Diritto civile e diritto del lavoro a confronto

Massimo Franzoni, Diritto civile e diritto del lavoro a confronto, in Contratto e impresa, 2011, p. 955 ss.

Diritto civile e diritto del lavoro a confronto

 

di Massimo Franzoni

Sommario: 1. I termini per un confronto fra il diritto civile e il diritto del lavoro. – 2. Il diritto civile che cambia: come eravamo … – 3. Il diritto civile del terzo millennio. – 4. Le clausole generali, i principi costituzionali e i dogmi. – 5. La complessità del sistema delle fonti e il ruolo dell’interprete. – 6. L’autopoiesi di certe decisioni sui diritti fondamentali. – 7. Il ruolo della Corte costituzionale nel sistema delle fonti del diritto: la ragionevolezza. – 8. La necessaria autosufficienza del ricorso per cassazione come filtro. – 9. La illegittimità del frazionamento della domanda giudiziale. – 10. La illegittimità del frazionamento dei contratti ed il fisco. – 11. Un tentativo di conclusione.

1. I termini per un confronto fra il diritto civile e il diritto del lavoro.

Il diritto del lavoro nasce dal diritto civile; nella seconda metà del secolo scorso ha assunto un’ampia autonomia, quella stessa che già Rosario Nicolò gli riconosceva nei primi anni sessanta (1). L’autonomia del primo dal secondo pone il tema del confronto, la cui utilità è maggiore se si stabilisce un punto iniziale ed un punto finale per porne in relazione i termini. Procederò, quindi, ad effettuare la ricognizione di un ipotetico momento iniziale, fissato verso la fine degli anni cinquanta, incominciando dal diritto del lavoro.

Quando incomincia ad affacciarsi sulla scena, nella seconda metà del secolo scorso, il diritto del lavoro si presenta come un diritto con una scarsissima legislazione, se si esclude quella di tipo infortunistico e previdenziale e quella per il pubblico impiego. Il rapporto è focalizzato su un contratto a tempo indeterminato, quello che ricalca il modello codicistico; c’è anche il contratto a tempo determinato, per casi eccezionali anche se economicamente di un certo rilievo, quindi di interesse teoricamente marginale; ed il contratto per il lavoro domestico, anche questo di importanza sostanzialmente trascurabile. Questa fase che, passando per la legge sui licenziamenti, culmina con lo Statuto dei lavoratori, e si completa con la successiva legislazione sulla cassa integrazione, vede un soggetto protagonista nel sindacato. Con le sue diverse organizzazioni e con le loro articolazioni territoriali, proprio il sindacato svolge un ruolo fondamentale, non soltanto di carattere politico, poiché nel dialogo fra le forze sociali diventata fisiologica la mediazione del governo. Il diritto del lavoro finisce per distinguersi dal resto, quindi anche dal diritto civile, proprio perché opera in un ambito in cui c’è il sindacato ed il rapporto di lavoro finisce per assumere un ruolo decisamente preponderante sul contratto come atto giuridico (2).

Ora la vicenda è radicalmente mutata, e non soltanto in conseguenza della privatizzazione del pubblico impiego.

Il contratto a tempo indeterminato, di fatto, è diventato l’eccezione alla regola, poiché contratti variamente denominati, a tempo determinato o comunque con una scadenza finale, sono stati tipizzati in qualche decina. Nel frattempo è mutato il ruolo della grande impresa e corrispondentemente quello del sindacato, per questo in crisi di rappresentatività. Un tempo il tema in questione era come rimediare all’abuso realizzato con la suddivisione di una stessa azienda in due unità produttive, per evitare l’applicazione dello statuto dei lavoratori o della legge sui licenziamenti. Ora il tema è la conclusione di una trattativa, secondo certe condizioni, altrimenti il datore di lavoro si trasferirà in estremo oriente o in un Paese europeo più disposto a condiscendere alle sue richieste.

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Le questioni appena segnalate prescindono dalle tecnicità proprie del diritto, ma sono tutt’altro che un fuor d’opera, poiché il diritto del lavoro, ora come allora, è sempre stato un “diritto con molta verità” (3), ossia un diritto in cui palesemente traspare la conflittualità sociale. Nel diritto civile queste vicende sono più sfumate, ma si sta delineando un diverso modo di considerare il rapporto fra diritto vivente e legge, che non si pone negli esatti termini nel diritto del lavoro.

2. Il diritto civile che cambia: come eravamo …

Nei primi anni sessanta la migliore dottrina del tempo si interrogava sullo stato dell’arte del diritto civile. In quel momento i temi di riflessione si incentravano sull’autonomia di questo diritto dal diritto privato, sulla distinzione del diritto privato dal diritto pubblico, sull’autonomia del diritto civile dal diritto commerciale e del primo dal diritto del lavoro. Con magistrale autorevolezza Rosario Nicolò attribuiva autonomia al diritto commerciale, con una certa lungimiranza la riconosceva al diritto del lavoro, si interrogava sui confini tra il diritto privato ed il diritto pubblico, anche alla luce dell’intervento diretto dello Stato nell’economia che imponeva un ripensamento di portata ben superiore alla seppur non facile tecnicità della distinzione tra un’impresa privata ed un’impresa pubblica. Sempre in quegli anni ci si interrogava sul rapporto fra l’autonomia privata, disegnata dalla tradizione, e la funzionalizzazione indicata dalla costituzione, in considerazione del fatto:

– che la iniziativa privata «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana» (art. 41, comma 2º, cost.);

– che «la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali» (art. 41, comma 3º, cost.). Questa previsione si doveva coordinare con l’art. 2085 c.c. formalmente non abrogato, a differenza dell’art. 2088 c.c.;

– che, sempre la legge, determina i limiti alla proprietà, «allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti» (art. 42, comma 2º, cost.).

Ancora a proposito della funzionalizzazione ci si interrogava sul ruolo dell’art. 1339 c.c., che, seppure collocata nella Sezione I, Dell’accordo delle parti, rispondeva ad un disegno nel quale lo Stato può entrare nel contratto in maniera dirompente, allo stesso modo in cui può farlo in altre norme, come con l’art. 1419, comma 2º, c.c. o con l’art. 1374 c.c. Legata all’idea di conservazione dell’atto, sullo sfondo c’era anche la meno appariscente regola finale per interpretare il contratto: l’art. 1371 c.c. La migliore civilistica di allora si chiedeva se l’accordo fosse solo il presupposto per realizzare un disegno generale anche estraneo alla volontà dei contraenti, oppure se l’autonomia privata dovesse conservare il ruolo consegnato dalla tradizione, seppure con qualche correttivo (4).

C’era la chiara consapevolezza dell’importanza assunta dalle norme costituzionali nella costruzione del diritto civile, anche se, nella comune considerazione degli operatori, questa importanza è stata avvertita soltanto qualche lustro dopo. Tuttavia non era chiaro qual era il ruolo che queste norme attribuivano alla legge ordinaria:

a) nel definire il diritto soggettivo e la proprietà in special modo;

b) nel considerare l’autonomia privata una manifestazione della libertà della persona o una componente dell’economia eterodiretta.

Dal punto di vista del modello, non era certo se l’abbandono del diritto romano (e della dogmatica che lo aveva riscoperto, tra la fine dell’ottocento ed i primi del novecento, dopo il tempo della scuola dell’esegesi) in favore della costituzione e dei suoi principi si traducesse in un semplice mutamento di dati tecnico giuridici, oppure se questa prospettiva aprisse a nuovi orizzonti, ai quali poteva persino appartenere una certa svolta in senso socialista realizzata per mezzo del capitalismo di stato (5).

Con grande lungimiranza Rosario Nicolò anticipava la riflessione su temi della cui importanza l’opinione pubblica dei giuristi si sarebbe occupata dopo la seconda metà degli anni ottanta. Nonostante l’indubbio fascino delle codificazioni e del principio di validità delle norme secondo Kelsen, l’a. constata che il diritto civile non è soltanto un insieme di precetti normativi provenienti da fonti svariate. Nicolò ha una forte consapevolezza del ruolo di primo piano che assumono i concetti dei dottori: i dogmi, a certe condizioni; ed ha una inaspettata considerazione del ruolo scientifico assunto dalla giurisprudenza, come scienza pratica e conoscitiva (6).

Nonostante l’adesione unanime dei civilisti al manifesto della razza, nel passato allora recente (7), Kelsen aveva consentito ai giuristi del codice del 1942 di rifuggire dalla tentazione dei movimenti politico-culturali del ventennio fascista. Agli inizi degli anni sessanta, in una pubblicazione di carattere non filosofico, si appalesa l’idea che l’interprete diventa parte nella costruzione di un diritto civile inteso come «sistema geometrico di concetti» (8), in cui risulta fondamentale l’apporto scientifico della giurisprudenza.

Di fronte ai dilemmi privato o pubblico, funzionalizzazione o autonomia del diritto civile, la risposta del Maestro è nel § 8 della sua voce, così titolato: «La scienza del diritto civile dopo la codificazione» (9). La prospettiva indicata ai giuristi, e, per la verità, non solo ai civilisti, è che il metodo e la tecnica nell’affrontare le regole valgano a rendere il diritto civile una scienza, rispetto alla quale si deve misurare anche il formalismo della legge.

3. Il diritto civile del terzo millennio.

A distanza di qualche decennio, nel diritto civile i temi di riflessione sono cambiati, così come è accaduto nel diritto del lavoro. È maturata la consapevolezza che le norme costituzionali, specie quelle espressive di principi, sono entrate nel cuore del diritto civile, al punto che non c’è sentenza davvero importante che non richiami almeno una norma della costituzione. Al rischio di apparire provocatorio, di fatto, una sentenza è tanto più “di peso” quante più sono le norme della costituzione riportate in motivazione. Del resto è pacifico che cosa ha rappresentato:

– il principio della solidarietà sociale dell’art. 2 cost. in tutto il diritto civile: dal contratto, alla responsabilità civile, al diritto successorio;

– il concetto di formazione sociale menzionato nella medesima norma utile, fra l’altro, per legittimare la famiglia di fatto come società naturale (art. 29 cost.);

– il principio dell’uguaglianza in senso sostanziale dell’art. 3, comma 2º, cost.;

– senza pretese di completezza, il diritto alla salute dell’art. 32 cost., nella evoluzione della responsabilità civile e con questa del modo di tutelare i diritti della personalità come diritti inviolabili.

Orbene questo dirompente ingresso non è stato avvertito dagli interpreti come una vera e propria funzionalizzazione, come forse ci si poteva attendere negli anni sessanta. L’impiego di queste norme è servito per realizzare un disegno che mette al centro la persona ed i suoi valori, non tanto il proposito di realizzare quella utilità sociale diretta ad evitare «danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana» (art. 41, comma 2º, cost.) che, in effetti, soltanto il legislatore avrebbe potuto compiere esplicitamente con i programmi (art. 41, comma 3º, cost.). Proprio per questo da più parti si va teorizzando l’esistenza di uno statuto europeo della persona, costruito attraverso l’attribuzione di una funzione sociale al mercato proprio per garantire dignità alla persona. La c.d. solidarietà comunitaria che tende a far prevalere il diritto di fonte comunitaria su quello interno, secondo gli ambiti, oscilla tra esigenze di concorrenza, garantite dal principio di libera circolazione, e l’idea della dignità della persona, individuata in tutte le «tradizioni costituzionali comuni agli stati membri» (10).

Certamente, tanto più il giurista si allontana dalla fattispecie normativa e procede verso i principi della costituzione, del diritto comunitario e degli altri trattati (art. 117, comma 1º, cost.), quanto più “il sistema geometrico dei concetti” dipende dall’attività dell’interprete che, in tal modo, scrive il “diritto vigente” come “diritto vivente”. Il diritto civile assume così una sorta di geometria variabile, poiché il ruolo della legge formale tende a diminuire di importanza nella sua costruzione (11).

Qualche esempio può servire per chiarire il pensiero e probabilmente a segnare una nuova cesura con il diritto del lavoro.

4. Le clausole generali, i principi costituzionali e i dogmi.

Quando l’interprete deve applicare una clausola generale, come l’ordine pubblico, il buon costume, la correttezza o la buona fede contrattuali, l’ingiustizia del danno, va da sé che il precetto normativo può cambiare nel corso del tempo. La presenza di una clausola generale, estranea alla tradizione illuministica, rivela il “patto” fra il legislatore e l’interprete in forza del quale il primo ha scelto di delegare al secondo il compito di redigere la norma. Questo tema ha interessato soprattutto i civilisti che hanno scoperto le clausole generali, a partire dagli anni sessanta, ma le clausole generali sono presenti anche nel diritto del lavoro, anche se in quest’ambito abbiano posto problemi differenti.

Le clausole generali consentono alla tecnicità della scienza giuridica di valorizzare istanze estranee, con il solo limite della compatibilità con i principi generali dell’ordinamento giuridico. In concreto la norma in senso formale c’è – è proprio quella che contiene la clausola generale – senonché, essendo a fattispecie indeterminata, è l’interprete che deve creare il precetto nel momento in cui la applica. L’impiego delle clausole generali può essere utile per trasporre in regole cogenti principi, valori, o addirittura dogmi di insicuro fondamento, nelle singole fattispecie legislative. A certe condizioni, si potrebbe pure ipotizzare, le clausole generali sono il mezzo per attuare quella funzionalizzazione dell’iniziativa economica privata, della quale il legislatore ha dato conto nell’art. 41 cost.

L’occasione ultima per ripensare a questi temi viene da un precedente nel quale il recesso ad nutum, seppure contrattualmente previsto, è stato ritenuto illegittimo. Un gruppo di concessionari di una nota casa automobilistica si sono visti revocare la concessione di vendita, sulla base della facoltà di recesso ad nutum espressamente previsto nel testo contrattuale. Orbene sul presupposto che:

«a) la sussistenza di un abuso del diritto, presupponendo l’utilizzazione alterata dello schema formale del diritto al fine di conseguire obiettivi diversi da quelli indicati dal legislatore, non richiede il concorso dell’assenza dell’utilità per il titolare e dell’animus nocendi;

b) l’esercizio del recesso ad nutum, ancorché contrattualmente previsto, può configurare un abuso;

c) in ambito contrattuale è ammissibile un controllo di ragionevolezza, in funzione del contemperamento degli opposti interessi delle parti;

d) nella sfera di valutazione del giudice investito di una controversia contrattuale rientra la considerazione delle posizioni delle parti, quali soggetti deboli o economicamente forti, va cassata, in parte qua, la sentenza di merito che, nel ritenere legittimo il recesso da una serie di contratti di concessione di vendita, esercitato da un’impresa automobilistica in forza di apposita disposizione negoziale, non ha valutato le circostanze allegate dai destinatari degli atti di recesso, quali impeditive del suo esercizio ovvero fondanti il diritto al risarcimento per il suo carattere abusivo» (12).

Il punto forte della motivazione è riassunto in questo passo massimato: «i principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione e nell’interpretazione dei contratti, di cui agli artt. 1175, 1366 e 1375 c.c., rilevano sia sul piano dell’individuazione degli obblighi contrattuali, sia su quello del bilanciamento dei contrapposti interessi delle parti; sotto il primo profilo, essi impongono alle parti di adempiere obblighi anche non espressamente previsti dal contratto, ove ciò sia necessario per salvaguardare l’utilità del contratto per la controparte; sotto il secondo profilo, consentono al giudice di intervenire anche in senso modificativo sul contenuto del contratto, qualora ciò sia necessario per garantire l’equo contemperamento degli interessi delle parti e prevenire o reprimere l’abuso del diritto».

Insomma anche in questa sentenza, l’abuso del diritto costituisce una manifestazione dell’agire scorretto e contrario a buona fede, ossia di un agire in contrasto con la solidarietà sociale dell’art. 2 cost. Il rispetto della correttezza garantisce il bilanciamento fra gli opposti interessi delle parti che funzionalmente realizza l’utilità sociale dell’art. 41 cost.?

Questa conclusione non è sicura. Per poterla sostenere con certezza, si dovrebbe dare per presupposto che il rispetto delle condizioni dello scambio originariamente voluto dalle parti realizzi l’utilità sociale della costituzione. In alternativa, più semplicemente, si dovrebbe riconoscere che la tutela delle singole posizioni contrattuali, lese dall’abuso di diritto di una di loro, rientra nel dovere di solidarietà economica e sociale, il cui adempimento è richiesto a chiunque dalla Repubblica (art. 2 cost.). Nella prima prospettiva, è più forte la funzionalizzazione dell’autonomia contrattuale; nella seconda, è più marcata l’esigenza di tutela della persona contro il rischio dell’abuso commesso da un contraente.

Con qualche approssimazione, sono portato a pensare che la soluzione funzionalistica possa giustificare la ratio delle clausole generali nel diritto del lavoro, dove è ragionevole sostenere che la utilità sociale possa essere il modo per proteggere la parte debole nel rapporto di lavoro, così da evitare che l’iniziativa privata possa «recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana» (art. 41, comma 2º, cost.).

Nel diritto civile, invece, l’originaria idea di utilità sociale sembrerebbe più idonea a giustificare i programmi con i quali prevedere un certo sviluppo dell’economia in un determinato settore anziché in un altro. Anche se fanno eccezione le leggi per la protezione dei diritti del consumatore, che sono dirette a realizzare la funzionalità guidata dalla utilità sociale, la quale, non per caso, travalica la economicità del singolo contratto.

5. La complessità del sistema delle fonti e il ruolo dell’interprete.

La lettura di qualche decisione della Corte costituzionale è una buona base di partenza per incominciare la riflessione sullo stato attuale del diritto civile. Mi chiedo qui, nella decisione di molte controversie dov’è il diritto civile, o meglio, su quale norma si costruisce o, altrimenti, qual è il percorso da seguire per giungere alla norma?

C’è un’ordinanza che, mutando un precedente orientamento (13), ha disposto che la Corte costituzionale «costituisce una giurisdizione nazionale ai sensi dell’art. 234, terzo paragrafo, del Trattato CE e, in particolare, una giurisdizione di unica istanza (in quanto contro le sue decisioni – per il disposto dell’art. 137, comma 3º, cost. – non è ammessa alcuna impugnazione): essa, pertanto, nei giudizi di legittimità costituzionale promossi in via principale è legittimata a proporre questione pregiudiziale davanti alla Corte di Giustizia CE» (14). Se anche la Consulta rimanda la questione pregiudiziale davanti alla Corte di Giustizia CE, il rapporto tra la fonte interna e quella esterna risulta inequivocabilmente orientata verso la prevalenza della fonte esterna. In prima approssimazione, dunque, la ricerca della norma su cui decidere va fatta sulla base di un’idea di ordinamento giuridico allargata.

C’è un’altra importante pronuncia che ridisegnata l’architettura del sistema delle fonti del diritto, dopo la modifica dell’art. 117, comma 1º, cost., in diversi passi della motivazione, sottolinea con insistenza il fatto che le norme della Cedu sono quelle «così come interpretate dal giudice di Strasburgo» (15). Si può andare oltre e concludere che dopo il Trattato di Lisbona anche la Cedu comporta una diretta limitazione della sovranità nazionale, ai sensi dell’art. 11 cost.?

Riflettiamoci leggendo una sentenza della Cedu (non definitiva) che ha dichiarato il contrasto con gli artt. 8 e 14 Cedu della legge austriaca sulla procreazione assistita, l. 1 luglio 1992, n. 293, che prevede di norma la fecondazione assistita soltanto omologa, ossia all’interno del matrimonio o di analogo rapporto di convivenza (art. 2), utilizzando esclusivamente ovociti o spermatozoi del partner (art. 3, comma 1°). A differenza dell’art. 4, comma 3°; e art. 12, comma 1°, l. 19 febbraio 2004 n. 40 (legge nazionale), la normativa austriaca prevede che, qualora il seme del coniuge o del convivente non abbia capacità procreativa, può essere utilizzato il seme di un terzo (art. 3, comma 2°), seppure soltanto per l’inseminazione in vivo (l’introduzione di sperma direttamente negli organi sessuali di una donna: art. 1, comma 2°, n. 1): non è invece consentita la fecondazione eterologa in vitro. Nessuna deroga vale per l’ipotesi in cui sia l’ovocita della moglie o della convivente a non avere capacità riproduttiva, in quanto è espressamente ribadito che gli ovociti e le cellule in grado di svilupparsi possono essere utilizzati soltanto nel corpo della donna dalla quale provengono (art. 3, comma 3°).

La ratio decidendi della decisione è felicemente riassunta dalla massima redazionale: «in un ordinamento che consente la procreazione artificiale, il diritto di una coppia di farne uso per concepire un figlio rientra nella sfera dell’art. 8 della Cedu, in quanto espressione della vita privata e familiare. Pertanto i divieti di accesso ad alcune tecniche di procreazione artificiale (fecondazione in vitro con seme di terzo; fecondazione con donazione di ovociti), nella misura in cui pongono una coppia sterile in posizione differenziata rispetto alle altre, sono discriminatori, ai sensi dell’art. 14 Cedu, se non giustificati da finalità obiettive e ragionevoli e dal rispetto del criterio di proporzionalità tra i mezzi impiegati e gli obiettivi perseguiti» (16).

La legge austriaca non è identica a quella nazionale, poiché quest’ultima esclude qualsiasi forma di fecondazione eterologa. Tuttavia ad una prima lettura della decisione, forti di qualche autorevolissima pronuncia dei giudici amministrativi, saremmo portati ad attribuire al giudice nazionale il potere di applicare direttamente la Convenzione europea mediante la disapplicazione del diritto interno contrastante, addirittura riducendo il potere discrezionale nell’accertamento, quando la Corte europea si sia già pronunciata sulla questione, come nel caso in questione (17). L’argomento impiegato dai giudici amministrativi muove dal nuovo art. 6 del Trattato UE, come modificato dal Trattato di Lisbona, secondo cui l’Unione europea «aderisce alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali» e «i diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali».

Per una siffatta norma, riferita a diritti la cui legittimazione neppure proviene dal dato formale del diritto positivo, dovrebbe valere l’interpretazione che supera il dato tecnico formale della mancata adesione, non essendo ancora completate le procedure del protocollo n. 8 annesso al Trattato (18). Dovrebbe, quindi, trovare spazio il rimedio della disapplicazione, come accade per le norme nazionali in contrasto con quelle dei regolamenti comunitari.

Il giudice ordinario, invece, chiamato a decidere della legittimità della normativa nazionale ha ritenuto di attribuire pregio alla omissione della formalità di adesione, quindi di non potersi discostare dall’architettura disegnata dalle sentenze della Corte costituzionale, n. 348 e n. 349 del 2007 (19). C’è, inoltre, chi sostiene che, a prescindere dal mancato perfezionamento della procedura di adesione, lo strumento della disapplicazione non sarebbe possibile, poiché l’adesione dell’Unione europea alla Convenzione Europea non implica affatto che quest’ultima venga a mutare la sua natura. Al contrario, significa soltanto che un nuovo soggetto internazionale, l’Unione europea, aderisce alla Convenzione, acconsentendo così che i suoi atti vengano sottoposti a un ulteriore controllo, quanto al rispetto dei diritti umani. Si tratterebbe, tuttavia, di un fatto interno all’Unione, la quale infatti nemmeno precisa (come invece fa per la carta dei diritti, art. 6, comma 1º, Trattato UE) che la Cedu ha lo stesso valore giuridico dei trattati (20).

Per tutte queste ragioni, sostengono i giudici di merito che l’applicazione diretta non è possibile, tuttavia le norme della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, così come interpretate dalla Cedu, integrano, quali “norme interposte”, il parametro costituzionale espresso dall’art. 117, comma 1º, cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli «obblighi internazionali»; e, dunque, «al giudice comune spetta interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, entro i limiti nei quali ciò è permesso dai testi delle norme» e qualora ciò non sia possibile, ovvero dubiti della compatibilità della norma interna con la disposizione convenzionale “interposta”, egli deve investire questa Corte delle relative questioni di legittimità costituzionale rispetto al parametro dell’art. 117, comma 1º, cost.» (21).

L’obiettivo dei giudici di merito è di ottenere una pronuncia secondo il modello proposto dalla Corte costituzionale, nelle sentenze n. 348 e n. 349: la illegittimità costituzionale della norma interna (art. 4, comma 3º, l. 19 febbraio 2004, n. 40), interpretata alla luce delle norme sulla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, per contrasto con l’art. 117, comma 1º, cost. Nel caso di specie, dubito che sarebbe possibile ottenere una pronuncia di interpretazione adeguatrice della normativa nazionale, al dictum già reso dalla Cedu, che vanificherebbe l’utilità del ricorso al giudice delle leggi (22).

Allo stato attuale, tuttavia, l’autorevolezza del Consiglio di stato rende incerta la questione, anche perché ambo le tesi presentano argomenti convincenti, seppure nessuno può dirsi dirimente. Certo è che la vicenda posta all’attenzione del giudice amministrativo poteva essere risolta con la tecnica della interpretazione adeguatrice, mentre non altrettanto può dirsi per quella sottoposta ai Tribunali dei quali si è discusso.

La corte delle leggi deciderà questa volta indicando all’interprete la via per giungere ad una fattispecie normativa da applicare. Questa vicenda indica una ulteriore ragione di cambiamento intervenuto nel diritto civile, per via della mutata architettura nel sistema delle fonti, determinatasi per via sistematica dal rapporto fra costituzione, diversi trattati e legge ordinaria, al di fuori di una precisa legge sulle fonti di produzione del diritto.

6. L’autopoiesi di certe decisioni sui diritti fondamentali.

Ci sono casi in cui l’interprete, in ragione dell’articolazione del sistema delle fonti, desume l’esistenza di regole vigenti con l’effetto di introdurre limiti, e che tuttavia non sono create da quella sovranità popolare espressa mediante il principio della rappresentanza politica. Neppure traggono fonte in un contratto del tutto particolare, com’è per il contratto collettivo nazionale, nel diritto del lavoro. Il caso più noto è quello del rilievo che sta assumendo la nuova lex mercatoria, che spesso si manifesta nel fenomeno andato sotto il nome di shopping del diritto, patentemente in contrasto con la logica del diritto di fonte statuale (23). Fuori di questa vicenda, sulla quale da tempo c’è un cospicuo dibattito fra gli autori, nell’ambito dei diritti fondamentali dell’uomo si assiste ad un processo analogo, seppure palesatosi per motivi diversi da quelli che hanno fatto nascere la nuova lex mercatoria.

Quando i giudici sono chiamati a decidere su questioni che investono i diritti fondamentali della persona, ossia quei diritti che, per comune insegnamento, la repubblica riconosce e garantisce, poiché “trova” lungo il suo cammino (art. 2 cost.), il diritto positivo sembra dover segnare il passo. Ad esempio, l’art. 32, comma 2º, cost., dopo aver stabilito che «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge», così conclude: «la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Con ciò riconosce che i limiti ai diritti fondamentali non dipendono dalla legge; in effetti, gli interpreti individuano limiti alla normazione, non derivanti direttamente dal contrasto tra la legge ordinaria e la costituzione, bensì dal carattere ontologico di questi stessi diritti.

Ad altro riguardo è stato deciso che i diritti fondamentali non possono essere abrogati, ma neppure radicalmente modificati da una legge ordinaria, poiché essendo “trovati” non sono soggetti al potere sovrano che deve cedere il passo alla superiorità dei valori desunta da un diritto naturale, che rimanda all’idea di un «giudice “naturale” dei diritti, cioè [a] quel Giudice ordinario che sarà sempre più impegnato nel proprio ruolo di “organo giudiziario di base” dello “spazio giudiziario europeo”, in quanto tale chiamato a esercitare Giustizia alla luce di principi garantistici comuni ai cittadini europei» (24).

Coerentemente la Corte cost., 28 gennaio 2005, n. 45, ha negato il referendum sull’intera l. 19 febbraio 2004, n. 40 (norme in materia di procreazione medicalmente assistita). In applicazione di propri precedenti i giudici hanno riaffermato il principio secondo il quale «le “leggi costituzionalmente necessarie”, “in quanto dirette a rendere effettivo un diritto fondamentale della persona, una volta venute ad esistenza possono essere dallo stesso legislatore modificate o sostituite con altra disciplina, ma non possono essere puramente e semplicemente abrogate, così da eliminare la tutela precedentemente concessa, pena la violazione diretta di quel medesimo precetto costituzionale della cui attuazione costituiscono strumento» (25).

A questa regola non si sottrae neppure l’esercizio del potere sovrano nelle forme del referendum abrogativo, poiché la relativa disponibilità di certi diritti riguarda anche questo istituto, fondato su di un potere sovrano, sebbene esercitato con una tecnica diversa da quella della rappresentatività. Dall’articolazione del sistema delle fonti del diritto, deriva che il potere sovrano dello Stato è diventato “molto meno sovrano”; proprio questo consente il rispetto di diritti fondamentali, che appaiono privi di una precisa dimensione territoriale, e la cui fonte, mediata dalla norma costituzionale, neppure rinvia al diritto positivo.

In un altro caso, la Cassazione ha dichiarato la giurisdizione italiana per una domanda di risarcimento del danno e per indennizzo ex art. 2041 c.c., promossa da un cittadino italiano, nei confronti, rispettivamente, della Repubblica Federale di Germania e della Daimlerchrysler. La vittima lamentava che il danno era stato conseguente alla sua cattura avvenuta durante l’occupazione nazista in Italia, nella seconda guerra mondiale, nel corso della quale era stata deportata in Germania, per essere utilizzato quale mano d’opera non volontaria al servizio di imprese tedesche. La doglianza è fondata sul fatto che tanto la deportazione, quanto l’assoggettamento ai lavori forzati, devono essere annoverati tra i crimini di guerra e, quindi, tra i crimini di diritto internazionale (26).

Il punto è se sussista il potere di un giudice di uno Stato di condannare un altro Stato per gli atti iure imperii da questo compiuti e subiti dal cittadino del primo Stato: tali sono indiscutibilmente le missioni condotte nel corso di operazioni belliche. In astratto, sarebbe di ostacolo a questa soluzione il principio della c.d. immunità ristretta, fondato sul diritto internazionale consuetudinario. Senonché ci sono numerosi precedenti nazionali ed esteri, secondo i quali, in forza del principio di adattamento sancito dall’art. 10, comma 1º, cost., le norme di diritto internazionale “generalmente riconosciuti” che tutelano la libertà e la dignità della persona umana come valori fondamentali, sono “automaticamente” parte integrante del nostro ordinamento. Poiché i “crimini internazionali” in danno dei propri cittadini consistono in comportamenti che gravemente attentano all’integrità di tali valori, qualunque responsabile deve essere giudicato dal giudice nazionale (27). Di qui a dire che il rispetto dei diritti inviolabili della persona umana ha invero assunto, ormai, il valore di principio fondamentale dell’ordinamento internazionale, il passo è breve. Se così è, si deve concludere che di fronte a queste esigenze devono cedere il passo anche norme di carattere consuetudinario che prevedano il rispetto della sovranità. «Il rispetto dei diritti inviolabili della persona umana ha assunto, anche nell’ordinamento internazionale, il valore di principio fondamentale, riducendo la portata e l’ambito di altri principi ai quali tale ordinamento si è tradizionalmente ispirato, quale quello del rispetto delle reciproche sovranità, cui si collega il riconoscimento dell’immunità statale dalla giurisdizione civile straniera» (28).

Con questa premessa, ecco la ratio decidendi: «la norma consuetudinaria di diritto internazionale generalmente riconosciuta – che impone agli stati l’obbligo di astenersi dall’esercitare il potere giurisdizionale nei confronti degli stati stranieri per gli atti iure imperii – non ha carattere incondizionato, ma, quando venga in contrapposizione con il parallelo principio, formatosi nell’ordinamento internazionale, del primato assoluto dei valori fondamentali della libertà e dignità della persona umana, ne rimane conformata, con la conseguenza che allo stato straniero non è accordata un’immunità totale dalla giurisdizione civile dello stato territoriale, in presenza di comportamenti di tale gravità da configurarsi quali crimini contro l’umanità che, in quanto lesivi di quei valori universali di rispetto della dignità umana che trascendono gli interessi delle singole comunità statali, segnano il punto di rottura dell’esercizio tollerabile della sovranità» (29).

La questione sulla quale vale la pena indugiare è che i diritti fondamentali a tutela della libertà e della dignità della persona umana non possono ricevere alcuna limitazione territoriale, esistono al di fuori del diritto positivo ed assumono «il ruolo di principi fondamentali, per il loro contenuto assiologico di metavalore» (30). La loro esistenza, dunque, non dipende dal diritto positivo e dalla sua territorialità, bensì dall’attività dell’interprete che li scopre e così facendo li riconosce, evitando gli ostacoli, come quelli derivanti dagli usi internazionali. In un passo della motivazione è affermato:

«– che, nel ribadire ora le conclusioni cui sono già pervenute con il ricordato proprio precedente, queste Sezioni unite sono consapevoli di contribuire così alla emersione di una regola conformativa della immunità dello Stato estero, che si ritiene comunque già insita nel sistema dell’ordinamento internazionale;

– che, del resto, come anche sottolineato dalla dottrina internazionalistica più attenta al tema che ne interessa, sarebbe a dir poco “incongruo” che la giurisdizione civile, che l’ordinamento internazionale già consente di esercitare nei confronti dello Stato straniero in caso di violazioni, ad esso addebitabili, di obbligazioni negoziali, resti, invece, esclusa a fronte di ben più gravi violazioni, quali quelle costituenti crimini addirittura contro l’umanità, e che segnano anche il punto di rottura dell’esercizio tollerabile della sovranità;

– che tutto ciò conferma che la Repubblica Federale di Germania non ha il diritto di essere riconosciuta, nella presente controversia, immune dalla giurisdizione civile del Giudice italiano – che va pertanto dichiarata – anche in ragione del fatto che la condotta illecita si è verificata anche in Italia» (31).

Nel processo di affermazione dei diritti inviolabili è frequente trovare nella motivazione delle decisioni il supporto di precedenti di corti straniere, i quali, a ben vedere, non assumono il valore del precedente in senso tecnico. La forza di convincimento di quelle decisioni non dipende dallo stare decisis adattato al principio di nomofilachia, ma dal contenuto assiologico di metavalore dei diritti fondamentali dell’uomo (32).

Siamo molto prossimi ad una idea attualizzata di diritto naturale al quale giungono i giudici quando decidono fuori della fattispecie normativa che, in senso tecnico, non esiste.

7. Il ruolo della Corte costituzionale nel sistema delle fonti del diritto: la ragionevolezza.

Muovendo inizialmente dall’art. 3 cost., la Corte costituzionale ha creato il principio di ragionevolezza, con il quale giudica della costituzionalità delle leggi. Sulla base di questo principio, la Corte valuta la coerenza interna, la corrispondenza delle norme allo scopo impiegando, tra le altre, la regola della non contraddizione. In applicazione del cennato principio, la motivazione del dictum: a) esprime una comparazione fra le diverse posizioni utilizzando il principio di uguaglianza; b) valuta l’adeguatezza della disciplina sottoposta al giudizio rispetto al fine previsto dalla norma costituzionale; c) giudica della congruità e della razionalità della disciplina rispetto alla ratio legis (cosiddetta contraddittorietà interna) o alla disciplina di settore (cosiddetta contraddittorietà esterna) (33).

Certo il giudizio di ragionevolezza implica un «apprezzamento di conformità tra la regola introdotta e la “causa” normativa che la deve assistere» (34), tuttavia questo giudizio deve essere condotto entro limiti che impediscano al giudice di sconfinare nel merito delle opzioni legislative (35). È indubbio che la sua applicazione comporti un controllo della legge, quindi sul modo di esercizio del potere sovrano, da parte di chi tecnicamente non è chiamato ad esercitare quel potere. In buona sostanza è l’interprete che, nell’esprimere il giudizio di costituzionalità, di fatto crea o cancella una norma giuridica.

Nel vigente sistema delle fonti articolato e gerarchico, il ruolo della Consulta è quello di chi concorre in misura rilevante nella creazione del diritto, di concerto con il legislatore (36). E questa situazione non è tipica dell’Italia, anche in altri paesi, come in Francia, quella situazione si ripete: con altro linguaggio c’è chi ha rilevato il punto di svolta «dal “dogma dell’infallibilità della legge” all’istituzione del controllo di costituzionalità» (37). Ed anche in quell’ordinamento il ruolo di protagonista della transizione l’ha assunto un giudice affatto simile alla nostra Corte costituzionale.

Qui la riflessione si incentra sul fatto che il contrasto fra una norma ordinaria con la costituzione ha visto allargare il filtro proprio con l’impiego della ragionevolezza adoperato dalla Consulta.

8. La necessaria autosufficienza del ricorso per cassazione come filtro.

Da tempo esiste il principio dell’autosufficienza del ricorso per cassazione con il quale i giudici censurano l’atto processuale della parte, quindi rigettano la domanda di impugnazione proposta. Il senso di questa autosufficienza è che, secondo il tipo di censura mossa con il ricorso alla sentenza di merito, il giudice di legittimità deve essere in grado di rendersi conto della fondatezza della richiesta «solo sulla base delle deduzioni contenute nell’atto, alle cui lacune non è consentito sopperire con indagini integrative» (38). Quindi chi deduce la mancata ammissione di una prova testimoniale, nel ricorso deve indicare tutti gli elementi dai quali il giudice può comprendere la effettiva rilevanza di quella prova (39). In effetti, «ai fini della sussistenza del requisito della “esposizione sommaria dei fatti di causa”, prescritto, a pena di inammissibilità, per il ricorso per cassazione dall’art. 366, comma 1º, n. 3, c.p.c., è necessario, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso, che in esso vengano indicati, in maniera specifica e puntuale, tutti gli elementi utili perché il giudice di legittimità possa avere la completa cognizione dell’oggetto della controversia, dello svolgimento del processo e delle posizioni in esso assunte dalle parti, senza dover ricorrere ad altre fonti o atti del processo, ivi compresa la sentenza impugnata, così da acquisire un quadro degli elementi fondamentali in cui si colloca la decisione censurata e i motivi delle doglianze prospettate» (40).

Gli esempi potrebbero proseguire ancora, ma paiono sufficienti per darci la portata del fenomeno. Se si imposta una ricerca su Il Foro italiano DVD 2011, Edizione gennaio 2011, con le parole “autosufficienza [and] ricorso” e la limitazione alle sentenze di Cassazione, si ottengono 334 massime: questo è il numero di precedenti dal 1981 ad oggi. Se limitiamo la ricerca dal 1981 al 1996 compreso, i precedenti sono 12; dal 1996 fino la 2000 compreso, sono 60. Questo vuol dire che ben 262 casi sono stati decisi in applicazione di questo principio dal 2001 al 2010 compresi.

A questo punto è legittimo porsi la domanda, se davvero il principio è sempre esistito, come pare non potersi discutere, come mai nell’ultimo decennio ha assunto un’importanza così rilevante? E soprattutto, qual è la fattispecie normativa che risulta violata dall’asserita mancanza di autosufficienza?

Prima del 2000, questo principio serviva sostanzialmente per censurare l’attività dell’avvocato maldestro (12 casi dal 1981 al 1996) che aveva scritto un ricorso sostanzialmente illeggibile; ora serve per creare un filtro ulteriore rispetto a quelli che le successive leggi hanno introdotto, come l’art. art. 366 bis c.p.c., rubricato formulazione dei motivi, introdotto con il d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, e successivamente abrogato dall’art. 47, comma 1º, lett. d), l. 18 giugno 2009, n. 69; come l’art. 360 bis c.p.c., rubricato Inammissibilità del ricorso, introdotto dall’art. 47, comma 1º, lett. a), l. n. 69 cit. Qui siamo in presenza di una tecnica autopoietica impiegata dall’interprete per rendere più efficiente il proprio lavoro. Verosimilmente siamo in presenza di una regola, questa volta riscoperta, alla quale è stata data una funzione diversa, più adatta per realizzare uno scopo nuovo.

Di fatto il diritto vivente non ha una fonte diretta nel diritto positivo dato dalla fattispecie normativa.

9. La illegittimità del frazionamento della domanda giudiziale.

Che cosa accade se un creditore di 100, anziché chiedere il pagamento in un’unica causa, scelga di promuovere 10 o addirittura 100 giudizi verso il medesimo debitore? La vicenda ha avuto una rapida soluzione in due pronunce rese a breve distanza di tempo l’una dall’altra. In una prima, la suprema corte ha ritenuto ammissibile il ricorso avverso la sentenza del giudice di pace pronunciata secondo equità in una controversia in cui la domanda principale, ove non sommata a quella di risarcimento danni per il comportamento processuale della controparte, si manteneva nei limiti fissati dall’art. 113 c.p.c. (41).

Una prima risposta è stata quella di ricondurre la vicenda nell’ambito dell’art. 96 c.p.c.: si è valutato alla stregua di una lite temeraria il comportamento processuale di quella parte. Dopo qualche tempo, sulla medesima vicenda, i giudici hanno proceduto oltre, e per questa via hanno creato una regola nuova. Va assicurata effettività ai principi della buona fede e della correttezza anche in campo processuale, non alterando il giusto equilibrio degli opposti interessi delle parti contrapposte ed evitando il rischio di peggiorare la posizione del debitore «sia per il profilo del prolungamento del vincolo coattivo cui egli dovrebbe sottostare per liberarsi della obbligazione nella sua interezza, ove il credito sia nei suoi confronti azionato inizialmente solo pro quota con riserva di azione per il residuo come propriamente nel caso esaminato dalla citata Sez. un. n. 108/00 cit., in cui la richiesta di pagamento per frazione era finalizzata ad adire un giudice inferiore rispetto a quello che sarebbe stato competente a conoscere dell’intero credito, sia per il profilo dell’aggravio di spese e dell’onere di molteplici opposizioni (per evitare la formazione di un giudicato pregiudizievole) cui il debitore dovrebbe sottostare, a fronte della moltiplicazione di (contestuali) iniziative giudiziarie».

Il comportamento processuale del creditore, oltre a violare l’unità sostanziale del rapporto, si renderebbe causa «di giudicati (praticamente) contraddittori cui potrebbe dar luogo la pluralità di iniziative giudiziarie collegate alto stesso rapporto. Mentre l’effetto inflattivo riconducibile ad una siffatta (ove consentita) moltiplicazione di giudizi ne evoca ancora altro aspetto di non adeguatezza rispetto all’obiettivo, costituzionalizzato nello stesso art. 111 cost., della “ragionevole durata del processo”, per l’evidente antinomia che esiste tra la moltiplicazione dei processi e la possibilità di contenimento della correlativa durata» (42).

Con tali premesse, questo è il principio di diritto che corrisponde alla ratio decidendi della controversia: «non è consentito al creditore di una determinata somma di denaro, dovuta in forza di un unico rapporto obbligatorio, di frazionare il credito in plurime richieste giudiziali di adempimento, contestuali o scaglionate nel tempo; tutte le domande giudiziali aventi ad oggetto una frazione di detto credito vanno dunque dichiarate improponibili» (43).

Il dictum è icastico: dalla violazione della correttezza e della buona fede, i giudici fanno dipendere la improponibilità della domanda e la responsabilità dell’attore in giudizio. Alla responsabilità per violazione della buona fede ci si era abituati oltre che dalla tradizione giuridica anche dalla recente vicenda in tema di obblighi di informazione dell’intermediario finanziario: la violazione del dovere di informazione riconducibile alla buona fede è causa di responsabilità e non di nullità del contratto concluso in violazione di quell’obbligo (44). Non era immediatamente prospettabile che, tra le pieghe delle norme vigenti, potesse essere inventata una nuova disposizione che fa dipendere la impossibilità di esigere il credito a causa di una scorretta attività processuale.

In conclusione, anche in questo caso, l’interprete ha inventato una nuova norma per impedire l’abuso (quantitativo) nell’impiego del processo. Di fatto la decisione è presa senza applicare una precisa fattispecie normativa.

10. La illegittimità del frazionamento dei contratti ed il fisco.

Talvolta il collegamento contrattuale può essere inteso come operazione funzionale a scorporare da una prestazione unitaria (il canone di leasing per un autoveicolo) tante prestazioni alcune soltanto soggette all’imposizione IVA. La nostra cassazione, in conformità a una decisione comunitaria (45), ha deciso che «si deve considerare abusiva del diritto tributario comunitario quella pratica contrattuale nella quale il frazionamento delle prestazioni contrattuali in una pluralità di distinti contratti abbia come effetto quello di limitare il prelievo a quella tra le prestazioni che abbia meno rilevanza, nonostante sia presente una finalità complessivamente unitarie delle stesse e non sussistano finalità economiche non marginali e non teoriche ulteriori rispetto al risparmio fiscale» (46).

Qui la particolarità della vicenda è che la fonte del diritto appare in modo importante mediata dall’intervento di un giudice (comunitario prima e statale dopo) per indicare l’esistenza di un principio vigente nell’ordinamento giuridico. Ciò denota un certo allentamento nella produzione del diritto positivo tradizionale al cospetto di un diritto vivente che si crea con il concorso dei tecnici, i giudici in primo luogo, espressione soltanto in senso molto lato del potere sovrano del popolo.

In ogni caso il diritto civile appare sempre più come quel «sistema geometrico di concetti» dai quali si ricava un precetto che non trova legittimazione in una fattispecie normativa precisa.

11. Un tentativo di conclusione.

Il civilista del terzo millennio registra una cesura fra il diritto vigente e la legge, sempre meno centrale, poiché il sistema delle fonti si è progressivamente articolato al punto da rendere incerto proprio il diritto applicabile. Per questo sono diventati più usuali gli incontri istituzionali fra le autorità garanti di Paesi (e talvolta in continenti) diversi, per trovare una regola uniforme da applicare. Allo stesso modo sono diventati ordinari gli incontri istituzionali fra le Corti che presidiano l’esecuzione dei trattati, come la Corte di giustizia e la Cedu; fra le Corti delle leggi, fra le Corti supreme dei diversi Paesi dell’Unione europea per trovare una soluzione comune ed una uniformità nelle decisioni, specialmente in quelle che hanno ad oggetto i diritti inviolabili dell’uomo (47). Assistiamo ad un tentativo dell’interprete di rendersi autonomo ed autosufficiente nella creazione del diritto vivente.

Questo stato di cose ha legittimato Natalino Irti a ritenere ormai superato il modello che vede nella legge scritta per fattispecie astratta la premessa maggiore del sillogismo di cui il giudice è chiamato a dare esecuzione. Nel diritto civile una lite spesso è decisa per il solo fatto che un giudice terzo esprime una volontà, motivata, anche senza ius dicere un precetto preesistente. In effetti, molte controversie non sono risolte in applicazione di una predeterminata fattispecie normativa, bensì in ragione di una regola creata in motivazione dal giudice che, proprio per via della sua equidistanza dalle parti, è legittimato a decidere: la terzietà si sostituisce alla legge, quale premessa maggiore del sillogismo. La motivazione finisce per essere l’unica garanzia di validità del diritto applicato nella decisione, non la fattispecie normativa (48).

Il diritto civile è sempre più materia di indagine per la costruzione di una regola da applicare nella quale la norma di una fonte è una delle componenti alla quale si devono aggiungere altre norme, spesso principi di rango superiore provenienti dalla Costituzione o dal Trattato dell’unione europea o degli altri trattati, nei quali sono declamati i diritti dell’uomo a vario livello. In questo processo il precedente giudiziario assume un ruolo sempre più importante, poiché diventa il criterio guida per l’interprete chiamato costruire la premessa maggiore (la fattispecie normativa) del sillogismo evocato da Montesquieu. Se la fattispecie normativa spesso non è data a priori ma va costruita come regola in conseguenza dell’attività dell’interprete, il precedente finisce per diventare un prezioso strumento per l’interprete nel momento in cui crea una regola che si deve legittimare, anche se provenienti da ordinamenti diversi (49).

In effetti, agli esordi del terzo millennio il diritto civile, come diritto comune, vede accresciuto il ruolo dell’interprete, questi è spesso chiamato a creare un precetto sulla base di principi, di regole, di norme, spesso ubicate in ambiti diversi da quelli nei quali il legislatore ha impiegato clausole generali; è spesso chiamato a ragionare intorno a precedenti giudiziari talvolta ripresi formatisi in altri ordinamenti. Ciò non accade in quei settori del diritto civile la cui specialità o singolarità fa rivivere l’idea di una disciplina dettata per status. Penso, ad esempio, al diritto dei consumatori dove la specialità si fonda necessariamente su una legge, la quale ben può costituire applicazione di principi superiori, come quelli del diritto comunitario, o di norme costituzionali come l’art. 3, comma 2º, cost. Allo stato, tuttavia, un siffatto diritto non potrebbe esistere in assenza delle leggi che lo hanno introdotto.

Con questi presupposti, il ruolo del giurista si affina, diviene simile a quello del dogmatico che un tempo creava il “sistema geometrico di concetti”; ora, più che concetti, il civilista finisce per creare vere e proprie regole. Nel fare ciò deve coordinare i vari pezzi di un ragionamento che si sviluppa in ambiti e su piani diversi, così da garantirne la coerenza e la congruenza; proprio in ciò sta il nuovo ruolo del civilista che da creatore di verità attraverso il dogma, come se il diritto fosse una religione secolarizzata, sta diventando il garante della regola creata in progress, in concorso con il legislatore, e con il supporto dei principi di rango superiore (50).

Non sono sicuro che il medesimo stato di cose sia comune all’odierno diritto del lavoro. Sono portato a pensare che, per questo diritto, la legge continui ad essere fondamentale, che talvolta proprio la legge si sovrapponga alla contrattazione collettiva, nonostante la privatizzazione del pubblico impiego. In passato, invece, il contratto spesso si è sostituito alla legge nel regolare il rapporto. Fanno eccezione quei contesti normativi nei quali la legislazione è per clausole generali, qui, in comune con il diritto civile, il ruolo creativo della giurisprudenza va da sé. Certo al riguardo è doveroso dare atto che l’autopoiesi che si determina in conseguenza delle clausole generali coinvolge tutti i protagonisti della lite: dalle parti personalmente, ai loro avvocati, fino la giudice. La regola finale è creata nel concorso di idee che nasce da professionalità e da ruoli diversi nel processo; è proprio in questo concorso di idee che il ruolo dell’avvocato e della dottrina, oscuro in apparenza, in realtà si rafforza.

Relazione tenuta a Siracusa, il 15 – 16 aprile 2011, Hotel Des Etrangers, nell’ambito del convegno, Diritto civile e diritto del lavoro a confronto – Autonomia privata tra funzione e utilità sociale.

(1) Cfr. Nicolò, voce Diritto civile, in Enc. del dir., XII, Milano, 1964, § 2.

(2) Con molte approssimazioni così appariva il diritto del lavoro nella manualistica degli anni settanta nelle opere di Mazziotti, Diritto del lavoro, Napoli, nella edizione del 1976, per il contratto e il rapporto e di Giugni, Il diritto sindacale, Bari, nella edizione del 1975.

(3) Evoco non completamene a proposito, ma in modo volutamente suggestivo, il titolo dell’importante libro di Irti, Diritto senza verità, Bari, 2011.

(4) Mi sono occupato di queste questioni in Degli effetti del contratto, II Integrazione del contratto – Suoi effetti reali e obbligatori, in Comm. cod. civ. Schlesinger, Milano, 1999, sub art. 1374, spec. Cap. I.

(5) Queste conclusioni così nette non si trovano espressamente nelle pagine di Nicolò, voce Diritto civile, in Enc. del dir., cit., ma nei §§ 6 e 7, tuttavia se ne avverte una chiara consapevolezza. Sul ruolo del diritto pubblico riflette Rodotà, Ideologie e tecniche della riforma del diritto civile, Napoli, 2007, p. 29, ma lo scritto è stato letto il 18 dicembre 1966 a Macerata.

(6) Un ruolo essenziale è riconosciuto anche da Rodotà, Ideologie e tecniche della riforma del diritto civile, cit., p. 38 ss., e non soltanto nell’applicare una legislazione per principi, il quale precisa anche che negli anni sessanta i giudici non avevano ancora la coscienza del potere che erano chiamati ad esercitare (spec. p. 42).

(7) Riprendo il dato della unanimità da Alpa, La cultura delle regole – Storia del diritto civile italiano, Bari, 2009, p. 263, spec. nota 1.

(8) Nicolò, voce Diritto civile, in Enc. del dir., cit., § 8.

(9) Nicolò, ibid.

(10) Art. 6, comma 3º, Trattato di Lisbona.

(11) Con indubbia lungimiranza, Rodotà, Ideologie e tecniche della riforma del diritto civile, cit., p. 39 s., osservava che, in certi «ordini giuridici», «il diritto non è più riconducibile alla somma delle leggi; sorge il problema della determinazione dei criteri di identificazione del diritto extralegislativo; si pone il quesito intorno al soggetto competente a determinare l’ambito proprio del diritto legislativo, a segnare i confini tra le materie riservate alla legge e quelle affidate a fonti diverse».

(12) Cass., 18 settembre 2009, n. 20106, anche in Foro it., 2010, I, c. 85, con nota di Palmieri e Pardolesi R., Della serie «a volte ritornano»: l’abuso del diritto alla riscossa.

(13) Cfr. Corte cost. [ord.], 29 dicembre 1995, n. 536, in Foro it., 1996, I, c. 783, secondo la quale è il giudice a quo competente a proporre la questione pregiudiziale davanti alla Corte di Giustizia CE.

(14) Corte cost. [ord.], 15 aprile 2008, n. 103, in Riv. dir. internaz., 2008, p. 867.

(15) Per la verità le sentenze sono due Corte cost., 24 ottobre 2007, n. 348 e n. 349, in Foro it., 2008, I, c. 39.

(16) Cedu, sez. I, 1 aprile 2010, n. 57813/00, S.H. and others v. Austria, in Famiglia e diritto, 2010, p. 977 ss., con nota di Salanitro, Il divieto di fecondazione eterologa alla luce della convenzione europea dei diritti dell’uomo: l’intervento della corte di Strasburgo.

(17) Così Consiglio di Stato, sez. IV, 2 marzo 2010, n. 1220, ed il Tar Lazio, 18 maggio 2010, n. 11894.

(18) Per opportuna conoscenza riporto questo passo dell’Appendice I alla relazione annuale del I Presidente della Cassazione (Le principali linee di tendenza della giurisprudenza di legittimità della corte di Cassazione anno 2010, § 1): «può ritenersi ormai generalizzata la consapevolezza che le norme della Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo (d’ora in poi, Convenzione EDU) – nell’interpretazione ad esse attribuita dalla Corte europea per i diritti dell’uomo (d’ora in poi, Corte EDU) – integrano, quali “norme interposte”, il parametro dell’art. 117 cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali, condizionando la legittimità costituzionale delle norme interne (poiché, nel caso in cui si profili un eventuale contrasto tra una norma interna ed una norma della Convenzione EDU, il giudice nazionale comune deve preventivamente verificare la possibilità di interpretare la prima conformemente alla norma convenzionale, ricorrendo a tutti i normali parametri di ermeneutica giuridica, e, nel caso in cui tale opzione interpretativa risulti impraticabile, egli, nell’impossibilità di disapplicare la norma interna contrastante, deve denunciare la rilevata incompatibilità proponendo questione di legittimità costituzionale in riferimento al parametro sopra indicato. Resta devoluta al solo giudizio della Corte costituzionale la verifica di eventuali aspetti di conflitto delle norme convenzionali con altri principi della Costituzione» (in http://www.cortedicassazione.it/Documenti/­Giurisprudenza%20penale%20e%20civile%202010.pdf)

(19) Corte cost., 24 ottobre 2007, n. 348 e n. 349, in Foro it., 2008, I, c. 39.

(20) In questi termini, a commento delle pronunce citate nella nota precedente, Celotto, Il Trattato di Lisbona ha reso la CEDU direttamente applicabile nell’ordinamento italiano?, in http://www.giustamm.it/private/new-2010/ART-15681.htm; D’Angelo, Comunitarizzazione dei vincoli internazionali CEDU in virtù del Trattato di Lisbona? No senza una expressio causae, in www.personaedanno.it.

(21) Corte cost., 24 ottobre 2007, n. 348 e n. 349, cit.

(22) Sulla questione, cfr. Trib. Firenze, ord. 13 settembre 2010; e Trib. Catania, ord. 21 ottobre 2010, in Famiglia e diritto, 2010, p. , con nota di Salanitro, Fecondazione eterologa: la parola alla consulta.

(23) Riesce difficile ormai riportare compiutamente questo dibattito, per dar conto di scuole differenti e di angoli prospettici diversi, cfr. Galgano, La globalizzazione nello specchio del diritto, Bologna, 2005; Alagna, Mercato globale e diritto dell’impresa, Padova, 2009; Iudica, Globalizzazione e diritto, in Contratto e impr., 2008, p. 867; Ferrarese M. R., Diritto sconfinato, Roma-Bari, 2006; Alpa, Il diritto commerciale tra lex mercatoria e modelli di armonizzazione, in Contratto e impr., 2006, p. 86; qualche cenno in Franzoni, Vecchi e nuovi diritti nella società che cambia, ivi, 2003, p. 565.

(24) Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2009, cit., p. 29.

L’art. 6 Trattato UE, nella versione del Trattato di Lisbona, prevede (al terzo comma): «I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali».

(25) Corte cost., 28 gennaio 2005, n. 45, in Foro it., 2005, I, c. 629.

(26) Cfr. Cass. [ord.], sez. un., 29 maggio 2008, n. 14201, in Foro it., 2009, I, c. 1568, con nota di Gandini. Diverso è il caso deciso da Cass. [ord.], sez. un., 27 maggio 2005, n. 11225, in Foro it., 2005, I, c. 3046, con nota di Giorgiantonio; e in Resp. civ., 2005, p. 1022, con nota di Viterbo, Sull’immunità dalla giurisdizione della repubblica Argentina nel caso dei c.d. Tangobond: «non sussiste la giurisdizione italiana in merito alla controversia instaurata da un cittadino contro la repubblica Argentina relativamente alla vendita di bonds, posto che il mancato pagamento delle cedole in scadenza e delle somme scadute in conto capitale ha avuto diretta origine da provvedimenti legislativi ed atti normativi ad efficacia generale adottati dallo stato medesimo nell’ambito delle proprie sovrane prerogative, per motivi di emergenza pubblica, al fine di garantire la sopravvivenza economica della nazione».

(27) Cfr. Cass., sez. un., 11 marzo 2004, n. 5044, in Giust. civ., 2004, I, p. 1191, con nota di Baratta, L’esercizio della giurisdizione civile sullo stato straniero autore di un crimine di guerra; in Resp. civ., 2004, p. 1030 (m), con nota di Viterbo, I diritti fondamentali come limite all’immunità dello stato; su questo precedente si sofferma anche la Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2009, in http://www.cortedicassazione.it/Documenti/Relazione%­20anno%20giudiziario%202009.pdf, p. 19.

(28) Cass. [ord.], sez. un., 29 maggio 2008, n. 14201, cit.

(29) Cass. [ord.], sez. un., 29 maggio 2008, n. 14201, cit.

(30) Cass. [ord.], sez. un., 29 maggio 2008, n. 14201, cit., in motivazione; Ferrarese M. R., Diritto sconfinato, cit., il titolo è di per sé esplicito.

(31) Cass. [ord.], sez. un., 29 maggio 2008, n. 14201, cit., in motivazione.

(32) La stessa constatazione è di Violante, Magistrati, cit., p. 9, a proposito della tecnica di motivazione impiegata nelle diverse sentenze sulla vicenda Englaro; sulle diverse sentenze mi sono soffermato in Franzoni, Testamento biologico, autodeterminazione e responsabilità, in La responsabilità civile, 2008, p. 581 ss., spec. § 4.

(33) Cfr. Morrone, Il custode della ragionevolezza , Milano 2001, p. 542; Modugno, La ragionevolezza nella giustizia costituzionale, Napoli, 2007, p. 66.

(34) Corte cost., 28 marzo 1996, n. 89, in Giust. pen., 1996, I, p. 206.

(35) Già Esposito, L’art. 3 della Costituzione e il controllo di ingiustizia delle leggi, in Giur. cost., 1958, p. 605 e Paladin L., voce aggiornata Ragionevolezza (principio di), in Enc. del dir., Milano, 1997, vol. I, p. 908.

(36) Cfr. Violante, Magistrati, Torino, 2009, p. 182, che affronta la questione esaminando l’indipendenza della magistratura, nel conflitto con il potere politico.

(37) Patroni Griffi, Il conseil constitutionnel e il controllo della «ragionevolezza»: peculiarità e tecniche di intervento del giudice costituzionale francese, in Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 1998, p. 39.

(38) Questo passo è contenuto in numerosissime massime: Cass., 10 febbraio 2006, n. 2977, in Mass. Foro it., 2006; Cass., 28 luglio 2004, n. 14227, in Foro it., 2005, I, c. 775; Cass., sez. lav., 7 gennaio 1998, n. 72, in Mass. Foro it., 1998; Cass., 22 marzo 1993, n. 3356, ivi, 1993.

(39) Cass., sez. lav., 15 dicembre 2008, n. 29322, in Mass. Foro it., 2008: «il controllo sull’interpretazione dei regolamenti comunali attuativi di disposizioni primarie in materia di organizzazione (nella specie, il regolamento del servizio economato del comune di […]), delle delibere del sindaco e della giunta di un comune, nonché delle conseguenti determinazioni dirigenziali e sindacali, rimesso alla corte di cassazione presuppone che la corte stessa, mediante la lettura del solo ricorso, possa effettuare un confronto tra il contenuto degli atti contestati e la lettura datane dal giudice del merito; conseguentemente il ricorso, ove non riporti il contenuto degli atti contestati, è privo del requisito dell’autosufficienza e deve essere rigettato». Il principio vale anche nel processo penale cfr. Cass. pen., sez. IV, 26 giugno 2008, in Ced Cass., rv. 241023 (m); già Cass., 17 giugno 1995, n. 6863, in Mass. Foro it., 1995.

(40) Cass., sez. lav., 12 giugno 2008, n. 15808, in Mass. Foro it., 2008, nella specie, relativa all’esatta identificazione del soggetto verso cui le domande di pagamento di differenze retributive erano state rivolte tra l’Enaip (ente Acli istruzione professionale) e l’Enaip (ente nazionale Acli istruzione professionale), quest’ultima non espressamente considerata nelle conclusioni come destinataria della domanda, la suprema corte ha rilevato che il ricorrente aveva omesso di indicare, specificando le esatte espressioni utilizzate nel ricorso, se le circostanze di fatto rilevanti – e, in ispecie, da un lato, l’avvenuta conclusione del contratto con il secondo, che aveva pure sottoscritto un verbale di conciliazione, e, dall’altra, l’asserito subentro nel rapporto da parte del primo – fossero state effettivamente allegate nel ricorso introduttivo di primo grado, così impedendo alla corte di verificare l’idoneità del comportamento difensivo ad esprimere la reale volontà di estendere la domanda ad entrambi i destinatari.

(41) Cass., sez. un., 15 novembre 2007, n. 23726, in Mass. Foro it., 2007, riporto il principio di diritto contenuto nella sentenza: «non è consentito al creditore di una determinata somma di denaro, dovuta in forza di un unico rapporto obbligatorio, di frazionare il credito in plurime richieste giudiziali di adempimento, contestuali o scaglionate nel tempo, in quanto tale scissione del contenuto della obbligazione, operata dal creditore per sua esclusiva utilità con unilaterale modificazione aggravativa della posizione del debitore, si pone in contrasto sia con il principio di correttezza e buonafede, che deve improntare il rapporto tra le parti non solo durante l’esecuzione del contratto ma anche nell’eventuale fase dell’azione giudiziale per ottenere l’adempimento, sia con il principio costituzionale del giusto processo, traducendosi la parcellizzazione della domanda giudiziale diretta alla soddisfazione della pretesa creditoria in un abuso degli strumenti processuali che l’ordinamento offre alla parte, nei limiti di una corretta tutela del suo interesse sostanziale».

(42) Cass., 11 giugno 2008, n. 15476, in Mass. Foro it., 2008.

(43) Cass., 11 giugno 2008, n. 15476, cit., il c.vo è mio.

(44) Cfr. Cass., 29 settembre 2005, n. 19024, in Foro it., 2006, I, c. 1105, con nota di Scoditti, Regole di comportamento e regole di validità: i nuovi sviluppi della responsabilità precontrattuale; in Danno e resp., 2006, p. 25, con nota di Roppo e Afferni, Dai contratti finanziari al contratto in genere: punti fermi della cassazione su nullità virtuale e responsabilità precontrattuale; in Contratti, 2006, p. 446, con nota di Poliani, La responsabilità precontrattuale della banca per violazione del dovere di informazione; in Mondo bancario, 2006, fasc. 1, p. 53 (m), con nota di Lemma, Violazioni delle regole di condotta nello svolgimento dei servizi di intermediazione finanziaria e tutela giurisdizionale; in Corriere giur., 2006, p. 669, con nota di Genovesi, Limiti della “nullità virtuale” e contratti su strumenti finanziari; in Nuova giur. civ., 2006, I, p. 897, con nota di Passaro, Intermediazione finanziaria e violazione degli obblighi informativi: validità dei contratti e natura della responsabilità risarcitoria; in Resp. civ., 2006, p. 1080, con nota di Greco, Difetto di accordo e nullità dell’intermediazione finanziaria; in Giur. it., 2006, p. 1599, con nota di Sicchiero, Un buon ripensamento del supremo collegio sulla asserita nullità del contratto per inadempimento; in Impresa, 2006, p. 1140, con nota di Facchin, Comportamento scorretto dell’intermediario e tutela dell’investitore; e in Giur. comm., 2006, II, p. 626, con nota di Salodini, Obblighi informativi degli intermediari finanziari e risarcimento del danno – La cassazione e l’interpretazione evolutiva della responsabilità precontrattuale, in motivazione, § 6.2; quella sentenza che dal numero degli annotatori palesa l’interesse che aveva riscosso fra gli interpreti, è stata successivamente confermata nel dictum dalla Cass., sez. un., 19 dicembre 2007, n. 26724, in Foro it., 2008, c. 784, con nota di Scoditti, La violazione delle regole di comportamento dell’intermediario finanziario e le sezioni unite; seguita dalla Cass., sez. un., 19 dicembre 2007, n. 26725, in Mass. Foro it., 2007.

(45) Cfr. Corte giustizia Comunità europee, 21 febbraio 2006, n. 255/02, in Riv. dir. trib., 2006, III, p. 107, con nota di Poggioli, La corte di giustizia elabora il concetto di «comportamento abusivo» in materia d’iva e ne tratteggia le conseguenze sul piano impositivo: epifania di una clausola generale antielusiva di matrice comunitaria?, ha deciso che l’abuso di diritto sia un principio generale dell’ordinamento comunitario.

(46) Cass., sez. trib., 17 ottobre 2008, n. 25374, in Bollettino trib., 2008, p. 1766.

(47) Un accenno si trova in Balboni, in Rapporti tra ordinamenti e diritti dei singoli, a cura di Rossi L. S. e Baroncini, Napoli, 2010, p. 54 ss.

(48) Il riferimento va a Irti, Diritto senza verità, cit., spec. p. 65 ss., il § ha per titolo: «il terzo decide la causa».

(49) Penso al caso Englaro, nel quale la cassazione cita indifferentemente sentenze della Cedu, della High Court of justice [Gran Bretagna], della Supreme Court [Usa]. Questo processo si autopoiesi è tipico anche di altre corti supreme, Violante, Magistrati, Torino, 2009, p. 9, cita un caso deciso dalla Supreme Court [Usa], riprendendo una sentenza della Cedu, a proposito di un caso di immigrazione clandestina.

(50) Proprio su questi aspetti si sviluppa la riflessione di Galgano, Dogmi e dogmatica nel diritto, Padova, 2010, p. 7 ss., e p. 73 ss., rispettivamente il I e il III capitolo.