questa volta non sotto un unico articolo, ma in tre articoli separati per materia e per votazione: 387 commi ancorati all’articolo 1, 642 commi collegati all’articolo 2 ed, infine, 164 commi raggruppati sotto l’articolo 3»: nello stesso sito http://www.cortedicassazione.it/Documenti/.
(18) Cfr. Cass., sez. un., 26 gennaio 1971, n. 174, in Foro it., 1971, I, c. 1286, con nota di Busnelli, Un clamoroso «revirement» della Cassazione: dalla «questione di Superga» al «caso Meroni»; in Giur. it., 1973, I, 2, c. 1186, con nota di Visintini, Ancora sul «caso Meroni».
(19) Cfr. Cass., sez. un., 22 luglio 1999, n. 500 e n. 501, anche in Foro it., 1999, I, c. 2487.
(20) Cfr. Cass., 4 luglio 1953, n. 2085, in Foro it., 1953, I, c. 1086; rinvio a Franzoni, L’illecito, 2ª ed., Milano, 2010, tutto il Titolo II, p. 867 ss..
(21) Cfr. Cass., 20 aprile 1994, n. 3775, in Foro it., 1995, I, c. 1296.
(22) Cfr. Cass., 18 settembre 2009, n. 20106, in Foro it., 2010, I, c. 85; ho riflettuto su queste funzioni composite della buona fede in Franzoni, Degli effetti del contratto, II, Integrazione del contratto – Suoi effetti reali e obbligatori, 2ª ed., Milano, 2013, sub art. 1375.
(23) Cfr. Cass., sez. I, 16 marzo 1999, n. 2374, e Cass., sez. III, 30 marzo 1999, n. 3096, entrambe anche in Corriere giur., 1999, p. 561, con nota di Carbone, Anatocismo e usi bancari: la cassazione ci ripensa.
(24) Cfr. Cass., sez. un., 4 novembre 2004, n. 21095, anche in Foro it., 2004, I, c. 3294; e in Corriere giur., 2005, p. 217; e in Banca, borsa, tit. cred., 2005, I, p. 434, con nota di Inzitari, Le sezioni unite e il divieto di anatocismo: l’asimmetria contrattuale esclude la formazione dell’uso normativo.
(25) Cfr. Corte cost., 5 aprile 2012, n. 78, in Foro it., 2012, I, c. 2599, Palmieri, Incostituzionalità dell’interpretazione autentica in materia di decorrenza della prescrizione nei rapporti bancari regolati in conto corrente.
(26) Cfr. Cass., 22 gennaio 1999, n. 589, in Foro it., 1999, I, c. 3332.
(27) Cfr. Cass., 6 marzo 1999, n. 1925, in Foro it., 2000, I, c. 2299.
(28) Ricordo la Cass., sez. un., 30 ottobre 2001, n. 13533, in Foro it., 2002, I, c. 769, con nota di Laghezza, Inadempimenti ed onere della prova: le sezioni unite e la difficile arte del rammendo, che lo ha stabilito in generale; e la Cass., 28 maggio 2004, n. 10297, in Mass. Foro it., 2004, che lo ha applicato anche alle obbligazioni di mezzi.
(29) Ho catalogato tutte le figure finora tipizzate socialmente dalla giurisprudenza in Franzoni, Il contatto sociale non vale solo per il medico, in Resp. civ., 2011, p. 1693 ss.
(30) Cfr. Franzoni, La responsabilità precontrattuale è, dunque, … “contrattuale”?, in Contratto e impr., 2013, p. 282 ss., dove ho riflettuto sulle due sentenze che al momento hanno qualificato da contatto la responsabilità precontrattuale: Cass., 20 dicembre 2011, n. 27648, Pres. Rovelli, Est. Ceccherini, in Contratti, 2012, p. 235, annotata da Della Negra, Culpa in contrahendo, contatto sociale e modelli di responsabilità; Cass., 21 novembre 2011, n. 24438, Pres. Rovelli, Est. Forte, in Urbanistica e appalti, 2012, p. 673, con nota di Ponte, La natura e il giudice della responsabilità per lesione dell’affidamento; entrambe le sentenze appena riportate sono anche in Resp. civ., 2012, p. 1949, con nota di Scognamiglio C., Tutela dell’affidamento, violazione dell’obbligo di buona fede e natura della responsabilità precontrattuale.
(31) Cfr. Cass., 31 maggio 2003, n. 8828; la Cass., 31 maggio 2003, n. 8827, pubblicate su tutte le principali riviste, fra le quali in Corriere giur., 2003, p. 1017, con nota adesiva di Franzoni, Il danno non patrimoniale, il danno morale: una svolta nel danno alla persona.
(32) Cfr. Corte cost., 11 luglio 2003, n. 233, in Foro it., 2003, I, c. 2201, con nota di Navarretta, La corte costituzionale e il danno alla persona in fieri.
(33) Segnalo Cass., 13 dicembre 1989, nn. 5569-5574, pubblicate in numerose riviste tra cui Riv. it. leasing, 1989, p. 585, con nota di M.R. La Torre, I due tipi di leasing secondo la nuova giurisprudenza della Cassazione; in Giur. it., 1990, I, 1, c. 741, con nota di Clarizia, «Nuova » figura di leasing e vecchi problemi: l’applicabilità dell’art. 1526 c.c.; in Foro it., 1990, I, c. 461, con note di De Nova, La Cassazione e il leasing: atto secondo, e di Pardolesi, Leasing finanziario: si ricomincia da due: «oltre il leasing finanziario tradizionale, caratterizzato dalla funzione di finanziamento a scopo di godimento per la durata del contratto (sì che i canoni costituiscono esclusivamente il corrispettivo di tale godimento), non soggetto, in quanto contratto ad esecuzione continuata, alla retroattività dell’effetto risolutivo, sussiste una forma alternativa di leasing finanziario in cui, stante l’eccedenza del valore residuo del bene alla scadenza del contratto rispetto al prezzo d’esercizio dell’opzione di acquisto, si deve assumere che il trasferimento del bene all’utilizzatore rientri nella funzione assegnata dalle parti al contratto; a questa seconda forma di leasing finanziario si applica, in via analogica, la disciplina prevista per la risoluzione della vendita con patto di riservato dominio».
L’art. 72 quater l. fall., introdotto dall’art. 59 d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, su cui Inzitari, Il nuovo diritto fallimentare, diretto da Jorio e coordinato da Fabiani, Bologna, 2006, sub art. 72 quater, p. 1193; Id., Leasing nel fallimento: soddisfazione integrale del concedente fuori del concorso sostanziale e necessità dell’accertamento del credito nel concorso formale, in Contratto e impr., 2012, p. 1369 s.
(34) Cass., 24 luglio 2007, n. 16315 e Cass., 20 dicembre 2007, n. 26958, in Nuova giur. civ., 2008, I, p. 531, con nota di Nardi, Contratto di viaggio «tutto compreso» e irrealizzabilità della sua funzione concreta; in Danno e resp., 2008, p. 845, con nota di Delli Priscoli, Contratti di viaggio e rilevanza della finalità turistica; in Giur. it., 2008, p. 1133 (m), con nota di Izzi, Causa in concreto e sopravvenienze nel contratto di viaggio vacanza tutto compreso; in Obbligazioni e contratti, 2008, p. 13, con nota di Parola, Recesso dal contratto di compravendita di pacchetti turistici e impossibilità di utilizzazione della prestazione; e in Contratti, 2008, p. 241, con nota di Cavajoni, La «finalità turistica» come causa in concreto del contratto di viaggio, la citazione è dalla seconda sentenza. Nella prima sentenza, la suprema corte ha confermato la legittimità della pronuncia di scioglimento del contratto di package, avente ad oggetto un viaggio vacanza di due settimane per due persone a Cuba, essendo in atto sull’isola un’epidemia di Dengue emorragico, sicché i turisti, in accordo con l’agenzia di viaggi, avevano optato per diversa destinazione, nonché la correttezza della statuizione di rigetto della domanda di pagamento dell’indennità per il recesso formulata dal tour operator. Nella seconda sentenza, si trattava di un contratto di soggiorno alberghiero prenotato da due coniugi uno dei quali era deceduto improvvisamente il giorno precedente l’inizio del soggiorno. I giudici hanno risolto il contratto per impossibilità sopravvenuta invocata dal cliente ed ha condannato l’albergatore a restituire quanto già ricevuto a titolo di pagamento della prestazione alberghiera, pur essendo astrattamente eseguibile la prestazione.
(35) Cfr. Cass., sez. un., 23 gennaio 2013, n. 1521, in Mass. Foro it., 2013, per valutare l’adeguatezza del concordato preventivo; Cass., 1 aprile 2011, n. 7557, in Giur. it., 2012, p. 543, per il contratto atipico; Cass., 10 gennaio 2012, n. 65, in Nuova giur. civ., 2012, I, p. 547, con nota di Montani, Contratto autonomo di garanzia: l’autonomia travolge ogni eccezione, per il contratto autonomo di garanzia; Cass. [ord.], sez. VI, 8 febbraio 2012, n. 1875, in Mass. Foro it., 2012, a proposito del collegamento contrattuale; Cass., 12 novembre 2009, n. 23941, in Mass. Foro it., 2009, a proposito di una clausola di assicurazione sulla vita; Cass., 22 marzo 2007, n. 6969, in Mass. Foro it., 2007, per qualificare il lease back.
(36) Cfr. Corte cost., 11 luglio 2003, n. 233, in Foro it., 2003, I, c. 2201, cit. che in motivazione avvalora la resi che il “diritto vivente” è il risultato delle decisioni del giudice ordinario, consolidatosi nelle sentenze della cassazione, e non del giudice delle leggi.
(37) Cfr. il dibattito in Pizzorusso, Fonti del diritto, in Comm. cod. civ. Scialoja e Branca, Bologna-Roma, sub Disposizioni sulla legge in generale, art. 1-9.
(38) Cfr. Cass., sez. un., 22 luglio 1999, n. 500 e n. 501, anche in Foro it., 1999, I, c. 2487, per i danni da interessi legittimi; Cass., 31 maggio 2003, n. 8828; e Cass., 31 maggio 2003, n. 8827, anche in Corriere giur., 2003, p. 1017, per il nuovo danno no patrimoniale; Cass., sez. un., 19 dicembre 2007, n. 26725 e n. 26724, in Giust. civ., 2008, I, p. 2785, per i contratti della finanza; e gli esempi potrebbero proseguire.
(39) Cfr. Corte cost., 24 ottobre 2007, n. 348 e 349, in Foro it., 2008, I, c. 39, sul ruolo della Cedu nel sistema delle fonti.
(40) Cass., 8 febbraio 2012, n. 1815, in Mass. Foro it., 2012, nella motivazione è detto che l’obiter dictum, proprio per il suo carattere, non ricorribile autonomamente per Cassazione sotto nessun profilo; Cass., 16 marzo 1981, n. 1438, ivi, 1981.
(41) Cfr. Cass., sez. un., 30 ottobre 2001, n. 13533, in Foro it., 2002, I, c. 769.
(42) Cfr. Cass., 28 maggio 2004, n. 10297, in La responsabilità civile, 2005, p. 396, con nota di Martinelli, L’art. 2236 c.c. e la responsabilità medica: la suprema corte quadra il cerchio.
(43) Fra le tante, cfr. Cass., sez. III, 27 aprile 2010, n. 10060, in Mass. Foro it., 2010: «in tema di responsabilità professionale del medico, il nesso causale sussiste anche quando, attraverso un criterio necessariamente probabilistico, si possa ritenere che l’opera del medico, se correttamente e prontamente prestata, avrebbe avuto fondate possibilità di evitare il danno; a tal fine, la difettosa tenuta della cartella clinica non vale ad escludere la sussistenza del nesso eziologico tra la colposa condotta del medico e le conseguenze dannose sofferte dal paziente, ove risulti provata la idoneità di tale condotta a provocare il danno, ma consente anzi il ricorso alle presunzioni, assumendo rilievo, al riguardo, il criterio della “vicinanza alla prova”, cioè della effettiva possibilità per l’una o per l’altra parte di offrirla».
(44) L’ultimo esempio è della Corte cost., 7 aprile 2011, n. 113, in Foro it., 2012, I, c. 3266: «è illegittimo – per violazione dell’art. 117, comma 1º, cost. e all’art. 46 della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali – l’art. 630 c.p.p., nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46, par. 1, della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, per conformarsi ad una sentenza definitiva della corte europea dei diritti dell’uomo».
(45) Cedu, sez. I, 1 aprile 2010, n. 57813/00, S.H. and others v. Austria, in Famiglia e diritto, 2010, p. 977 ss., con nota di Salanitro, Il divieto di fecondazione eterologa alla luce della convenzione europea dei diritti dell’uomo: l’intervento della corte di Strasburgo.
(46) Così Consiglio di Stato, sez. IV, 2 marzo 2010, n. 1220, ed il Tar Lazio, 18 maggio 2010, n. 11894.
(47) Per opportuna conoscenza riporto questo passo dell’Appendice I alla relazione annuale del I Presidente della Cassazione (Le principali linee di tendenza della giurisprudenza di legittimità della corte di Cassazione anno 2010, § 1): «può ritenersi ormai generalizzata la consapevolezza che le norme della Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo (d’ora in poi, CEDU) – nell’interpretazione ad esse attribuita dalla Corte europea per i diritti dell’uomo (d’ora in poi, CEDU) – integrano, quali “norme interposte”, il parametro dell’art. 117 cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali, condizionando la legittimità costituzionale delle norme interne (poiché, nel caso in cui si profili un eventuale contrasto tra una norma interna ed una norma della CEDU, il giudice nazionale comune deve preventivamente verificare la possibilità di interpretare la prima conformemente alla norma convenzionale, ricorrendo a tutti i normali parametri di ermeneutica giuridica, e, nel caso in cui tale opzione interpretativa risulti impraticabile, egli, nell’impossibilità di disapplicare la norma interna contrastante, deve denunciare la rilevata incompatibilità proponendo questione di legittimità costituzionale in riferimento al parametro sopra indicato. Resta devoluta al solo giudizio della Corte costituzionale la verifica di eventuali aspetti di conflitto delle norme convenzionali con altri principi della Costituzione» (in http://www.cortedicassazione.it/Documenti/Giurisprudenza%20penale%20e%20civile%202010.pdf)
(48) Corte cost., 24 ottobre 2007, n. 348 e n. 349, in Foro it., 2008, I, c. 39.
(49) Cfr. Cedu, grande camera, 3 novembre 2011, in Foro it., 2012, IV, 219, con nota di Nicosia E., Il divieto di fecondazione eterologa tra Corte europea dei diritti dell’uomo e Corte costituzionale: «il divieto di fecondazione assistita eterologa (cioè con gameti provenienti da donatore) vigente nell’ordinamento austriaco – riguardante la fecondazione in vitro con donazione sia di ovuli che di spermatozoi (ma non quella in vivo con donazione di spermatozoi, o inseminazione artificiale) –, pur costituendo un’interferenza con il diritto al rispetto della vita privata e familiare degli aspiranti genitori, riguarda una materia controversa ed eticamente sensibile per la cui disciplina normativa spetta agli Stati un ampio margine di apprezzamento, ed è il frutto di un bilanciamento accettabile tra i diritti degli aspiranti genitori e quelli dei terzi e della collettività, non lesivo degli art. 8 e 14 Cedu».
(50) Cfr. Corte Costituzionale, comunicato stampa 9 aprile 2014.
(51) Ho riflettuto su questa questione in Franzoni, Il danno risarcibile, II, Milano, 2010, p. 532 ss.
(52) Cfr. Cass., 22 gennaio 1999, n. 589, in Foro it., 1999, I, c. 3332.
(53) Cfr. Trib. Milano, 7 ottobre 2010, in Corriere giur., 2010, p. 1450: «in forza di un principio di affidamento sul diritto vivente, quale risulta dalla generalizzata interpretazione delle norme regolatrici del processo da parte della giurisprudenza di merito e di legittimità, alla luce degli artt. 24 e 111 cost., posti a garanzia di un giusto processo come effettivo strumento di azione e di difesa, l’opposizione a decreto ingiuntivo pendente al settembre 2010 non va dichiarata improcedibile, senza necessità di far luogo a una vera e propria rimessione in termini per causa non imputabile».
(54) Cfr. Carbone, La responsabilità del medico pubblico dopo la legge Balduzzi, in Danno e resp., 2013, p. 378, in nota a Cass., 19 febbraio 2013, n. 4030; Trib. Arezzo, 14 febbraio 2013 [che decidono conformemente alla tesi esposta nel testo]; Trib. Milano, Sez. IX penale, ord. 21 marzo 2013 [che ha sollevato ]; Trib. Torino, 26 febbraio 2013; Trib. Varese, 26 novembre 2012;
(55) Mattei, Atlante di diritto privato comparato, Bologna-Roma, 2011, p. 20 ss., l’istituto si afferma nel 1932, grazie ad una grande opinion del Giudice Cardozo (caso Sunbrust Oil and refining Co. v. Great Norther Raylway, 7 P. 2d. 927, 1932).
(56) Cfr. Cass., sez. un., 14 gennaio 2008, n. 627, in Foro it., 2008, I, c. 2591, con nota di Fabbrizzi.
(57) Cfr. Cass., sez. un., 11 luglio 2011, n. 15144, in Caponi R., Retroattività del mutamento di giurisprudenza: limiti; in Corriere giur., 2011, p. 1397, con nota di Cavalla, Consolo e De Cristofaro, Le sezioni unite aprono (ma non troppo) all’errore scusabile: funzione dichiarativa della giurisprudenza, tutela dell’affidamento, tipi di overruling; in Giusto processo civ., 2011, p. 1117, con nota di Auletta F., Irretroattività dell’overruling: come “il valore del giusto processo può trovare diretta attuazione”; in Riv. dir. proc., 2012, p. 1078, con nota di Vanz, Overruling, preclusioni e certezza delle regole processuali; in Mass. giur. lav., 2011, p. 857, con nota di Ianniruberto, Mutamenti di giurisprudenza e diritto di difesa delle parti. Nella specie, si trattava di interpretare il combinato disposto degli artt. 183, 200, 201 e 202 r.d. n. 1775 del 1933 (T.U. sulle acque e impianti elettrici), quindi di decidere se la notifica della copia integrale del dispositivo della sentenza comportasse, o meno, la decorrenza, indipendentemente dalla sua registrazione, del termine breve per impugnare la decisione del Tribunale superiore delle acque pubbliche. L’iniziale, risalente, e poi consolidatasi, interpretazione dei citati artt. 183 ss. T.U., n. 1775 del 1933 era nel senso per cui la notifica, che il cancelliere fa alle parti, dell’avviso di trasmissione della sentenza del Tribunale superiore delle acque pubbliche all’ufficio del registro, ai sensi dell’art. 183, comma 3º, r.d. 1775 del 1933, è inidonea, ancorché tale avviso contenga anche la trascrizione del dispositivo, a far decorrere il termine per la proposizione del ricorso in Cassazione, che decorre invece dalla notifica, eseguita a norma del successivo comma 4º della stessa norma, atteso che solo con tale successiva notifica, che presuppone la restituzione della sentenza e degli atti da parte dell’ufficio del registro, la parte che intende impugnare è messa in grado di apprestare compiutamente le sue difese. Cass., sez. un., 30 marzo 2010, n. 7607, ha ribaltato questo consolidato pregresso indirizzo, statuendo che «avvenuta la comunicazione dell’avviso di deposito della sentenza (certamente questo inidoneo, ancorché contenente il dispositivo della sentenza stessa, a far decorrere il termine breve di quarantacinque giorni, di cui all’art. 202 r.d. n. 1775 del 1933), la successiva notifica della copia integrale del dispositivo della sentenza stessa, fa decorrere, comunque, indipendentemente dalla registrazione della sentenza, il termine breve per la sua impugnazione, rilevando l’effettuazione della sua registrazione esclusivamente a fini fiscali», sulla scorta della considerazione che, mentre in base alla legge di registro del 1923, tutte le sentenze andavano registrate, attualmente vi sono sentenze che vanno registrate e sentenze che non vanno registrate, ed anche per le prime il cancelliere è tenuto a rilasciare copia prima delle registrazione se ciò è necessario per la prosecuzione del giudizio (artt. 10 e 66/2 tabella allegata, d.p.r. n. 131 del 1986).
(58) Un accenno si trova in Balboni, in Rapporti tra ordinamenti e diritti dei singoli, a cura di Rossi L. S. e Baroncini, Napoli, 2010, p. 54 ss.
(59) Il riferimento va a Irti, Diritto senza verità, Bari, 2011, spec. p. 65 ss., il § ha per titolo: «il terzo decide la causa».
(60) Proprio su questi aspetti si sviluppa la riflessione di Galgano, Dogmi e dogmatica nel diritto, Padova, 2010, p. 7 ss., e p. 73 ss., rispettivamente il I e il III capitolo.