Niccolò Ferretti e Serena Spadavecchia, Confondibilità tra marchi: un giudizio in astratto o in concreto? – Il commento, in Dir. Industriale, 2014, 5, 443
Confondibilità tra marchi: un giudizio in astratto o in concreto? – Il Commento
Sommario: 1. La vicenda – 2. La funzione distintiva del marchio e il rischio di confusione tra segni – 3. Il diritto di esclusiva attribuito al titolare ed il giudizio di confondibilità – 4. La confondibilità in astratto – 5. La confondibilità in concreto – 6. Conclusioni
1 – La vicenda
Il caso in esame ha visto coinvolte la nota casa automobilistica Bayerische Motoren Werke Aktiengesellshaft (attrice; di seguito, “BMW”) e la società Phillman Financial Group SA (convenuta; di seguito, “Phillman”), nonché il Sig. F. G. (terzo chiamato, dal quale Phillman aveva acquistato il marchio litigioso e col quale BMW tempo prima aveva concluso un accordo di coesistenza).
L’attrice proponeva domanda di declaratoria di nullità del marchio della convenuta e conseguente inibitoria all’uso dello stesso. La domanda attorea si fondava sulla mancanza di novità del marchio della convenuta, stanti le precedenti registrazioni dei propri marchi, tutti caratterizzati dalla rappresentazione grafica di un’elica stilizzata, iscritta in una corona di colore scuro, realizzata suddividendo un cerchio in quattro settori di eguali dimensioni, di cui due più scuri alternati a due più chiari.
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2 – La funzione distintiva del marchio e il rischio di confusione tra segni
Come noto, la funzione precipua ed essenziale del marchio è quella di fornire una indicazione dell’origine imprenditoriale di un prodotto o servizio. Esso assolve quindi, in primo luogo, una funzione distintiva(1).
Tuttavia, sebbene il marchio in sé non comunichi alcuna informazione, sia, quindi normalmente privo di un valore in sé, esso nondimeno risulta capace di veicolare un messaggio, soprattutto allorché venga adoperato dal titolare in sinergia con altre fonti (e.g. pubblicità, etichettatura, pratiche commerciali)(2).
Il marchio diviene così uno strumento essenziale di comunicazione fra le imprese e i consumatori e consente, attraverso la identificazione e la differenziazione dei beni, l’informazione e le scelte del mercato. In altre parole, esso diviene uno strumento di comunicazione, informazione e concorrenza(3).
In un tale contesto, evidentemente, risulta di ancor più fondamentale importanza che il marchio (rectius, l’uso – modo e contesto – del marchio ed il messaggio e l’informazione fatti veicolare attraverso lo stesso) non sia equivoco, mendace, decettivo e confusorio, arrecando pregiudizio o danno a concorrenti e consumatori.
E’ un fatto che le norme sulla tutela del marchio contro il rischio di confusione siano quelle più frequentemente invocate nelle aule giudiziarie nazionali e comunitarie. Ci si riferisce, in particolare, agli artt. 12, 20 e 25 CPI. La ratio sottesa a tali norme è, appunto, quella di evitare che possa essere validamente registrato (ed usato) da un imprenditore un segno in grado di creare un rischio di confusione (o di associazione) con il marchio anteriore registrato da un concorrente(4).
3 – Il diritto di esclusiva attribuito al titolare ed il giudizio di confondibilità
Stabilita, dunque, la funzione del marchio nei termini di cui sopra, è possibile passare all’esame dei diritti che derivano dalla titolarità di un marchio.
In primo luogo, il marchio attribuisce al titolare l’uso esclusivo del segno, dal che consegue che risulta vietato ai terzi ogni utilizzo di marchi ad esso identici o simili: ergo, confondibili (cfr. art. 20, 1, b c.p.i.).
Il giudizio di confondibilità segna, quindi, il confine del diritto del titolare sul marchio e ne determina il contenuto.
A tal riguardo, la dottrina e la giurisprudenza nazionali(5) si sono a lungo interrogate sul problema se la valutazione della confondibilità debba essere effettuata in astratto ovvero in concreto, ossia se detta valutazione debba tenere in considerazione l’affidamento derivante dagli elementi risultanti dalla registrazione (i.e. esemplare del segno e indicazione del genere di prodotti o servizi che il marchio serve a contraddistinguere) e della relativa certezza dei diritti acquisiti tramite la registrazione o se, viceversa, il giudizio debba tenere in considerazione le modalità effettive d’uso del marchio, le caratteristiche specifiche dei prodotti o servizi contraddistinti, l’eventuale presenza dei c.d. disclsimers (e.g. il marchio generale dell’impresa produttrice, l’inserimento nel marchio contraffattorio di un altro e diverso segno, l’uso di espressioni come “tipo”, “genere”, i canali distributivi, le caratteristiche dei prodotti e servizi, la clientela) ed il verificarsi di un effettivo rischio di confusione(6).
4 – La confondibilità in astratto
Parte della dottrina e della giurisprudenza(7) condivide la prima tesi (confondibilità in astratto).
Le ragioni principali che sostengono tale orientamento possono sintetizzarsi come segue.
In primo luogo, si è notato come questo orientamento presenterebbe una maggiore aderenza al testo ed alla ratio delle norme rilevanti.
In particolare, si è rilevata la contraddizione(8) del caso del marchio registrato non ancora usato, per il quale evidentemente non sarebbe possibile un giudizio di confondibilità in concreto e si è osservato in proposito che certamente le norme a tutela della non confondibilità tra marchi debbano trovare applicazione tanto nel caso di marchio usato quanto nel caso di marchio (registrato) non usato.
Si è, inoltre, rilevato che tale orientamento garantisce maggiormente la tutela dei terzi, che, al momento della scelta di un marchio, possono basare la ricerca di eventuali anteriorità (soprattutto se si tiene conto di un mercato sempre più globale) facendo affidamento alle banche dati informatiche dei marchi registrati. Inoltre, questo approccio terrebbe conto anche della sempre crescente importanza attribuita al marchio per la promozione pubblicitaria, ambito in cui il segno viene spesso presentato anche senza un preciso riferimento al prodotto/servizio contraddistinto.
Si è, inoltre, rilevato in dottrina e giurisprudenza che, mentre la confondibilità in astratto si sostanzierebbe in una valutazione sul segno inteso come bene autonomo e volta a tutelare il diritto all’uso esclusivo dello stesso da parte del titolare, la confondibilità in concreto si sostanzierebbe in una valutazione che attiene più propriamente a profili legati alla concorrenza sleale e volta a considerare le concrete modalità di uso del segno(9). La tutela strettamente industrialistica voluta dal legislatore dovrebbe, quindi, essere correttamente intesa nel senso che non è sanzionabile come illecito solo l’evento dannoso ma anche il contegno che dia luogo al pericolo del danno.
Ancora, i sostenitori della tesi della confondibilità in astratto osservano che, coerentemente al dettato normativo, nel giudizio di confondibilità il riferimento alla identità o affinità tra i prodotti e della identità o somiglianza tra i segni deve essere riferito a prodotti astrattamente omogenei, ma non necessariamente (e concretamente) confondibili. Esempio eloquente di tale argomento sarebbe il caso del marchio che gode di rinomanza, rispetto al quale l’ordinamento tutela il carattere distintivo e la rinomanza del marchio come bene autonomo, anche elidendo qualsiasi collegamento col bene contrassegnato.
5 – La confondibilità in concreto
Una diversa dottrina e giurisprudenza(10) – per così dire – “purista”, ravvisa, invece, nella funzione distintiva della fonte imprenditoriale la sola funzione del marchio giuridicamente protetta e conclude, pertanto, per sostenere la tesi della confondibilità in concreto.
Concordemente a questa impostazione, l’ambito di tutela e rilevanza del marchio sarebbe circoscritta alla funzione distintiva dei prodotti o servizi, ovvero delle fonti di provenienza degli stessi. In questo modo, si esclude che venga garantita tutela al marchio anche a prescindere da una effettiva e concreta confondibilità rispetto ai beni/servizi contrassegnati.
In particolare, i fautori di questa tesi sostengono che il giudizio di confondibilità in astratto debba essere circoscritto ai soli casi di contraffazione del marchio (registrato) non ancora usato (nei quali, evidentemente, un giudizio di confondibilità in concreto sarebbe impossibile), ai casi di limitata o circoscritta notorietà del marchio registrato ed alle ipotesi di marchi c.d. “identici-identici”(11). Tali ipotesi sarebbero, però, situazioni di natura eccezionale, previste o comunque desumibili dalla legge, dalle quali, quindi, non sarebbe possibile trarre un principio generale. Di conseguenza, in tutti gli altri casi, il rischio di confusione per il pubblico, in mancanza di una espressa previsione contraria, dovrebbe essere interpretato come una confondibilità attuale e concreta.
6 – Conclusioni
Ad onor del vero, la sentenza in epigrafe non affronta espressamente il tema circa la valutazione della confondibilità in astratto ovvero in concreto, anche se, alcuni passaggi logici della motivazione potrebbero indurre a ritenere un certo avallo della prima tesi.
Del resto la massima estrapolata dal corpo della decisione ribadisce principi ricorrenti ed inveterati, nel momento in cui stabilisce che il vaglio di interferenza vada effettuato con riferimento ad una visione generale e di insieme del segno da valutarsi nel suo complesso con un approccio di sintesi piuttosto che di dettaglio.
Quindi con riferimento ai criteri di valutazione della confondibilità, il Tribunale di Torino si pone in linea con la giurisprudenza italiana e comunitaria, ormai consolidata e maggioritaria, secondo la quale il giudice deve procedere all’esame comparativo dei marchi in conflitto in via unitaria e sintetica (attraverso un apprezzamento complessivo che tenga conto degli elementi salienti dotati di potenzialità evocative nella memoria dei consumatori, in relazione al normale grado di percezione delle persone alle quali il prodotto è destinato), e non, al contrario, in via analitica (attraverso una particolareggiata disamina ed una separata valutazione di ogni singolo elemento).
Questo perché il marchio viene percepito dall’osservatore nella sua figurazione complessiva e d’insieme e non certamente nei suoi particolari. Costituisce, infatti, ius receptum che il rischio di confusione debba essere oggetto di una valutazione globale, in considerazione di tutti i fattori pertinenti del caso di specie. Tale valutazione globale deve fondarsi sull’impressione generale prodotta dai marchi, in considerazione, in particolare, degli elementi dominanti e distintivi dei medesimi(12).
L’esame deve, inoltre, basarsi su un raffronto dei segni che tenga conto dei loro elementi di somiglianza più che di quelli di differenziazione, con la conseguenza che si riscontra la confondibilità tutte le volte in cui i marchi, nel loro complesso, possano provocare nella mente del consumatore un’impressione di somiglianza e, quindi, un’impropria associazione e confusione.
Il Collegio torinese, chiamato a risolvere la controversia tra BMW e Phillman, ha ritenuto inesistenti (o, a tutto voler concedere, insignificanti e trascurabili) le varianti rispetto ai marchi attorei apportate al proprio dalla convenuta. Inoltre, il Tribunale ha correttamente tenuto conto che l’uso del marchio Phillman fosse da considerare confusorio, anche in ragione della notorietà dei marchi BMW anteriori(13).
Nel caso di specie, il Tribunale ha rilevato che il marchio controverso si appropriava di tutte le caratteristiche individualizzanti ed attrattive dei segni BMW e che, di fatto, le modifiche apportate, rappresentassero piuttosto “element[i] appost[i] non per distinguere ma, sostanzialmente, per tentare di velare le consonanze con i marchi anteriori”, violando in questo modo il c.d. nucleo ideologico(14) del marchio (il c.d. “cuore” del segno)(15). Sul punto, in particolare, il Collegio ha rilevato che, stante anche la concreta identità dei prodotti e la fortissima similitudine con i marchi figurativi dell’attrice, anche l’inserimento di ulteriori elementi (denominativi) dovesse ritenersi irrilevante ad evitare la confondibilità; viceversa, si legge nella sentenza, “qualsiasi operatore del mercato potrebbe riprendere il segno figurativo di un concorrente ed utilizzarlo per i propri prodotti identici semplicemente apponendovi una qualunque dicitura”.
In termini con tale conclusione, si ricorda la risalente ma consolidata massima della nota sentenza del Tribunale di Milano 30.11.1999 (caso Ferragamo c. Belly), nella quale i giudici sostennero che “la confondibilità tra marchi va valutata in astratto e non è esclusa dalla concreta apposizione delle diverse denominazioni dei produttori sul prodotto. L’azione di concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2598 n. 1 presuppone invece che sia accertata la concreta confondibilità tra i prodotti”(16).
Più recentemente, si segnala anche la pronuncia della Suprema Corte del 18.01.2013, n. 1249 nel caso Jagermeister(17). Ivi, la Cassazione ha affrontato il tema del giudizio di confondibilità in presenza di marchi complessi (i.e. segno composto da più elementi – denominativi e/o figurativi – la cui forza distintiva è tuttavia affidata ad uno o più di tali elementi, che ne costituiscono il “cuore”). La Suprema Corte ha cassato la sentenza di merito che aveva ritenuto, nel suo insieme, non confondibile il marchio costituito da una testa di cervo con una croce tra le corna – pur ritenuto forte – con altro simile successivo, in quanto entrambi presentavano anche parti denominative, predominanti, sufficientemente differenziate, rilevando che il giudice di merito avrebbe dovuto valutare la confondibilità con riferimento anche alla parte figurativa. Secondo gli Ermellini, infatti, la Corte d’Appello avrebbe dovuto dare rilievo al fatto che il marchio complesso sub judice fosse costituito da due elementi distintivi (i.e. la testa di cervo e la denominazione) e, di conseguenza, avrebbe dovuto valutare in relazione a ciascuno di essi la similarità tra i due segni litigiosi e, dunque, la loro confondibilità(18).
Infine, un’ultima breve annotazione circa il pubblico di riferimento. Sul punto, il Tribunale torinese ha tenuto in considerazione il c.d. consumatore medio, ossia il consumatore dotato di media diligenza e avvedutezza, che percepisce il marchio come un tutt’uno e mantiene memoria solo degli elementi più distintivi e dominanti di un dato segno. Si deve rilevare, tuttavia, come sempre più di frequente nella giurisprudenza comunitaria dell’UAMI venga approfondito il tema del grado di attenzione che il pubblico pone nella valutazione dei segni distintivi(19). Vengono normalmente distinti tre gradi di attenzione (basso, medio ed alto) con riguardo ai beni in questione e ad altre circostanze, quali canali distributivi, prezzi, tipologia di clientela, ecc. È chiaro che questo tipo di metodologia sia incline a valutare in concreto il rischio di confusione. È lecito domandarsi se sia questo l’orientamento che seguiranno anche i nostri Tribunali dei Marchi Comunitari.
(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla valutazione di un referee.
(1) A proposito della funzione del marchio Ascarelli scriveva che “il marchio attiene ad una nomenclatura della realtà”, in Teoria della concorrenza e dei beni immateriali, III ed., Milano, 1960, 434; inoltre, per tutti, si confronti il Codice della Proprietà Industriale a cura di Vanzetti, 313.
(2) Si è detto in proposito che il marchio è un “accumulatore delle informazioni altrimenti comunicate”, Sena, in Il diritto dei marchi – marchio nazionale e marchio comunitario, Milano, 2007, 52.
(3) Si confronti Sena, Il diritto dei marchi – marchio nazionale e marchio comunitario, Milano, 2007.
(4) Si usa distinguere tra c.d. confusione “in senso stretto” (quando il consumatore è indotto a ritenere che i marchi in conflitto appartengano alla stessa impresa, con la conseguenza che lo stesso imputa i prodotti/servizi del contraffattore al titolare del marchio) e c.d. confusione “in senso lato” (quando il consumatore, nonostante sia consapevole del fatto che i marchi appartengano a imprese diverse, così come i prodotti/servizi offerti, è comunque indotto a ritenere che tra le stesse sussistano dei legami); l’associazione si riconduce a queste seconde ipotesi di confusione.
(5) Il dibattito sulla confondibilità in astratto ovvero in concreto non ha, invero, avuto forte eco a livello comunitario dove, invece, la giurisprudenza sembra essere maggiormente orientata verso criteri di valutazione fortemente concreti rappresentati dallo specifico contesto e dalle specifiche circostanze di utilizzo dei marchi litigiosi (si confronti, exempli gratia, CGCE 12.06.2008, in causa C-533/2006 disponibile sul sito www.curia.europa.eu, in cui la Corte ha affermato che il rischio di confusione deve essere valutato avuto riguardo al contesto in cui il segno simile è utilizzato ed alle circostanze che contraddistinguono tale uso, “senza che occorra accertare se un altro uso del medesimo segno in circostanze diverse sarebbe anch’esso suscettibile di dare adito a un rischio di confusione”.
(6) Secondo i sostenitori della valutazione “in concreto”, infatti, la tutela della funzione distintiva deve essere “commisurata alla effettiva interferenza con questa funzione e basarsi sul ‘significato che ciascun marchio presenta in concreto agli occhi dei consumatori’” (cfr. Codice della Proprietà Industriale a cura di Vanzetti, 317).
(7) Conformemente a tale orientamento, si vedano Tribunale di Roma 8 maggio 2009 cit., Tribunale di Roma 12 giugno 2007, in Giurisprudenza Annotata di Diritto Industriale, 2008, 448 ss., Corte d’Appello Milano 7 ottobre 2002, ibidem, 2003, 497 ss., Cass.17 maggio 2000 n. 5091, ibidem, 2000, 132 ss.
(8) Quando non addirittura il paradosso: dal momento che, così opinando, il marchio non usato finirebbe con avere una efficacia più estesa del marchio usato.
(9) Si confronti Cass. n. 13592/1999: “l’azione di contraffazione del marchio di impresa tutela il diritto assoluto all’uso esclusivo del segno come bene autonomo, sulla base della confondibilità dei marchi, mentre prescinde dall’accertamento della effettiva confondibilità tra prodotti e dalle concrete modalità di uso del segno, accertamento riservato, invece, al giudizio di concorrenza sleale”; conforme anche Cass. n. 9617/1998. Più recentemente, si veda anche Tribunale di Milano 9.02.2009, in Le Sezioni Specializzate Italiane della proprietà Industriale e Intellettuale, 136: “La contraffazione di marchio non implica di per sé ed automaticamente l’illecito concorrenziale di cui all’art. 2598 n. 1 c.c., quest’ultimo non attenendo alla confondibilità potenziale od in astratto ma alla confondibilità in concreto tra prodotti.”.
(10) Conformemente a tale orientamento, si vedano Tribunale di Palermo 22 ottobre 2007, in Giurisprudenza Annotata di Diritto Industriale, 2007, 1039 ss., Tribunale di Roma, ord. 30 luglio 2001, ibidem, 2002, 248 ss., Tribunale di Torino 12 febbraio 2001, ibidem, 2001, 595 ss.; Tribunale di Napoli, ord. 13 maggio 1996, ibidem, 1996, 801 ss., Corte d’Appello di Milano 3 luglio 1990, ibidem, 1990, 633 ss.
(11) Si confronti Vanzetti-Di Cataldo, Manuale di Diritto Industriale, 2012, Giuffrè, 194 ss..
(12) In tal senso, si veda per tutte la nota C-251/95, Sabel c. Puma, in GU UAMI 1/1998, paragrafi 22 ss. e, ex multis, Trib. Torino 7.03.2005: “il giudizio di confondibilità fra segni distintivi non deve essere condotto in via analitica attraverso l’esame particolareggiato e la singola valutazione di ogni elemento, ma in via globale e sintetica, tenendo presente l’insieme degli elementi grafici, fonetici e visivi che compongono il marchio e fondandosi sull’impressione generale complessiva prodotta dagli stessi in considerazione dei loro elementi dominanti, previa valutazione della loro specifica idoneità a conferire capacità distintiva al marchio complesso in questione”, in Juris data, Giuffrè Editore.
(13) In tema di marchio rinomato, si riportano le note decisioni della Corte di giustizia europea nella sentenza citata Sabel BV contro Puma AG, in cui si legge che, un marchio, per essere considerato rinomato, è sufficiente che sia “conosciuto da una parte significativa del pubblico interessato ai prodotti contraddistinti” e, secondo la Corte, “il grado di conoscenza richiesto deve essere considerato raggiunto se il marchio d’impresa precedente è conosciuto da una parte significativa del pubblico interessato ai prodotti o servizi contraddistinti da detto marchio”. La Corte ha, inoltre, precisato che “più il carattere distintivo e la notorietà di quest’ultimo saranno rilevanti, più sarà facilmente ammessa l’esistenza di un pregiudizio”. Tale orientamento è stato confermato dalla Corte di giustizia europea nella sentenza relativa al marchio Canon, in Corte di Giustizia CE 29.09.1998, n. 39, disponibile sul sito www.curia.europa.eu/jurisp, in cui la Corte afferma, in particolare, che “il rischio di confusione è tanto più elevato quanto più rilevante è il carattere distintivo del marchio anteriore”. Pertanto, “i marchi che hanno un elevato carattere distintivo, o intrinsecamente o a motivo della loro notorietà sul mercato, godono di una tutela più ampia rispetto ai marchi il cui carattere distintivo è inferiore”.
(14) Sul punto, si vedano, ex plurimis, Cass.16.07.2004, n. 13178 e Trib. Torino 30.01.2007, in Banca Dati Giuridica, Sistema Platinum: in quest’ultima, in particolare si legge “in ipotesi di marchio forte la confondibilità illecita non viene esclusa da tutte quelle variazioni e modificazioni che lascino sussistere intatto il nucleo ideologico, il cuore del marchio forte”.
(15) In tal senso, ex plurimis, Tribunale di Bologna, ord. 8 luglio 2010, Tribunale di Firenze 6 giugno 2010, Tribunale di Milan, 23 settembre 2010, Tribunale di Bologna, ord. 8 giugno 2009, in Le sezioni Specializzate Italiane della Proprietà Industriale ed Intellettuale – 2009/2010, Giuffrè, 54.
(16) Sul tema, si ricordano anche Cass. nn. 1833/69 e 6128/87, in cui la Suprema Corte ha osservato che la contraffazione del marchio registrato può sussistere anche se la riproduzione è inserita in un marchio complesso e che la semplice aggiunta del nome del produttore ad un marchio tutelato non vale a escludere la contraffazione.
(17) In Banca Dati online Pluris.
(18) Conformemente ai principi enunciati dalla Corte di Cassazione nel caso Jagermeister, si veda anche Trib. Milano 24.10.2013 disponibile online sul sito ilcaso.it. Nel decidere il caso, il Collegio milanese ha, infatti, affermato che con riferimento ai marchi complessi, ai fini dell’accertamento della confondibilità, nella valutazione comparativa si deve avere riguardo “alle singole componenti dotate di autonoma efficacia distintiva, denominativa o figurativa che sia, non essendo configurabile un’astratta gerarchia, la cui tutela si rifletta sull’intero marchio complesso, con la conseguenza che la confondibilità è ravvisabile anche in caso di appropriazione di una sola delle due componenti”.
(19) Proprio nel settore automobilistico, per esempio, si cita la decisione C-361/04 disponibile sul sito www.curia.europa.eu, in cui la Corte, nell’escludere la confondibilità tra i marchi Picasso e Picaro per contraddistinguere veicoli, tra le altre motivazioni, ha ritenuto che nel valutare “l’esistenza di un eventuale rischio di confusione tra i marchi relativi ad autoveicoli, occorre tener conto del fatto che, vista la natura dei prodotti considerati e, in particolare, il loro prezzo ed il loro accentuato carattere tecnologico, il consumatore medio presta un grado di attenzione particolarmente elevato al momento dell’acquisto di tali prodotti”, risolvendosi all’acquisto solo “al termine di un esame particolarmente attento”, con la conseguenza, sul piano giuridico, che tale circostanza può essere considerata idonea a ridurre (o escludere) il rischio di confusione.