Alessio Scarcella, Condizioni dell’efficacia probatoria dell’indagine dattiloscopica, in Dir. Pen. e Processo, 2012, 1, p. 68
Cass. pen. Sez. I, 15 marzo 2011, n. 17424
Condizioni dell’efficacia probatoria dell’indagine dattiloscopica
Sommario: Dattiloscopia e prova dattiloscopica nell’evoluzione storico-scientifica – La posizione della Cassazione sulla prova dattiloscopica – Il “revirement” della Corte sull’efficacia probatoria: abbassata la soglia dei 16 punti? – Considerazioni conclusive
Dattiloscopia e prova dattiloscopica nell’evoluzione storico-scientifica
La dattiloscopia è il ramo della criminalistica che studia le creste cutanee papillari, principalmente dei polpastrelli delle dita, al fine di identificare l’autore di un reato, basandosi sulle impronte da questi lasciate nel luogo del delitto o sull’oggetto utilizzato per commetterlo (1). La dattiloscopia fu inizialmente utilizzata come tecnica di segnalazione personale e non, invece, per identificare gli autori dei reati. L’esigenza di trovare un sistema rapido e sicuro per distinguere gli individui traeva origine dal dilagare della criminalità: infatti, benché in passato la popolazione mondiale fosse di gran lunga inferiore a quella attuale, l’indice di criminalità era certamente più alto. La prima tecnica veramente scientifica di segnalazione attuata in Europa venne suggerita da Alphonse Bertillon: il segnalamento antropometrico (2). Tale tecnica (che si basava sulla duplice constatazione che l’ossatura umana, nel medesimo individuo, è invariabile dal ventesimo anno in poi e che i caratteri antropometrici variano da soggetto a soggetto) era tutt’altro che agevole, in quanto richiedeva tempo sia in fase di misurazione che in quella di consultazione delle schede; inoltre, il metodo era valido solo per i soggetti adulti, ma non per i minori ed, infine, era necessario tener conto anche di eventuali errori di misura, che rischiavano di falsare tutti i dati raccolti. Si deve a William Herschel, funzionario inglese della Old East India Company of Bengala in India, l’intuizione dell’importanza delle indagini dattiloscopiche. Fu costui, infatti, probabilmente il primo vero ricercatore che ritenne di utilizzare le impronte delle palme delle mani e dei polpastrelli nel segnalamento personale (3). Tuttavia, chi per primo intuì davvero il vantaggio del ricorso alle impronte digitali per identificare l’autore del reato fu Henry Faulds, medico presso l’ospedale Tsukiji di Tokio, poiché come egli stesso scrisse alla rivista inglese Nature, “se sul luogo del delitto si trovano impronte digitali, questo può portare alla scoperta del colpevole” (4).
Contenuto Riservato!
Iscriviti alla nostra newsletter per avere accesso immediato
Se sei già iscritto, inserisci nuovamente la tua email per accedere
A Francis Galton va, invece, il merito di aver enunciato i principi fondamentali della dattiloscopia che si basano sulla immutabilità delle impronte:
1) non subiscono trasformazioni nell’arco della vita di un individuo;
2) le impronte sono variabili in quanto sono diverse da individuo a individuo (in un medesimo individuo inoltre le impronte lasciate dalle dieci dita sono tutte diverse da loro);
3) le impronte digitali sono classificabili e sono riconducibili ai quattro tipi fondamentali di figura: adelta, monodelta, bidelta, composta. (5)
I disegni papillari, infatti, non alterano la propria morfologia nel corso della vita dell’individuo cioè rimangono immutati dal momento della loro formazione, intorno al terzo mese di vita intrauterina, sino al subentrare dei fenomeni putrefattivi successivi alla morte, tranne in caso di effetti traumatici oppure a seguito di particolari malattie infettive della pelle. Quanto alla irripetibilità delle impronte, il matematico Balthazard, che si basava su una formula empirica di tipo esponenziale, ipotizzò che fra due impronte si sarebbero potuti riscontrare appena diciassette punti di corrispondenza su una serie di 17.179.869.184 esemplari. In pratica, una possibilità su decine di miliardi che un frammento di impronta contenente 17 contrassegni caratteristici possa essere stato depositato da una persona diversa da quella a cui viene attribuito (6). Se si considera che la popolazione mondiale ha raggiunto nello scorso mese di ottobre quota 7 miliardi di individui, peraltro distribuiti su tutta la superficie del globo, si può ragionevolmente ritenere tale evenienza quanto meno improbabile. E’ vero che se un evento è statisticamente improbabile, non necessariamente esso deve ritenersi assolutamente impossibile, ma nel caso delle impronte papillari gli elementi di differenziazione sono tali e tanti che un evento improbabile può in sostanza considerarsi impossibile.
Il primo sistema di classificazione delle impronte europeo fu elaborato in Inghilterra e reso noto nel 1900 da Sir Edward Richard Henrj. Dalla classifica di Henrj, attualmente la più diffusa nel mondo, derivano tutti gli altri sistemi moderni di classificazione.
In Italia, è stato elaborato dal Gasti, un funzionario di Polizia nel 1907, un sistema che va sotto il nome di “Classifica decadattiloscopica Gasti”, che divide le impronte digitali in dieci categorie, numerate da 0 a 9 (7):
- a) categoria 0 – impronta indecifrabile o manca il dito;
- b) categoria 1 – adelta;
- c) categoria 2 – monodelta radiale (verso il pollice); d) categorie 3 – 4 – 5 – monodelta ulnare (verso il mignolo) a seconda del numero delle linee intercorrenti tra il delta ed il centro di figura;
- e) categorie 6 – 7 – 8 – bidelta a seconda della reciproca posizione dei due delta;
- f) categoria 9 – figura composta. Una volta completata l’attività di classificazione, i simboli numerici attribuiti alle impronte delle dieci dita del soggetto segnalato andranno a costituire la formula dattiloscopia, in quest’ordine:
1) serie: indice, pollice ed anulare della mano sinistra;
2) sezione: indice, pollice ed anulare della mano destra;
3) numero: medio e mignolo della mano sinistra e medio e mignolo della mano destra. In base alla formula dattiloscopia così articolata, si procede alla consultazione dei Casellari regionali e nazionali d’identità per accertare se siano già stati compilati cartellini segnaletici aventi i medesimi simboli.
Per stabilire però, in concreto, se le impronte esaminate siano identiche a quelle apposte su un altro cartellino segnaletico (e che, quindi, il soggetto sia stato precedentemente sottoposto a segnalamento), non basta la corrispondenza dei simboli numerici attribuiti alle une e alle altre, ma è necessario procedere ad una comparazione diretta tra le impronte delle singole dita. Attualmente le polizie di tutti i Paesi adottano sistemi biometrici per l’identificazione dattiloscopica. In Italia, il sistema APFIS (Automated Palmars and Fingerprints Identification System) utilizza un algoritmo della Cogent System. APFIS è un software in grado di archiviare, codificare e confrontare con procedure in parte automatizzate, in tempi molto rapidi, le milioni di impronte digitali e palmari presenti nei database del Casellario Centrale di identità presso il Viminale. In tutto il mondo, l’identità attraverso l’impiego delle impronte papillari ricopre un ruolo preminente e indiscusso nell’indagine forense. Sono principalmente tre gli ambiti di applicazione dell’identità dattiloscopica. Il primo attiene alla c.d. “dattiloscopia giudiziaria”, ovverosia la possibilità che le tracce papillari trovate sulla scena del crimine, portino alla ricostruzione di fatti delittuosi. In altre parole, si concretizza con la possibilità di individuare le persone che, a vario titolo, erano presenti sul luogo in cui si è consumato un reato. Una seconda serie di prescrizioni riguarda le leggi o gli articoli di legge mirati al controllo dell’identità intesa essenzialmente come “potere-dovere” dell’Autorità (Giudiziaria o di Pubblica Sicurezza) di individuazione-riconoscimento di una persona: vale a dire, attribuire a quest’ultima “esatte e complete generalità anagrafiche”, (8) indipendentemente dalla commissione di un reato. La cd. “identificazione preventiva”, è intesa più che altro come l’insieme dei dati necessari e sufficienti che permettono di individuare, specie dal punto di vista burocratico e anagrafico, la persona. (9) Il terzo ed ultimo ambito, che deriva dal secondo ma con alcune significative differenze, riguarda il “controllo sociale”, ossia l’insieme di norme poste in essere estendendo l’utilizzo di un dato biometrico a intere categorie di persone (10). Si rileva, inoltre, come l’accertamento dattiloscopico, nel suo complesso, è sottoposto ad una duplice regolamentazione. Una prima serie di prescrizioni riguarda l’orientamento di legittimità che, a sua volta, si fonda su un calcolo statistico-probabilistico. Una seconda serie di prescrizioni riguarda le norme e le singole disposizioni di legge che mirano a stabilire l’identità, intesa essenzialmente come “potere” di individuazione-riconoscimento di una persona e il “controllo sociale” di una intera categoria di persone. Vale a dire attribuire le esatte e complete generalità anagrafiche (11), indipendentemente dalla commissione di un reato.
Le impronte possono dunque essere codificate da un gran numero di funzioni:
- a) il flusso delle creste papillari;
- b) il tipo, il numero, la direzione e la posizione delle minuzie;
- c) la morfologia dei pori sudoripari, la loro distanza o il loro numero.
Queste caratteristiche peculiari sono in realtà molte, ma la giurisprudenza, generalmente, ne individua una sola specie, ritenuta come “necessaria e sufficiente” per stabilire un’identità dattiloscopica certa: la c.d. differenza derivante dai “punti caratteristici” dei caratteri particolari dell’impronta. In altri termini, dal numero di minuzie e dalla corrispondenza per forma e posizione. Le ragioni di questa scelta dipendono probabilmente dal fatto che le impronte palmari, al contrario di quelle digitali, non sono soggette a nessun tipo di classifica generale e quindi, in questo caso, non sarebbe possibile stabilire un’identità dattiloscopica certa a partire da quel dato (12). In assenza di una norma specifica che detti la disciplina dell’identità “giudiziaria” delle impronte repertate sulla scena del crimine, spetta alla dottrina (13) ed alla giurisprudenza definirne l’orientamento.
La posizione della Cassazione sulla prova dattiloscopica
La Corte Suprema si è reiteratamente occupata, nel corso degli anni, con numerose decisioni, del valore probatorio dell’identità dattiloscopica.
L’orientamento attuale, che affonda le proprie radici in una sentenza della Suprema Corte degli anni sessanta (14), è di considerare l’effettiva corrispondenza tra due impronte quando esse possiedono almeno sedici o diciassette punti caratteristici in comune, uguali per forma e posizione. In altre parole, seguendo l’insegnamento della Corte, si procede mettendo a confronto due termini omologhi: l’impronta rilevata sul luogo del reato con quella precedentemente assunta, per stabilire se esistono analogie e corrispondenze. Se vi è una corrispondenza per forma e posizione tra i punti caratteristici delle diverse impronte papillari, e solo in questo caso, è possibile attribuire un’identità dattiloscopica certa. La giurisprudenza formatasi a cavallo degli anni sessanta e settanta, mostrava peraltro particolare rigore nell’attribuzione dell’efficacia probatoria, affermandosi reiteratamente come il risultato delle indagini dattiloscopiche potesse essere legittimamente posto dal giudice a base dell’affermazione di responsabilità, quando, in assenza di qualsiasi errore di rilevazione, esso risultasse corrispondente a quelle condizioni che, verificate dal rigore scientifico, offrissero piena garanzia di attendibilità, essendovi l’obbligo per il giudice di controllare di volta in volta le indagini compiute, per stabilire se nel corso di queste fossero intervenute manchevolezze tecniche tali da poter infirmare il risultato del procedimento dattiloscopico (15). Il principio di diritto così affermato, sembrava essere condiviso anche dalla dottrina (16) che, sul punto, tuttavia criticava (17) l’orientamento giurisprudenziale che, vigente il cessato codice di rito, sosteneva che i rilievi e gli accertamenti inerenti alle indagini dattiloscopiche (consistenti nel rilevare le impronte digitali lasciate nel luogo del commesso reato, nella loro riproduzione mediante ingrandimento fotografico, nella fissazione delle impronte della persona indiziata, e nel confronto di queste con quelle innanzi rilevate) non avessero il carattere di indagine tecnica, equivalente ad una perizia, rientrando nei poteri della polizia giudiziaria (18). Successivamente, la Corte di cassazione, progressivamente consolidando il proprio orientamento, aveva rafforzato la propria visuale, ribadendo che le risultanze delle indagini dattiloscopiche offrono piena garanzia di attendibilità, senza bisogno di elementi sussidiari di conferma, purché evidenzino la sussistenza di almeno sedici o diciassette punti caratteristici uguali per forma e posizione tra le impronte digitali dell’imputato e quelle rilevate sul luogo del reato” (19). Gli anni ottanta sono quelli nei quali ferve l’elaborazione creatrice della giurisprudenza, che, infatti, a più riprese, nel ribadire che le risultanze delle indagini dattiloscopiche offrono piena garanzia di attendibilità senza bisogno di ulteriori elementi sussidiari di conferma, si spinge fino al punto di affermare che la piena efficacia probatoria dev’essere in tal caso riconosciuta anche quando le indagini dattiloscopiche “riflettano una sola impronta purché evidenzino la sussistenza di almeno sedici punti caratteristici uguali per forma e posizione” (20). Si giunge, infine, successivamente all’entrata in vigore del codice Vassalli, alla più recente elaborazione giurisprudenziale che, fondandosi sul disposto dell’art. 354 c.p.p., ribadisce che la verifica dattiloscopica è dotata di piena efficacia probatoria senza bisogno di elementi sussidiari di conferma, purché sia individuata la sussistenza di almeno 16 punti caratteristici uguali, in quanto essa fornisce la certezza che la persona con riguardo alla quale è stata effettuata si sia trovata sul luogo in cui è stato commesso il reato; pertanto, legittimamente, in mancanza di giustificazioni su tale presenza, viene utilizzata dal giudice ai fini del giudizio di colpevolezza (21).
Il “revirement” della Corte sull’efficacia probatoria: abbassata la soglia dei 16 punti?
Per ben comprendere il ragionamento della Corte nel caso in esame è utile, seppure sinteticamente, richiamare la vicenda processuale da cui il Supremo Collegio ha tratto spunto per l’affermazione dell’importante principio di diritto. La mattina del 14 febbraio 2006, alle ore 9.30, l’assistente sociale incaricata dell’assistenza domiciliare in favore di un’anziana donna, recatasi presso l’abitazione dell’assistita e preoccupata per la mancata risposta ai suoni del campanello di ingresso, dava l’allarme, determinando, prima, l’intervento dei vigili e poi quello dei Carabinieri, i quali, entrati nell’alloggio dal balconcino del primo piano che presentava i vetri dei battenti rotti verso l’interno, percepivano in tutti gli ambienti un acre odore di bruciato, riscontrando, nel contempo, visibile affumicamento delle pareti e del soffitto della camera da letto, segni ematici sul pavimento e, quivi abbandonata, una bottiglia in plastica di alcool denaturato ormai vuota. Da qui le prime conclusioni degli inquirenti i quali, considerate le condizioni della vittima, affetta da nanismo, seriamente invalida e nella impossibilità di potersi allontanare da sola, che la medesima fosse stata aggredita ed uccisa in casa, perdendo sangue e poi data alle fiamme all’interno della camera da letto. Due vicini di casa della vittima avevano entrambi sentito il rumore di vetri andati in frantumi, la sera del 13 febbraio, tra le ore 20.30 e le ore 21, ed uno di essi, affacciandosi alla porta di casa, non aveva notato nulla di particolare, se non la donna sul balcone della sua abitazione. Sulla bottiglia di plastica ormai vuota del suo contenuto, l’alcool utilizzato per accelerare la combustione del corpo della vittima, come provato dall’esame del materiale combusto prelevato sul posto ove la stessa era stata data alle fiamme, veniva isolato un frammento papillare digitale utile ai fini identificativi e la relativa indagine comparativa consentiva al RIS dell’Arma dei Carabinieri di individuare 17 punti caratteristici coincidenti con l’impronta del pollice della mano destra dell’imputato. L’esame veniva ripetuto nel corso del giudizio di primo grado, questa volta utilizzando la rappresentazione fotografica del frammento papillare, non essendo possibile estrarre nuovamente l’impronta dalla bottiglia in sequestro, ed all’esito di esso i sottufficiali del RIS di Roma confermavano gli esiti del primo accertamento, in riferimento però a 16 punti caratteristici, peraltro in parte diversi da quelli del primo esame. In sintesi, comunque, per dodici punti il giudizio dei periti risultava corrispondere a quello dei consulenti, e per altri quattro il giudizio dei periti non corrispondeva a quello della consulenza tecnica, che, a sua volta, individuava 5 punti non ritenuti validi dai periti. Nonostante ciò la Corte di primo grado, coordinando le conclusioni della perizia e della consulenza ed esaminando i rilievi critici del consulente tecnico di parte, concludeva affermando la certezza della riferibilità dell’impronta lasciata sulla bottiglia contenente l’alcool all’imputato, rilevando, in particolare:
- a) che il grado di chiarezza dell’impronta nella fattispecie era di secondo livello rispetto ai tre tradizionalmente catalogati dagli esperti;
- b) che l’impronta era stata lasciata su un contenitore di plastica, superficie rotondeggiante e suscettibile di compressione non rigida;
- c) che questo giustifica le differenti distanze correnti tra alcuni punti corrispondenti, distanze molto enfatizzate dal consulente tecnico di parte;
- d) che l’impronta di comparazione utilizzata dai periti e dai consulenti era stata diversa, l’una rinveniente da un prelievo diretto, l’altra da quello lasciato sul cartellino segnaletico;
- e) che questo non ha consentito agli esperti del RIS che avevano eseguito il primo accertamento di rilevare punti che, viceversa, il RIS di Roma ha potuto meglio valutare;
- f) che, in realtà, sul punto 14 della perizia non vi erano divergenze;
- g) che periti e consulenti avevano individuato i punti “migliori” di corrispondenza e che le divergenze sono prive di sostanziale rilievo;
- h) che in altri Paesi la soglia convenzionale della certezza è assai inferiore a quella riconosciuta nel nostro ordinamento (22).
In definitiva, sulla base dei rilievi eseguiti sul luogo del delitto, si perveniva alla conclusione che verso le ore 20.30 del 13 febbraio 2006 l’imputato era entrato di soppiatto nell’abitazione della vittima, accedendovi dal balconcino del primo piano dopo aver rotto i vetri del battente e qui aveva violentemente dato la morte alla vittima, la quale aveva, per questo, perso copiosamente sangue, eliminato dall’assassino con una spugnetta ed uno straccio, ma comunque rilevato attraverso l’utilizzo del luminol in vaste zone della camera da letto e del bagno. Il cadavere, mai ritrovato, era stato poi bruciato ed occultato.
La sentenza di primo grado veniva confermata in appello, osservando i giudici di seconde cure quanto segue:
- a) gli esiti della nuova perizia confermavano che, tra l’impronta digitale rilevata sul flacone di alcool da parte dei Carabinieri del RIS intervenuti sul luogo del fatto e l’impronta del dito pollice della mano destra di cui alla fotografia acquisiti agli atti, vi è corrispondenza in 12 punti caratteristici e compatibilità di genere;
- b) tale conclusione è del tutto prudenziale, tenuto conto delle condizioni dell’impronta, rilevata su un contenitore che aveva subito un rotolamento sul pavimento;
- c) non sono state riscontrate dai periti difformità tali da escludere tassativamente l’attribuibilità dell’impronta all’imputato;
- d) la pratica giudiziaria italiana esige la corrispondenza di almeno 16 punti, soglia questa sottoposta a critica in quanto statisticamente riferita ad un campione mondiale e non già territoriale, che comporterebbe un abbassamento notevole delle possibilità statistiche ove collocare poi la certezza della riferibilità dell’impronta;
- e) le conclusioni peritali in argomento escludono pertanto la valenza di prova piena riconosciuta dai giudici di primo grado all’esame dattiloscopico disposto in quella fase del processo, ma rimane un esito peritale, quello acquisito in seconde cure, dai quali si può logicamente e doverosamente trarre il convincimento che con grandissima probabilità il dito pollice della mano destra dell’imputato lasciò la sua impronta nell’atto di premere il flacone di plastica contenente l’alcool al fine di favorirne la fuoriuscita indirizzata sul corpo della vittima;
- f) la gravità e la precisione dell’indizio in tal guisa ricostruito, può legittimamente concorrere alla formazione di un più complesso quadro indiziario in forza del quale affermare la colpevolezza dell’imputato.
La Cassazione, a seguito dell’impugnazione dell’imputato, ritiene destituite di fondamento le doglianze difensive. Per quanto qui di interesse, merita soffermare l’attenzione sul punto della motivazione nel quale i giudici di legittimità non ritengono condivisibili le argomentazioni difensive in ordine alla valutazione probatoria, ritenuta nulla, della perizia dattiloscopica che accerti la corrispondenza di dodici punti tra impronta conosciuta ed impronta sconosciuta. Se, infatti, in tale ipotesi, precisa il Supremo Collegio, “per costante lezione interpretativa di questa Corte e, non meno, per costanza di prassi giudiziaria” non può ritenersi raggiunta certezza probatoria della riferibilità dell’impronta di soggetto ignoto a quella di persona nota sottoposta a comparazione, giacché necessaria, a tal fine, la corrispondenza di almeno 16 punti, “sarebbe del tutto illogico e distonico con le stesse leggi della fisica e delle scienze non valutare nella sua oggettiva significatività un dato di sicura rilevanza quale la coincidenza di un numero apprezzabile di corrispondenze dattiloscopiche, numero che, per comune scienza, in distinti ordinamenti hanno addirittura valore di prova piena”. Per questa ragione, dunque, la Corte considera del tutto corretto il ragionamento logico – giuridico dei giudici di merito i quali, negando al dato in loro possesso ed acquisito al processo (la corrispondenza cioè di dodici punti significativi tra l’impronta ritrovata sul luogo del delitto e quella dell’imputato) il valore di prova di per sé sufficiente a dare certezza assoluta che sul luogo dell’omicidio si sia trovato chi quell’impronta ha lasciato, da ciò traendo poi convincimenti di colpevolezza in assenza di adeguate giustificazioni di quella presenza, hanno comunque ritenuto di assegnare alla circostanza in argomento valore di indizio, univoco, preciso e concordante, valore da ritenere viepiù robusto ai fini della prova, se inserito in contesti di tempo e di luogo idonei a rafforzarne il valore. Importante, sotto tale profilo, l’affermazione dei giudici di Piazza Cavour secondo cui la medesima corrispondenza dattiloscopica, se riferita ad una platea di persone più o meno vasta, dà certezze (indiziarie, certo) maggiori o minori corrispondenti “di guisa che l’uccisione violenta di una solitaria vecchietta nella città di Roma, non può avere gli stessi possibili sospettati di un’analoga azione delittuosa consumata in Mirabella Imbaccari, piccolo centro di circa cinquemila abitanti, da parte di un soggetto certamente giovane ed agile, capace di guadagnare facilmente il balconcino posto al primo piano dell’alloggio della vittima”. E’ alla stregua delle precedenti considerazioni, dunque, che la Corte si spinge al punto di affermare il principio secondo cui “la corrispondenza dattiloscopia di più punti può assumere maggiore o minore valenza indiziaria a seconda della natura dei punti di corrispondenza (semplici, come nella fattispecie, o complessi) ovvero dei contesti di tempo e di luogo in cui la traccia ignota è stata lasciata, in riferimento ai potenziali soggetti ai quali riferirla e di qui, altresì, la conseguenza, nello specifico, che quella acquisita al presente processo, se considerata nel numero di dodici, legittimamente può assurgere ad indizio rilevante di colpevolezza, ed altrettanto legittimamente può giustapporsi alla falsità dell’alibi fornito dall’imputato, alla sua personalità, rapportabile, in astratto, a quella del reale assassino, al suo interessamento sulle indagini in corso e sugli accertamenti scientifici eseguiti dagli inquirenti”. Così affermato il principio, però, la Corte non si accontenta della valenza indiziaria del risultato dell’indagine dattiloscopica svolta su un numero di punti ben al di sotto della soglia di rilevanza probatoria tradizionalmente riconosciuta. Ed infatti, correttezza logico – giuridica non poteva non portare i giudici di legittimità ad affermare come, alla luce delle contrastanti conclusioni emerse dalla perizia rispetto agli accertamenti tecnico – scientifici cui erano pervenute le parti processuali, i risultati dell’indagine dattiloscopica in tanto possono essere assunti dal giudice come prova dell’identificazione della persona cui l’indagine si riferisce, ovvero come solido indizio in tal senso, se non vi siano dubbi sulla correttezza dei metodi di rilevazione e di accertamento scientifico. Dubbi che, nel caso in esame, non si erano certo diradati ma, anzi, rafforzati, imponendo l’annullamento con rinvio al giudici a quo al fine trovare una soluzione, nel merito, alla questione “con l’ausilio di nuovi accertamenti tecnico-legali che specificamente, altresì, considerino le censure difensive dell’imputato, in particolare quelle affidate anche al presente ricorso di legittimità, ovvero con motivazioni aggiuntive dei consulenti già incaricati, ovvero ancora con motivazioni autonomamente arricchite da parte dei giudicanti di merito, senza escludere la riconsiderazione scientifica di punti non considerati dai periti ultimi”.
Considerazioni conclusive
La decisione qui commentata, pur inserendosi nel filone giurisprudenziale consolidato incline a riconoscere efficacia probatoria alle risultanze dell’indagine dattiloscopica, se ne discosta sotto un decisivo profilo, mostrando chiaramente di abbandonare la logica dell’automatismo probatorio conseguente alla assiomatica corrispondenza dei canonici 16 punti, affermando che quest’ultima può assumere maggiore o minore valenza indiziaria a seconda della natura dei punti di corrispondenza (semplici o complessi), ovvero dei contesti di tempo e di luogo in cui la traccia ignota è stata lasciata, in riferimento ai potenziali soggetti cui riferirla.
Si tratta di un’affermazione, nella pratica processuale, di grande importanza, in quanto il giudice di legittimità, per la prima volta, ritiene come correttamente attribuita valenza indiziaria al ritrovamento di un’impronta corrispondente per dodici punti a quella dell’imputato, senza necessità del raggiungimento dei fatidici sedici punti di corrispondenza per assumere efficacia probatoria. Ma v’è di più. La Corte, infatti, pur ammettendo che quest’ultima possa essere riconosciuta anche in caso di mancato raggiungimento della “fatidica” quota sedici, recupera in chiave garantista quella tendenza, come già visto presente nella giurisprudenza più avveduta degli anni sessanta (23), verso un maggior rigore nell’apprezzamento delle risultanze dell’indagine dattiloscopica. E’ in tal senso, infatti, che deve intendersi quella precisazione, contenuta in motivazione, secondo cui i risultati dell’indagine dattiloscopica possono essere assunti dal giudice come prova o come indizio dell’identificazione di una persona soltanto se non vi siano dubbi sulla correttezza dei metodi di rilevazione e di accertamento scientifico. Solo, dunque, se il giudice ha l’assoluta certezza che il metodo impiegato di rilevazione delle impronte papillari o l’accertamento scientifico rispondono a criteri di “correttezza”, può attribuire sicura efficacia probatoria alle risultanze dell’indagine dattiloscopica, dovendo, diversamente, giungere ad un approdo assolutorio.
Si tratta, all’evidenza, di un approdo assolutamente condivisibile, da seguirsi ogniqualvolta il giudice si trovi a dover valutare i risultati di una perizia, essendo obbligo di quest’ultimo, pur quando le conclusioni peritali si fondino su cognizioni di comune dominio degli esperti e su tecniche d’indagine ormai consolidate (come nel caso delle indagini dattiloscopiche), verificare comunque la corretta applicazione delle suddette cognizioni e tecniche, principio, del resto, espresso già in precedenti occasioni in relazione ad attività peritali riguardanti settori diversi da quello dattiloscopico (24).
———————–
(1) A. D’Arienzo, Raccolta di appunti di criminalistica, Sez. Identità Personale – Dattiloscopia, www.officeitalia.it/scicosi/datt.htm
(2) Le analisi scientifiche sono state rese celebri dai suoi studi: 1) A. Bertillon, Une application pratique de l’anthropometrie sur un procede d’identification: permettant de retrouver le nom d’un recidiviste au moyen de son seul signament, et pouvant servir de cadre pour une classification de photographies a la prefecture de police, a la surete generale, au Ministere de la justice etc., Paris, G. Masson, 1881; 2) A. Bertillon, Identification anthropométrique: instructions signalétiques, Melun, Typographie-lithographie administrative, 1885; 3) A. Bertillon, La photographie judiciaire: avec un appendice sur la classification et l’identification anthropometriques, Paris, Gautier-Villars et fils, 1890.
(3) A. D’Arienzo, cit., http://www.officeitalia.it/scicosi/datt.htm
(4) I suoi studi sono compendiati nella sua celebre monografia: H. Faulds, A Manual of Practical Dactylography, The “Police review” publishing co., London, 1923.
(5) Tra i suoi scritti più famosi, si ricordano: 1) F. Galton, Finger Prints, Macmillan, London, 1892; 2) F. Galton, Decipherment of Blurred Finger Prints, Macmillan, London, 1893; 3) F. Galton, Physical Index to 100 Persons Based on their Measures and Finger Prints, Privately printed, 1894; 4) F. Galton, Finger Print Directories, Macmillan, London, 1895.
(6) C. Champod, Institut de Police Scientifique et de Criminologie BCH/Université de Lausanne, Edmond Locard – Numerical Standards & “Probable” Identifications, Journal of Forensic Identification, 45 (2) 1995, 136-155.
(7) E. Graziano, Polizia Scientifica e Criminalistica, in Criminologia applicata per la investigazione e la sicurezza, a cura di A. Balloni e R. Bisi, Ed. F. Angeli, 1996, 382.
(8) Così, A. Intini, Investigazione di Polizia Giudiziaria, Laurus Robuffo, Roma, 2003.
(9) Ad esempio, l’art. 349, comma 2, c.p.p., Identificazione della persona nei cui confronti vengono svolte le indagini e di altre persone, è un’attività a iniziativa della polizia giudiziaria. La norma prescrive che all’identificazione della persona si possa procedere anche eseguendo, ove occorra, rilievi dattiloscopici. Si afferma, pertanto, in dottrina che “La dattiloscopia preventiva cura, pertanto, l’elencazione e l’aggiornamento dei cosiddetti elenchi dei precedenti dattiloscopici, funzionali a molteplici attività di Polizia e, più in generale, di Giustizia” (A. Intini – M. Picozzi, Scienze forensi. Teoria e prassi dell’investigazione scientifica, Utet, Torino, 2009, 319).
(10) Si pensi ad esempio al Testo Unico sull’immigrazione; oppure ai sistemi di protezione per l’accesso a luoghi sensibili come istituti di credito, uffici, ecc.; o ancora alla possibilità di dotare i documenti di riconoscimento di un dato biometrico per impedirne la falsificazione o la sostituzione.
(11) V. Intini, cit., 32.
(12) V., per i rilievi che precedono e per maggiori approfondimenti, il contributo di S. Alberti, Identificazione forense e Dattiloscopia, in ProfessioneFormazione, n. 3, 09/2010, su www.onap-profiling.org/?p=648.
(13) Si rimanda, per maggiori approfondimenti, ai sempre attuali contributi, soprattutto alla luce della decisione qui commentata di: G. Pirone, Impronte digitali: legge e tecnica, in Giust. pen., 1976, I, 155 (in cui l’A., rilevata la fondatezza del metodo di identificazione delle persone basato sul confronto delle impronte lasciato dalle creste papillari presenti sulle palme delle mani e sulle piante dei piedi, descrive in sintesi i metodi di classificazione delle impronte, esponendo anche le possibili linee da seguire per la realizzazione di un archivio automatizzato delle impronte dattiloscopiche); S. Ramajoli, Rilievi dattiloscopici: aspetti medico-legali ed efficacia probatoria, in Cass. pen., 1980, 1142 (in cui l’A., dopo aver affermato che la dattiloscopia ha origini estremamente risalenti, propone ed esamina le modalità tecniche di assunzione e gli aspetti scientifici del problema, ponendo in particolare risalto l’importanza della correttezza del metodo seguito per la rilevazione, unica garanzia di dati attendibili, che conferisce all’esame delle impronte il carattere di accertamento tecnico, concludendo, infine, sulla classificazione sistematica dei risultati della dattiloscopia, trattarsi di indizi).
(14) Cass., Sez. II, 14 novembre 1959, n. 2559.
(15) V., in termini: Cass., Sez. II, ord. 7 aprile 1967, n. 1471, M., in Ced Cass. 104401; Id., Sez. II, 16 dicembre 1966, n. 1860/67, P., in Ced Cass. 103766; Id., Sez. II, 24 giugno 1966, n. 1131/67, G., in Ced Cass. 103298, che aveva annullato la sentenza del giudice di merito il quale aveva omesso di valutare, tra l’altro, circostanze relative al tempo e al metodo dei rilevamenti in relazione alle impronte repertate, alla diversità tra rilevatori e accertatori; Id., Sez. II, 17 maggio 1966, n. 888, P., in Ced Cass. 102653; Id., Sez. II, ord. 13 ottobre 1965, n. 2122/66, P., in Ced Cass. 100258.
(16) Sul punto, v., ad esempio, quanto sostenuto da L. Ragazzini, La regola dei 16-17 punti nell’identificazione dattiloscopica, in Giust. pen. 1968, 699: Id., Rilievi dattiloscopici e prova penale, ivi, 1970, 570.
(17) In termini critici, ad esempio, si esprimeva chi (M. Leone, Indagini dattiloscopiche ed intervento della difesa, in Giur. mer., 1971, II, 98) riteneva che la lettura o l’interpretazione delle impronte dattiloscopiche desse luogo ad una valutazione tecnica per la quale dovevano trovare applicazione le garanzie difensive di cui agli abrogati artt. 304, bis, ter, quater del c.p.p. 1930. Nello stesso senso, si pronunciava anche quella dottrina (F. Della Casa, La nomina del difensore come “garanzia minima” in tema di rilievi dattiloscopici, in Riv. it. dir. proc. pen., 1978, 420) che, annotando in senso critico le decisioni della Cassazione che escludevano l’applicabilità delle garanzie difensive nella fase degli atti di polizia giudiziaria in tema di rilievi dattiloscopici, affrontava il problema delle garanzie difensive applicabili alle attività di rilevamento delle impronte digitali inserendolo in una visione globale dei principali orientamenti giurisprudenziali in materia, in particolare inquadrando la disciplina dell’art. 225 c.p.p. 1930 alla luce delle pronunce della Corte costituzionale e delle modifiche legislative introdotte dall’art. 7, l. 14 ottobre 1974, n. 497.
(18) Di conseguenza, sosteneva la giurisprudenza, per il compimento di tali atti non è prescritta la presenza del difensore, né gli atti stessi, per il loro carattere amministrativo, rientravano fra quelli per i quali era obbligatorio il deposito ex art. 304-quater c.p.p. La valutazione delle indagini dattiloscopiche eseguite dalla polizia giudiziaria, dunque, doveva intendersi come riservata al giudice di merito, il quale, nel caso di contrasto o di dubbio sul metodo di rilevamento e ancor più sulla coincidenza degli elementi di confronti, avrebbe potuto anche avvalersi dell’opera di un perito, sicché solo in tale ipotesi le nuove indagini dovevano svolgersi con tutte le garanzie dalla legge riservate all’imputato (Cass., Sez. II, 3 maggio 1978, Castriota, in Cass. pen. 1979, 1551). Tale orientamento, consolidatosi nella giurisprudenza dell’epoca (ad es., ex multis: Cass., Sez. I, 20 luglio 1979, Zelano, in Riv. it. medicina legale 1980, 928, Id.,, Sez. II, 9 gennaio 1984, Novellino, in Riv. pen. 1985, 386; Id. Sez. II, 5 luglio 1985, Solla, in Giur. it. 1986, II, 313 ed in Giust. pen. 1987, III, 75), è stato ribadito anche oggi dalla giurisprudenza di legittimità formatasi sotto il nuovo codice di rito (v., ad es.: Cass., Sez. V, 17 marzo 2004, n. 23319, P., in Foro it. 2005, II, c. 244; Id. Sez. I, 11 giugno 2009, n. 28848, D., Ced Cass. 244295; Id. Sez. V, 9 febbraio 2010, n. 16959, ivi 246872), nel senso che la comparazione delle impronte prelevate con quelle già in possesso della polizia giudiziaria non richiede particolari cognizioni tecnico-scientifiche, risolvendosi in un mero accertamento di dati obiettivi, ai sensi dell’art. 354 c.p.p., sicché il suo svolgimento non postula il rispetto delle formalità previste dall’art. 360 c.p.p., con la conseguenza che, qualora colui che abbia svolto attività di comparazione sia sentito in dibattimento e riferisca in ordine alla medesima, il giudice non è tenuto a disporre perizia, potendosi attenere alle emergenze esposte dal dichiarante.
(19) V., in termini: Cass., Sez. II, 23 ottobre 1986, n. 11410, F., in Ced Cass. 174046.
(20) V., ex multis: Cass., Sez. II, 2 ottobre 1981, n. 11129, S., in Ced Cass. 151332; Id., Sez. II, 5 luglio 1985, n. 10567, S., in Ced Cass. 171038, edita in Giur. it., 1986, 313 ed in Giust. pen., 1987, 75; Id., Sez. IV, 2 febbraio 1989, n. 4254, P., in Ced Cass. 180856.
(21) Così, Cass., Sez. V, 26 maggio 2005, n. 24341, D., in Ced Cass. 232213; Cass., Sez. I, 17 aprile 2008, n. 18682, P., in Ced Cass. 240192. V. anche Cass., Sez. II, 2 aprile 2008, n. 16356, C., in Ced Cass. 239781 e Sez. V, 26 febbraio 2010, n. 12792, D. S., in Ced Cass. 246901, secondo cui tale efficacia probatoria si ha anche nel caso in cui dette indagini siano relative all’impronta di un solo dito.
(22) Solo in Italia ed a Cipro, infatti, l’efficacia probatoria, di regola, è subordinata al raggiungimento di 16 punti di corrispondenza (per talune sentenze, in Italia, ne occorrerebbero anche 17), mentre in altri paesi, invece, ci si “accontenta” di un numero inferiore. Il numero minimo di minuzie da riscontrare tra due impronte a confronto per dichiarare l’identità dattiloscopica, è pari a dodici punti in Austria, Belgio, repubblica Ceca, Irlanda, Finlandia, Francia, Germania, Gibilterra, Polonia, Portogallo, Romania, Spagna, Svezia, Turchia Ucraina e Grecia; tale soglia si abbassa progressivamente, giungendo a dieci punti di corrispondenza in alcuni paesi (Danimarca, Olanda, Slovenia ed Ungheria) ed ad otto punti in Bulgaria, fino a scomparire del tutto in altri Paesi, nei quali non è richiesto uno standard minimo di minuzie identificative (Canada, Gran Bretagna, Lussemburgo, Principato di Monaco, Norvegia, Repubblica Slovacca, Svizzera, U.S.A.). I dati sono tratti da Rassegna dell’Arma dei Carabinieri, 2009, n. 2 Aprile/ Giugno, Studi: Identificazione dattiloscopica. Indagine statistica e considerazioni giuridiche sull’utilità ai confronti, a cura di L. Capasso – A. Cordedda – G. De Fulvio – G. Hauser – S. Marascio, in www.carabinieri.it/Internet/ Editoria/Rassegna+Arma/2009/2/Studi/Studi_04.htm
(23) V., ad esempio: Cass., Sez. II, ord. 13 ottobre 1965, n. 2122/66, cit:, Id., Sez. II, 24 giugno 1966, n. 1131/67, cit.; Id., Sez. II, 5 maggio 1971, n. 613/72, M., in Ced Cass. 119995; Id., Sez. II, 17 febbraio 1969, n. 344, P., in Ced Cass. 111180, secondo cui solo quando non vi siano dubbi sulla correttezza dei metodi di rilevazione, di esame e di studio seguiti dagli appositi organi, la identificazione dattiloscopica può bastare anche da sola quale elemento di prova indiziaria, secondo il principio del libero convincimento del giudice, a dare la certezza della commissione del fatto delittuoso ad opera dell’imputato; Id., Sez. II, 19 ottobre 1970, n. 1155/71, in Ced Cass. 116506 e Sez. II, 29 marzo 1982, n. 9051, M., in Ced Cass. 155515 che, nel ribadire il principio di cui sopra, si accontentavano di una corrispondenza di almeno quattordici, quindici punti d’identità.
(24) V., ad esempio, in tema di perizia fonica, quanto affermato da Cass., Sez. V, 9 luglio 1993, n. 8416, I., in Ced Cass. 196264.