Enrico Al Mureden, Assegno divorzile, parametro del tenore di vita coniugale e principio di autoresponsabilità, in Famiglia e Diritto, 2015, 6, 537
La Corte costituzionale dichiara l’infondatezza della questione di legittimità sollevata con riferimento alla perdurante ragionevolezza del tenore di vita coniugale quale parametro funzionale alla determinazione della spettanza e della misura dell’assegno divorzile. La condivisibile decisione conferma, da una parte, le persistenti ed ineludibili esigenze di garantire la gender justice attraverso una equilibrata divisione delle risorse economiche dei coniugi successivamente alla rottura del matrimonio, senza trascurare, dall’altra, le crescenti istanze di differenziare la tutela offerta al coniuge economicamente debole valorizzando i criteri enunciati nell’art. 5, comma 6, l. div. ed il principio dell’autoresponsabilità, ormai affermatosi in molti ordinamenti europei e di common law.
Assegno divorzile, parametro del tenore di vita coniugale e principio di autoresponsabilità
Sommario: 1. La questione di legittimità costituzionale, il “diritto vivente” e la dichiarazione di infondatezza della Corte costituzionale – 2. I profili di criticità e l’esigenza di limitare la tutela del coniuge economicamente debole nei matrimoni di breve durata – 3. L’assegno post-matrimoniale come unico strumento di attuazione del principio di parità tra i coniugi al momento della dissoluzione del matrimonio – 4. Il riferimento al tenore di vita coniugale. I profili di inadeguatezza nella prospettiva delle famiglie che si sovrappongono nel tempo – 5. Il riferimento al tenore di vita coniugale e le esigenze di “revisione” – 6. Le differenti forme di attuazione della funzione assistenziale e l’imprescindibile esigenza di valorizzare i criteri di moderazione dell’assegno divorzile – 7. Il parametro del tenore di vita coniugale tra persistente attualità ed esigenze di coordinamento con il principio dell’autoresponsabilità
1. La questione di legittimità costituzionale, il “diritto viviente” e la dichiarazione di infondatezza della Corte costituzionale
La Corte costituzionale ha dichiarato la non fondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata da una ordinanza del Tribunale di Firenze(1) con la quale era stata posta in dubbio la conformità al principio costituzionale di ragionevolezza (art. 3 Cost.)(2) del consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale le decisioni relative alla spettanza ed all’entità dell’assegno divorzile dovrebbero essere assunte in funzione dell’obiettivo di garantire al coniuge economicamente debole la persistenza di un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio. Più specificamente la questione di costituzionalità riguardava la regola di “diritto vivente” formatasi con riferimento all’art. 5, l. n. 898/1970. Tale regola si caratterizzava, a parere del giudice remittente, per “una palese contraddizione” logica oltre che giuridica – che appariva irragionevole, secondo i canoni della giurisprudenza costituzionale – fra l’istituto del divorzio, che ha come scopo proprio quello della cessazione del matrimonio, ed una disciplina delle conseguenze economiche “che di fatto proietta oltre l’orizzonte matrimoniale il «tenore di vita» in costanza di matrimonio quale elemento attributivo e quantificativo dell’assegno”. In questo modo, continuava il Tribunale di Firenze, vengono prolungati “all’infinito i vincoli economici derivanti da un fatto (il matrimonio) che non esiste più proprio a seguito del divorzio”; e ciò “senza che vi sia necessariamente una giustificazione adeguata sotto il profilo della tutela di interessi e diritti costituzionali o garantiti dalla Costituzione”. Proprio in questa prospettiva, quindi, il diritto vivente formatosi con riferimento ai presupposti di attribuzione dell’assegno divorzile era apparso irragionevole in quanto capace di condurre “ad esiti palesemente irrazionali” ed “incompatibili con la stessaratio legis” della disciplina delle conseguenze economiche del divorzio.
L’interpretazione dell’art. 5, comma 6 della legge n. 898/1970 prevalsa nel diritto vivente – attribuendo al coniuge economicamente debole la garanzia di mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio – avrebbe travalicato, ad avviso del giudice remittente, la funzione assistenziale che dovrebbe essere propria dell’assegno divorzile. In definitiva, proseguiva l’ordinanza, individuare il presupposto dell’assegno post-coniugale nello sbilanciamento delle situazioni patrimoniali degli ex coniugi e poi quantificarlo nella cifra congrua a «mantenere il tenore di vita coniugale», non costituirebbe “un «arricchimento» della funzione assistenziale indicata dalla legge, ma una sua alterazione, che travalica il dato normativo e la stessa intenzione del legislatore”.
Ulteriori profili di contrasto con il principio di ragionevolezza venivano individuati anche laddove si sottolineava che “a differenza del dovere di mantenimento verso i figli, che cessa al raggiungimento della loro autosufficienza economica, l’obbligo di mantenimento del coniuge divorziato, nella lettura giurisprudenziale di cui qui si tratta, non viene meno neppure in caso di raggiunta autosufficienza del coniuge”.
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In ultima analisi, l’esigenza di garantire che successivamente alla cessazione del matrimonio fosse adeguatamente garantita la posizione economica del coniuge, pur trovando il suo fondamento costituzionale nell’art. 2 Cost., sembrava attuata secondo il diritto vivente formatosi con riferimento all’art. 5, comma, 6, l. div., attraverso uno “strumento eccessivo rispetto a quanto necessario” a realizzare un equilibrato contemperamento dei contrapposti interessi in gioco.
I profili di irragionevolezza insiti nell’attuale diritto vivente venivano ulteriormente testimoniati anche nella prospettiva del raffronto con i principi emergenti in altri paesi dell’Unione Europea. La motivazione dell’ordinanza di remissione, infatti, poneva in luce che la Commissione europea sul diritto di famiglia ha stabilito il principio secondo il quale «dopo il divorzio ciascun coniuge provvede ai propri bisogni» (principio 2.2)(3). Da questo principio, continuava la motivazione del Tribunale di Firenze “deriva che dopo il matrimonio, gli unici legami a rimanere in vita sono quelli che riguardano i figli”; in ogni caso, qualora siano effettivamente mantenuti rapporti di tipo patrimoniale tra i coniugi, essi dovrebbero rivestire il carattere della temporaneità (principio 2.8).
Da ultimo l’irragionevolezza dell’attuale diritto vivente in materia di assegno divorzile veniva motivata sotto il profilo dei profondi mutamenti che hanno interessato l’istituto matrimoniale e che possono essere sintetizzati nella c.d. “privatizzazione della relazione di coppia”. Proprio sotto questo aspetto sembrava ravvisarsi, ad opinione del giudice remittente, un contrasto tra la previsione di un vincolo matrimoniale che può essere dissolto per iniziativa unilaterale di uno dei coniugi ed una disciplina delle conseguenze economiche che garantisca a tempo indeterminato il persistente godimento del tenore di vita coniugale alla parte economicamente debole, in omaggio ad una “concezione del matrimonio che appare oggi anacronistica” e che non tiene conto del dato che vede la donna pienamente protagonista della “vita economica e sociale della famiglia”.
Il profilo del cosiddetto “anacronismo legislativo” sembrava costituire – ad opinione del giudice remittente – un ulteriore e fondamentale ragione che faceva apparire necessaria “una revisione critica del dogma del tenore di vita”; dogma che, secondo l’ordinanza del Tribunale di Firenze, doveva ritenersi propria di “un’altra epoca” ed “un’altra gerarchia di valori non più adeguati alla contemporanea legalità costituzionale”.
La questione è stata ritenuta non fondata dalla Corte costituzionale sulla base dell’assunto secondo cui non è riscontrabile l’esistenza – presupposta dal rimettente – di un “diritto vivente” secondo cui l’assegno divorzile ex art. 5, comma 6 della legge n. 898 del 1970 «deve necessariamente garantire al coniuge economicamente più debole il medesimo tenore di vita goduto in costanza di matrimonio». In altri termini, il presupposto su cui l’ordinanza di remissione fondava la questione di legittimità costituzionale non trova ad avviso della Corte costituzionale alcun riscontro negli orientamenti consolidati della giurisprudenza, la quale, al contrario, ha costantemente affermato, anche di recente, che il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio non costituisce l’unico parametro di riferimento ai fini della statuizione sull’assegno divorzile. L’orientamento che si è consolidato in materia di assegno divorzile, pertanto, è quello secondo il quale il parametro del «tenore di vita goduto in costanza di matrimonio» assume rilievo al fine di determinare «in astratto […] il tetto massimo della misura dell’assegno» in modo tale da fare sì che esso possa risultare adeguato al fine di consentire alla parte economicamente debole il mantenimento del tenore di vita pregresso. Questo stesso parametro, nondimeno, deve essere bilanciato «in concreto», caso per caso, con tutti gli altri criteri indicati nello stesso art. 5 l. div. Così le condizioni dei coniugi, il loro reddito, il contributo personale ed economico dato da ciascuno di essi alla formazione del patrimonio comune, le ragioni della decisione «agiscono come fattori di moderazione e diminuzione della somma considerata in astratto» che, soprattutto alla luce della durata del matrimonio, possono «valere anche ad azzerarla»(4).
Seguendo un orientamento delineato venticinque anni or sono dalle Sezioni Unite(5), la giurisprudenza di legittimità ha costantemente affermato che l’assegno divorzile ha natura assistenziale e dovrebbe costituire per il coniuge economicamente debole un rimedio al deterioramento delle precedenti condizioni economiche in dipendenza del divorzio(6). Proprio all’attuazione di queste esigenze è funzionale l’idea di concepire un giudizio scomposto in una prima fase nella quale il giudice – dopo aver comparato la condizione economica del richiedente goduta nel momento precedente la cessazione della convivenza e quella determinatasi al momento della pronuncia di divorzio – individua quanto astrattamente necessario al fine di evitare a quest’ultimo un sensibile deterioramento del tenore di vita ed una seconda fase in cui il “tetto massimo” della misura dell’assegno determinato in astratto, viene poi sottoposto al vaglio degli altri criteri predisposti dall’art. 5, comma 6, l. div., al fine di quantificarne in concreto la misura(7). Come opportunamente ribadito dalla Corte costituzionale, la regola formatasi nel “diritto vivente” prevede che nella fase di accertamento del diritto all’assegno divorzile il giudice sia chiamato a verificare l’esistenza del diritto in astratto, “in relazione all’inadeguatezza dei mezzi o all’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, o che poteva legittimamente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matrimonio, fissate al momento del divorzio”(8). Le indicazioni su quale fosse il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio possono essere desunte “dalle potenzialità economiche dei coniugi, ossia dall’ammontare complessivo dei loro redditi e dalle disponibilità patrimoniali”(9). La SC ha ulteriormente precisato, anche di recente, che occorre tenere distinto lo stile di vita dal tenore di vita. Infatti anche qualora la coppia disponga di rilevanti potenzialità economiche è possibile che venga deciso di comune accordo tra i coniugi un ménage familiare improntato ad uno stile di “understatement” o di rigore; tale scelta, ad avviso della Cassazione, non può privare di rilievo le potenzialità che scaturiscono da una condizione economica agiata, che comunque deve essere considerata allorché si tratta di decidere riguardo alla spettanza ed alla misura dell’assegno divorzile(10). Pertanto l’adeguatezza dei redditi del coniuge che richiede l’assegno divorzile dovrà essere valutata in funzione del tenore di vita che le potenzialità economiche della coppia avrebbero consentito e non del più modesto tenore di vita effettivamente goduto durante il matrimonio(11).
Ciò consente, da una parte, di garantire al coniuge economicamente debole il mantenimento del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio ove si riscontrino perduranti esigenze di compensare una prolungata dedizione alla cura della famiglia dalla quale sia scaturita una irreversibile perdita della capacità di reddito e, al tempo stesso, di ridurre o escludere il diritto al mantenimento ove la breve durata del matrimonio e l’assenza di figli comuni impongano di valorizzare il principio dell’autoresponsabilità.
2. I profili di criticità e l’esigenza di limitare la tutela del coniuge economicamente debole nei matrimoni di breve durata
Si è da più parti messo in luce che il modello di assegno post-matrimoniale delineato dal legislatore ed i cui lineamenti sono stati ulteriormente definiti dagli orientamenti consolidati della giurisprudenza di legittimità può risultare sotto diversi profili scarsamente funzionale a realizzare un’equilibrata ripartizione delle risorse della famiglia dopo la rottura del matrimonio. Da un lato si è osservato che la scelta di porre in risalto la funzione assistenziale, valorizzando il profilo dell’incapacità del richiedente di procurarsi mezzi adeguati e relegando ad un ruolo marginale gli altri criteri, compromette l’idoneità dell’assegno post-matrimoniale ad attuare una effettiva compensazione del coniuge che ha dedicato un considerevole periodo di tempo alla cura della famiglia(12). Sotto questo profilo, quindi, arricchire la funzione assistenziale mediante il riferimento al tenore di vita coniugale inteso nel senso più ampio può apparire opportuno al fine di garantire al coniuge economicamente debole una tutela adeguata. Per altri aspetti, tuttavia, l’intera disciplina dei rapporti patrimoniali tra ex coniugi divorziati è stata vista come “un complesso normativo che evidenzia la dilatazione dell’ultrattività, sul piano dei rapporti patrimoniali, del matrimonio sciolto per divorzio”(13) e, nel complesso, appresta una tutela che con specifico riferimento ai matrimoni di breve durata può risultare ingiustificatamente estesa. In quest’ottica si è anche affermato che l’orientamento secondo cui l’adeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente andrebbe commisurata al tenore di vita matrimoniale appare difficilmente sostenibile “perché denunzia una ultrattività del matrimonio, ormai sciolto, in contrasto con qualsivoglia logica, vuoi perché snatura il dato normativo riformato, diretto a prestare aiuto all’ex coniuge bisognoso, non già a consentirgli lo stesso tenore di vita goduto durante la vita matrimoniale”(14). Il riferimento al parametro del tenore di vita matrimoniale, quantomeno riguardo a queste fattispecie, non sarebbe funzionale a promuovere la pari dignità sociale dei coniugi e potrebbe costituire addirittura un ostacolo al raggiungimento dell’indipendenza economica da parte del coniuge debole(15); esso potrebbe rappresentare una “rendita post-coniugale, direttamente proporzionata al livello economico matrimoniale”(16), o, in altre parole, “una sorta di assicurazione, tendenzialmente vitalizia, al godimento di uno standard di vita economico esteso al tempo successivo al rapporto matrimoniale”(17).
Le esigenze appena illustrate, in effetti, sono emerse da tempo in altri ordinamenti europei nei quali la valorizzazione del principio dell’autoresponsabilità ha condotto a limitare significativamente l’assistenza fornita al coniuge economicamente debole al termine di matrimoni di breve durata, soprattutto qualora non siano presenti figli non autosufficienti(18).
In conclusione, la disciplina dell’assegno post-matrimoniale, così come attualmente interpretata nel “diritto vivente”, può apparire da una parte insoddisfacente in quanto l’affermazione della natura assistenziale sembra costituire un limite alla capacità di compensare il coniuge che ha dedicato molti anni della propria vita al matrimonio(19); d’altra parte il riferimento al tenore di vita coniugale può condurre al rischio di attribuire una tutela eccessiva a favore di chi, dopo un matrimonio relativamente breve, si trovi a beneficiare di una rendita tendenzialmente vitalizia. Indubbiamente sotto questo profilo riveste interesse l’idea, particolarmente sviluppata nei sistemi di common law, di concepire un trattamento nettamente differenziato delle conseguenze patrimoniali del divorzio valorizzando l’elemento della durata del matrimonio.
L’esigenza di perseguire questo obiettivo sembra essere sottolineata dalla Corte costituzionale laddove la motivazione ribadisce la fondamentale importanza assunta dai criteri indicati dall’art. 5, comma 6, l. div., che dovrebbero assumere la funzione di fattori di moderazione di quel tetto massimo dell’assegno divorzile individuato in astratto in funzione del parametro del tenore di vita coniugale.
3. L’assegno post-matrimoniale come unico strumento di attuazione del principio di parità tra i coniugi al momento della dissoluzione del matrimonio
La decisione della Corte costituzionale che ha dichiarato infondata la questione di legittimità conferma le perplessità che erano emerse con riferimento ad alcune delle motivazioni addotte nell’ordinanza di remissione. In particolare non sembrava da condividere l’assunto secondo cui la c.d. “privatizzazione della relazione di coppia” e la previsione di un vincolo matrimoniale che può essere dissolto per iniziativa unilaterale di uno dei coniugi risulta incompatibile con una disciplina delle conseguenze economiche che garantisca a tempo indeterminato il persistente godimento del tenore di vita coniugale alla parte economicamente debole(20); assunto che veniva ulteriormente motivato sottolineando il superamento di una “concezione del matrimonio che appare oggi anacronistica” e che non tiene conto del dato che vede la donna pienamente protagonista della “vita economica e sociale della famiglia”. In realtà l’osservazione comparatistica rivolta verso gli ordinamenti di common law testimonia che, al contrario, l’abdicazione da parte dello Stato del ruolo di gatekeeper of access to divorce abbia fatto da contrappeso l’assunzione di quello di guardian of the economic interest of divorcing spouses and their children(21); in altri termini, proprio l’indebolimento del vincolo matrimoniale ha posto in particolare evidenza l’esigenza di garantire che ciascuno dei coniugi lasci il matrimonio “on terms of financial equality”(22). Non a caso negli Stati Uniti e in Inghilterra l’introduzione dell’Equitable Distribution System – ossia della regola della divisione tendenzialmente paritaria delle risorse della famiglia al momento della rottura del matrimonio – ha coinciso con il passaggio dal divorzio basato sulla colpa al c.d. no fault divorce(23).
Anche l’assunto secondo il quale il riferimento al tenore di vita coniugale come criterio per decidere riguardo alla spettanza ed alla attribuzione dell’assegno divorzile appare inadeguato in quanto non tiene conto del dato che vede la donna pienamente protagonista della “vita economica e sociale della famiglia” appare, invero, contraddetto dagli studi statistici e sociologici. Le ricerche condotte anche in altri ordinamenti(24), infatti, dimostrano che nelle società in cui la parità tra uomo e donna può dirsi raggiunta in una prospettiva individuale il problema della uguaglianza tra i coniugi è tuttora irrisolto(25). Così, in particolare, la nascita dei figli incide negativamente sui tassi di occupazione delle madri e positivamente su quelli dei padri(26), si riscontra un chiaro rapporto di proporzionalità inversa tra il numero di figli e il tasso di occupazione femminile(27) ed anche la scelta di optare per un lavoro part-time risulta decisamente più accentuata per le madri(28). L’accesso delle donne al mondo del lavoro, quindi, non determina il superamento delle asimmetrie all’interno della coppia, né pone in secondo piano le esigenze di tutela del coniuge debole; al contrario, il problema di conciliare le esigenze di lavoro con quelle della cura della famiglia(29) diviene un tema tanto più importante e sentito quanto maggiore è la partecipazione femminile al mondo del lavoro e la diffusione delle c.d. “dual-income couples”. Dunque, in altre parole, si può ribadire che proprio nei Paesi in cui è più risalente e sviluppata la presenza delle donne nel mondo del lavoro, il tema della gender justice ha cominciato a porsi con specifico riguardo al problema della allocazione dei costi connessi alla cura della famiglia.
Queste osservazioni inducono a sottolineare la fondamentale importanza assunta dagli strumenti di riequilibrio delle posizioni economiche dei coniugi al momento della rottura del matrimonio e, per quanto concerne il nostro ordinamento, dell’assegno divorzile e dell’assegno di mantenimento. In quest’ottica occorre rimarcare che il nostro ordinamento da un lato enuncia il principio della eguaglianza tra i coniugi (art. 29 Cost.)(30), e, al tempo stesso, lascia “la stabilità della famiglia (…) nelle mani” di questi ultimi non ponendo regole per garantirla contro la loro volontà(31); appare fondamentale, pertanto, assicurare un’equa divisione delle risorse proprio al momento della rottura del matrimonio ed evitare che, in una fase della vita familiare caratterizzata da una accentuata dispersione delle risorse patrimoniali e umane, le conseguenze negative derivanti da una divisione del lavoro concordemente adottata ricadano sul coniuge più debole, il quale, nella maggior parte dei casi si è prevalentemente dedicato all’attività casalinga(32).
Le basi più solide sulle quali fondare l’assunto secondo cui il principio di parità deve essere necessariamente garantito anche al momento della rottura del matrimonio risiedono nelle norme che mirano a garantirne l’attuazione nella fase fisiologica del rapporto. Dall’analisi di queste disposizioni emerge l’idea per cui il legislatore – consapevole del fatto che la divisione del lavoro nella famiglia si caratterizza per una ripartizione tendenzialmente asimmetrica e per una persistente distinzione dei ruoli – detta regole attuative del principio costituzionale della parità (art. 29 Cost.). Ciò traspare in modo evidente laddove – sancendo inderogabilmente il principio della equiparazione tra lavoro casalingo ed extradomestico – si stabilisce che “con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri”, “sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia” (art. 143 c.c.) e devono adempiere l’obbligo di mantenere i figli (artt. 147 e 315 bis c.c.) “in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo” (artt. 148 e 316 bis c.c.).
Considerazioni analoghe hanno accompagnato anche l’introduzione del regime legale della comunione, in cui la logica perequativa sottesa all’istituto viene presentata come un contrappeso rispetto ad una situazione di “evidente ingiustizia nei confronti della donna; il cui lavoro domestico si sostanzia in una dura, se pur non appariscente fatica”(33). Poiché la possibilità di optare per il diverso regime della separazione dei beni non compromette l’attuazione inderogabile del principio di parità, che viene assolta dal regime primario contributivo(34), si può dire che nella fase fisiologica del rapporto matrimoniale la divisione asimmetrica del lavoro all’interno della famiglia trovi un adeguato contrappeso. Proprio muovendo da questa constatazione, si deve affermare che anche nel momento in cui il matrimonio si rompe il principio della parità tra coniugi deve trovare applicazione e governare la divisione delle ricchezze. In altre parole è necessario che anche – e soprattutto – le norme che disciplinano gli effetti patrimoniali della crisi coniugale e dello scioglimento del matrimonio costituiscano un efficace contrappeso rispetto alle conseguenze negative che si ricollegano ad una divisione asimmetrica del lavoro domestico nella famiglia e che proprio nel momento della rottura del matrimonio possono manifestarsi in tutta la loro gravità. Se così non fosse l’attuazione del principio costituzionale dell’eguaglianza tra i coniugi risulterebbe gravemente compromessa e si darebbe vita ad una situazione quasi paradossale in quanto gli strumenti che dovrebbero controbilanciare una divisione asimmetrica dei pesi della famiglia assisterebbero il coniuge debole in un momento (la fase fisiologica) nel quale normalmente la comunione di vita rende l’esigenza di tutela superflua, per poi abbandonarlo proprio quando gli effetti negativi connessi alla prolungata dedizione alla cura della famiglia si possono manifestare – e generalmente si manifestano – con maggiore asprezza.
L’insieme di queste considerazioni induce a sottolineare che l’assegno di divorzile (e l’assegno di mantenimento) debbano essere osservati come un vero e proprio architrave sul quale si deve reggere un sistema che miri a realizzare quella equa condivisione delle risorse della famiglia funzionale all’attuazione del principio della parità tra coniugi. Dunque proprio la rilettura delle norme in tema di assegno di mantenimento e assegno di divorzio alla luce del principio costituzionale della parità tra i coniugi (art. 29 Cost.) e dell’esigenza di garantire adeguata tutela al singolo che abbia investito le proprie energie e sacrificato le proprie aspirazioni professionali per la cura della famiglia (art. 2 Cost.)(35) dovrebbe costituire una prospettiva ineludibile in funzione della quale ricostruire un’efficace tutela della parte debole(36).
Le osservazioni appena svolte inducono a concludere che – quantomeno con riferimento ai matrimoni di lunga durata ed a quelli nei quali siano presenti figli non autosufficienti – è possibile affermare la persistente ragionevolezza dell’orientamento formatosi nel diritto vivente secondo cui l’adeguatezza dei mezzi del coniuge che richiede l’assegno divorzile deve essere commisurata al tenore di vita che le potenzialità economiche della famiglia hanno consentito di godere in costanza di matrimonio ed avrebbero consentito di continuare a godere nel caso in cui questo fosse proseguito. Del resto un’ulteriore conferma in questo senso si rinviene anche nella recente decisione delle Sezioni Unite in materia di delibazione delle pronunce ecclesiastiche di invalidità del matrimonio concordatario(37). Pronuncia con la quale la S.C. ha definitivamente colmato una grave lacuna di tutela della parte economicamente debole proprio sottolineando che la protezione dell’affidamento riposto sul matrimonio e sulle tutele economiche espressione del fondamentale principio della solidarietà post-coniugale(38) costituisce un principio di ordine pubblico dal quale deriva un ostacolo insuperabile alla delibazione di pronunce ecclesiastiche di invalidità matrimoniale riferite a rapporti cementati da un periodo ultratriennale di convivenza come coniugi(39).
Occorre considerare, d’altra parte, anche una diversa prospettiva che impone di rivisitare criticamente il riferimento al tenore di vita coniugale costantemente operato dalla giurisprudenza e che assume una significativa rilevanza soprattutto con riferimento ai matrimoni di breve durata nei quali non siano presenti figli.
4. Il riferimento al tenore di vita coniugale. I profili di inadeguatezza nella prospettiva delle famiglie che si sovrappongono nel tempo
Un primo elemento di criticità insito nell’adozione del tenore di vita coniugale come criterio in funzione del quale decidere riguardo alla spettanza ed all’ammontare del contributo dovuto per il mantenimento del coniuge e dei figli era stato messo efficacemente a fuoco da un’interessante decisione di merito nella quale il giudice aveva fatto ricorso ad un metodo di calcolo basato sui principi dell’econometria che avrebbe dovuto consentire di individuare con obiettività quanto necessario al mantenimento del coniuge economicamente debole e dei figli. Proprio la prospettiva scientifica consentì di precisare che la misura dell’assegno di mantenimento da corrispondere al coniuge economicamente debole “deve essere determinata in modo da consentire che ai nuovi nuclei familiari che si formano in capo a ciascun coniuge sia possibile mantenere un tenore di vita equivalente a quello goduto in costanza di matrimonio, se compatibile con il reddito attuale complessivamente disponibile”; diversamente, ove ciò non fosse realizzabile, l’obiettivo da perseguire dovrebbe essere quello di individuare l’entità del mantenimento in modo da “garantire ai due nuovi nuclei un tenore di vita analogo tra loro”(40).
L’esigenza di commisurare la spettanza e l’entità del mantenimento dovuto alla parte economicamente debole abbandonando il riferimento al tenore di vita goduto nel momento in cui la famiglia era unita e perseguendo il diverso obiettivo di garantire ai nuovi nuclei familiari che si formano a seguito della separazione un tenore di vita simile tra loro si è manifestata con evidenza nelle fattispecie in cui, successivamente alla rottura del matrimonio, il coniuge economicamente forte dia vita ad una seconda famiglia. In tal caso può porsi il problema di un’equilibrata ripartizione delle risorse tra l’ex coniuge beneficiario dell’assegno divorzile (soprattutto se reduce da un matrimonio di breve durata) e la seconda famiglia che l’exconiuge obbligato al pagamento dell’assegno divorzile abbia ricostituito successivamente al divorzio(41). Un precedente ormai datato aveva adottato una soluzione, invero criticabile, che si basava sull’assunto secondo cui la decisione di formare una seconda famiglia costituisce una scelta e non una necessità. Muovendo da questo presupposto, la S.C. aveva concluso che il diritto dei componenti della prima famiglia di mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio non potesse subire limitazioni a seguito della decisione del familiare economicamente forte di dare vita ad una nuova famiglia(42). Questo orientamento, a ben vedere, risultava difficilmente conciliabile con i principi fondamentali dell’ordinamento in quanto la sua applicazione avrebbe condotto a privilegiare ingiustificatamente i componenti del nucleo familiare originario a scapito dei componenti del nuovo nucleo familiare formato successivamente al divorzio. Così, seguendo un orientamento diverso e sicuramente condivisibile, la S.C. ha preso atto del dato per cui la presenza di una nuova famiglia costituita dall’ex coniuge tenuto al pagamento dell’assegno divorzile ex art. 5 l. div. comporta una variazione degli assetti pregressi di cui non può non tenersi conto. In questi casi, pertanto, si impone un “temperamento dei diritti della prima famiglia” necessario ad “evitare un trattamento deteriore della seconda”. Dunque il secondo matrimonio e, più in generale, la nascita di figli dell’obbligato rendono in linea di principio necessaria una rinnovata valutazione comparativa della situazione delle parti da cui può scaturire una rideterminazione dell’assegno dovuto all’ex coniuge(43).
Queste considerazioni, del resto, trovano una conferma assai significativa in una decisione di legittimità(44) nella quale, per la prima volta, è stato chiarito che la costituzione di una nuova famiglia successivamente alla disgregazione del primo gruppo familiare costituisce un diritto ricompreso tra quelli riconosciuti dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo del 1950 (art. 12)(45) e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (art. 9)(46). Il diritto dell’individuo a formarsi una famiglia, precisa la Cassazione, non può incontrare un limite, né essere considerato alla stregua di una mera scelta individuale non necessaria nemmeno laddove sia già presente un primo nucleo familiare la cui unità sia venuta meno a seguito del divorzio. Questa impostazione, invero, testimonia ulteriormente l’inopportunità di commisurare l’assegno divorzile al tenore di vita goduto durante il matrimonio e la necessità di adottare una prospettiva diversa: quella di garantire un tenore di vita equivalente a tutti coloro che dipendono da un medesimo soggetto economicamente forte.
Indubbiamente il problema può porsi in termini assai particolari nell’ipotesi in cui l’esigenza di attuare un’equilibrata divisione delle risorse della parte economicamente forte veda interessato da un lato l’ex coniuge ancora giovane, reduce da un matrimonio di breve durata e senza figli e, dall’altro, il secondo coniuge ed i figli nati nel secondo matrimonio o nell’ambito di una relazione non matrimoniale. In una fattispecie come questa emerge chiaramente l’inadeguatezza dell’impostazione che mira a garantire all’ex coniuge economicamente debole un assegno divorzile idoneo a permettergli di conservare “un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio e che sarebbe presumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso, ovvero che poteva ragionevolmente prefigurarsi sulla base di aspettative esistenti nel corso del rapporto matrimoniale”(47). Infatti, applicando senza opportuni correttivi ai matrimoni di breve durata i criteri adottati dalla SC con riferimento al mantenimento dell’ex coniuge economicamente debole si potrebbe giungere in alcuni casi a soluzioni applicative non convincenti. Garantire il tenore di vita coniugale all’ex coniuge incapace di reperire autonomamente mezzi adeguati, infatti, significherebbe esporre l’ex coniuge obbligato ad una “distrazione” ingiustificata delle proprie risorse a scapito della nuova famiglia che egli abbia formato successivamente al divorzio(48); distrazione che appare tanto più inopportuna quanto più è breve la durata del rapporto matrimoniale e quanto più siano presenti condizioni che rendono verosimile il conseguimento dell’indipendenza economica da parte del coniuge economicamente debole.
Proprio questa particolare prospettiva sembra confermare alcune delle argomentazioni poste alla base dell’ordinanza di remissione e l’opportunità di ricercare in via interpretativa soluzioni che consentano di limitare le perduranti posizioni di interdipendenza tra i coniugi con riferimento a matrimoni di breve durata e nei quali non siano presenti figli. In queste fattispecie, infatti, risulterebbe opportuno valorizzare il principio dell’autoresponsabilità ed attuare la funzione assistenziale dell’assegno divorzile in ragione di un ottica “riabilitativa”; occorrerebbe, in altri termini, che l’assegno svolgesse solamente la funzione di consentire per un tempo determinato il superamento della incapacità di procurarsi redditi propri. Del resto, come aveva osservato la stessa ordinanza di remissione, in molti paesi dell’Unione Europea si sta affermando il cosiddetto principio della autoresponsabilità, che conduce a prevedere una tutela assistenziale-riabilitativa e tendenzialmente limitata nel tempo per il coniuge reduce da un matrimonio di breve durata, ancora in giovane età e non gravato dall’impegno richiesto per l’accudimento dei figli(49). Tale obbiettivo a ben vedere potrebbe essere conseguito proprio valorizzando quei criteri enunciati all’art. 5, comma 6, l. div. che la stessa decisione della Corte costituzionale indica quali fattori di moderazione del tetto massimo dell’assegno divorzile individuato sulla base del riferimento a tenore di vita coniugale.
5. Il riferimento al tenore di vita coniugale e le esigenze di “revisione”
Le profonde modificazioni sociali e normative che l’ordinanza di remissione poneva a fondamento della “necessaria revisione critica del dogma del ” come punto di riferimento in funzione del quale valutare l’adeguatezza dei mezzi della parte che richiede l’assegno divorzile appaiono meritevoli di attenta considerazione. In effetti l’attuale contesto sociale e normativo risulta sensibilmente differenziato rispetto a quello nel quale si era formato questo consolidato indirizzo giurisprudenziale. In tale prospettiva occorre tenere in considerazione, anzitutto, i dati demografici e statistici dai quali emerge che in un significativo numero di casi gli ex coniugi reduci dal divorzio tendono a riformare nuovi nuclei familiari(50). Questa eventualità – indubbiamente meno frequente e quindi meno avvertita dagli interpreti all’inizio degli anni Novanta – genera in molti casi una trama di rapporti che mal si concilia con la finalità di assicurare al nucleo familiare originario la persistenza di un livello di benessere coincidente con il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio per tutto il tempo successivo al divorzio.
Oltre alle considerazioni basate su dati statistici e demografici, occorre rilevare che anche il sistema delle norme che governano i rapporti familiari è stato segnato da rilevanti modificazioni e risulta oggi sensibilmente mutato rispetto a quello nel quale il “diritto vivente” in materia di assegno divorzile si è formato all’inizio degli anni Novanta. Anzitutto occorre considerare che a seguito dell’introduzione della l. n. 54/2006 è stato sancito il diritto del figlio minore “di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo” con ciascuno dei genitori anche in caso di separazione personale o di divorzio di essi, nonché il diritto “di ricevere cura, educazione e istruzione da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale” (art. 155 c.c. introdotto dalla l. n. 54/2006 e collocato oggi nell’art. 337 ter, comma 1, c.c.).
L’esigenza di compensare la fragilità e l’instabilità che caratterizzano le unioni dei genitori attribuendo rilievo a nuove forme di responsabilità e coinvolgimento in capo a questi ultimi e nuovi legami di parentela all’interno del nucleo familiare inteso in senso “esteso”(51) è stata ulteriormente assecondata dalla riforma introdotta dalla l. n. 219/2012 e dal d.lgs. n. 154/2013. Con questa riforma il legislatore ha definitivamente sancito la condizione unica dei figli, rendendo irrilevante il fatto che i genitori siano coniugati, siano legati da un’unione di fatto o non abbiano mai formato una coppia unita. In virtù di una modificazione legislativa epocale, oggi il figlio è inserito nei rapporti di parentela di entrambi i genitori a prescindere dal matrimonio di questi ultimi (artt. 74 e 258 c.c.)(52); genitori che sono chiamati di regola ad esercitare congiuntamente la responsabilità genitoriale a prescindere dal tipo di unione che li lega e dalla sua sorte(53). In questo nuovo scenario il significato giuridico del matrimonio perde ogni importanza per quanto concerne il rapporto genitori-figlio e finisce per concentrarsi nell’ambito del rapporto di coppia. La previsione di significative forme di tutela per la parte economicamente debole successivamente alla rottura del matrimonio continua, quindi, a costituire un elemento imprescindibile particolarmente qualificante che consente di distinguere nettamente la valenza del matrimonio rispetto a quella delle unioni non coniugali(54). Sotto questo profilo l’esigenza di assicurare un’adeguata tutela al coniuge che abbia investito molti anni nella cura della famiglia appare ancora attuale. Pertanto il diritto vivente che arricchisce la funzione assistenziale dell’assegno divorzile con il riferimento al tenore di vita coniugale inteso nel senso più pieno sembra tuttora rispondente al canone della ragionevolezza.
D’altra parte anche l’esigenza che la tutela riconosciuta all’ex coniuge divorziato non comprometta altri diritti fondamentali appare oggi ancor più avvertita rispetto al passato: infatti riconoscere all’ex coniuge economicamente debole un incondizionato diritto al mantenimento del tenore di vita coniugale potrebbe condurre a gravare eccessivamente la posizione dell’ex coniuge obbligato, limitando la possibilità che quest’ultimo disponga di risorse adeguate per il mantenimento del nucleo familiare che egli intenda formare successivamente alla rottura del primo. La meritevolezza di tutela del “diritto” a formare una (nuova) famiglia può essere osservata come un dato “nuovo”, che trova spazio nel nostro ordinamento anche in considerazione dell’importanza assunta dalle fonti sovranazionali(55). Sotto questo profilo appare opportuno richiamare nuovamente l’attenzione sulla recente decisione di legittimità, già citata, con la quale è stato precisato che la costituzione di una nuova famiglia successivamente alla disgregazione del primo gruppo familiare costituisce un diritto ricompreso tra quelli riconosciuti dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo del 1950 (art. 12) e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (art. 9). E poiché il diritto dell’individuo a formarsi una famiglia, non può incontrare un limite nemmeno laddove sia presente un primo nucleo familiare la cui unità sia venuta meno a seguito del divorzio, si deve concludere che i diritti dei componenti della seconda famiglia (sia essa fondata sul matrimonio o sulla convivenza) non possono essere compressi per garantire il persistente godimento del tenore di vita coniugale ai componenti del primo nucleo familiare.
In definitiva, nell’attuale contesto normativo l’esigenza di garantire all’ex coniuge la conservazione di un tenore di vita tendenzialmente analogo a quello goduto in costanza di matrimonio da un lato continua a rivestire un’importanza fondamentale, ma, dall’altro, deve essere contemperato anche con altri diritti fondamentali che l’ordinamento aspira garantire. Sotto il primo profilo conservano la loro validità le osservazioni secondo cui l’assegno divorzile costituisce l’unico strumento che il nostro ordinamento appresta al fine di attuare un riequilibrio economico tra le posizioni dei coniugi al termine del matrimonio; esso quindi è e resta l’architrave di un sistema che enuncia il principio della eguaglianza tra i coniugi (art. 29 Cost.) ed aspira a garantirne l’effettività nel momento in cui il matrimonio termina(56). D’altra parte, in un ordinamento che mira a tutelare il principio della parità tra i coniugi, che riconosce il diritto a porre fine all’unione matrimoniale(57) e quello a formare una famiglia (eventualmente anche dopo la rottura di una primo matrimonio) appare necessario che la tutela del coniuge economicamente debole risulti efficace, ma non incondizionata. In altri termini, è necessario evitare che essa finisca per comprimere irragionevolmente altri diritti fondamentali che l’ordinamento tutela e, segnatamente, i diritti dei componenti della famiglia formata successivamente alla rottura del matrimonio. Diversamente risulterebbe violato il parametro costituzionale della ragionevolezza e, come paventava la stessa ordinanza di rinvio del Tribunale di Firenze, si attuerebbe un bilanciamento tra valori non appropriato, che potrebbe condurre “ad esiti palesemente irrazionali in quanto incompatibili con la stessa ratio legis”(58) della disciplina delle conseguenze economiche del divorzio e, più in generale, delle norme che governano la distribuzione delle risorse economiche all’interno della famiglia da intendere oggi nella sua accezione più estesa.
Indubbiamente, una volta adottata questa particolare visuale, appare necessario valorizzare massimamente gli strumenti che il legislatore già fornisce al fine di conseguire una razionale distribuzione di risorse che, nella maggior parte dei casi, risultano limitate(59). Sotto questo profilo appare imprescindibile l’esigenza di attribuire rilievo al principio della autoresponsabilità. Il che dovrebbe condurre – anche sulla scorta di esperienze già maturate in altri ordinamenti europei – a differenziare sensibilmente la tutela assistenziale fornita al coniuge economicamente debole attribuendo il massimo rilievo ad aspetti quali la giovane età, l’assenza di carichi familiari derivanti dalla necessità di prendersi cura dei figli non ancora autosufficienti, infine la breve durata della relazione coniugale.
Questo obiettivo, in effetti, potrebbe essere conseguito attraverso una lettura interpretativa rigorosa delle norme e del “diritto vivente” attualmente esistenti. In particolare – come la stessa Corte costituzionale sottolinea – valorizzando opportunamente i criteri enunciati nell’art. 5, comma 6, l. div., sembra possibile declinare la funzione assistenziale dell’assegno divorzile secondo modalità differenziate in ragione delle specifiche esigenze di tutela del coniuge debole, evitando che un incondizionato perseguimento di quest’ultima possa risolversi nella ingiustificata compressione di altri diritti fondamentali.
6. Le differenti forme di attuazione della funzione assistenziale e l’imprescindibile esigenza di valorizzare i criteri di moderazione dell’assegno divorzile
Le considerazioni svolte sin qui, nel loro insieme, portano a concludere che il problema della tutela del coniuge economicamente debole debba essere affrontato secondo approcci nettamente differenziati in ragione della durata del matrimonio e dell’impegno profuso per la cura della famiglia. Il che dovrebbe condurre ad osservare la funzione assistenziale propria dell’assegno divorzile in tre differenti prospettive, che riflettono le peculiarità delle istanze da considerare di volta in volta(60).
Nei matrimoni di lunga durata è possibile che, pur essendosi esaurite o ridotte le incombenze legate allo svolgimento della vita familiare, si riscontri un’incapacità di procurarsi mezzi adeguati che uno dei coniugi ha progressivamente acquisito nel corso del matrimonio e che, con una formula estremamente incisiva, viene definita dai Principles of the Law of Family Dissolution statunitensi come una Residual Loss in Earning Capacity (section 5.05)(61). In questo genere di ipotesi l’assegno divorzile dovrebbe assolvere alla finalità di eliminare o quantomeno ridurre l’eventuale divario che venga a crearsi tra le condizioni patrimoniali degli ex coniugi, consentendo di realizzare un’equa condivisione delle capacità di reddito e di raggiungere una situazione di tendenziale riequilibrio. In un simile contesto sembra opportuno parlare di una funzione assistenziale-compensativa dell’assegno divorzile perché assumono rilievo il profilo del contributo “dato” alla conduzione della vita familiare e gli eventuali sacrifici sopportati nel corso di un matrimonio di lunga durata (art. 5, comma 6, l. div.)(62).
È frequente, inoltre, che la crisi intervenga dopo un matrimonio di durata relativamente breve, ma in un momento in cui i figli sono ancora in tenera età. In questi casi si riscontrano rilevanti esigenze di organizzazione della vita familiare nella fase della separazione e successivamente al divorzio. Proprio per tale ragione l’assegno post-matrimoniale dovrebbe assolvere qui alla funzione di consentire un’equa divisione dei costi che la cura della famiglia comporta anche dopo la rottura del matrimonio. Sarebbe appropriato, quindi, parlare di una funzione assistenziale-perequativa perché la finalità perseguita, in questo caso, è quella di valorizzare l’importanza dei compiti di cura assunti dal genitore “prevalente” dopo la rottura della consorzio coniugale.
Si riscontrano, infine, casi nei quali la coppia non ha figli e la rottura del matrimonio interviene dopo un breve periodo di tempo. In situazioni come queste non sono ravvisabili esigenze di compensare il coniuge per aver investito energie nella conduzione della vita familiare, né quella di ripartire equamente i pesi che la cura dei figli comporterà anche dopo la rottura del matrimonio. Coerentemente, la S.C. ha escluso che in fattispecie come queste sia configurabile un diritto del coniuge debole al mantenimento. Il diritto a beneficiare dell’assegno divorzile, quindi, non può trovare spazio qualora “il brevissimo periodo di convivenza” porti ad escludere che vi sia stato un contributo personale “alla conduzione familiare ed alla costituzione della comunione spirituale”(63).
In questa prospettiva, invero, appaiono decisamente criticabili pronunce di legittimità recenti nelle quali l’esigenza di garantire al coniuge economicamente debole il persistente godimento del tenore di vita matrimoniale ha condotto ad avallare decisioni di merito nelle quali la titolarità dell’assegno divorzile veniva riconosciuta ad un coniuge che, in ragione dell’età, della condizione professionale e della breve durata del matrimonio avrebbe verosimilmente potuto provvedere in modo autonomo alle proprie esigenze(64).
7. Il parametro del tenore di vita coniugale tra persistente attualità ed esigenze di coordinamento con il principio dell’autoresponsabilità
La dichiarazione di infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Firenze da una parte conferma la persistente ragionevolezza dell’attuale “diritto vivente” in materia di assegno divorzile, ma, al tempo stesso, non esclude l’opportunità di una attenta considerazione delle motivazioni addotte dal giudice remittente e di una complessiva esigenza di ripensamento della disciplina delle conseguenze economiche del divorzio. Come si è osservato, l’esigenza di garantire un effettivo riequilibrio delle disuguaglianze che di fatto caratterizzano la suddivisione dei ruoli all’interno della famiglia è particolarmente avvertita nei matrimoni di lunga durata ed in quelli nei quali la presenza di figli non autosufficienti richiede una prolungata dedizione alla cura della famiglia da parte del genitore “prevalente”. In questi casi la regola giurisprudenziale secondo la quale alla parte economicamente debole deve essere garantito un assegno divorzile funzionale al mantenimento del tenore di vita coniugale appare ragionevole. Infatti l’indebolimento del vincolo matrimoniale non fa venir meno l’esigenza di tutelare la parte economicamente debole al momento della rottura, ma al contrario la accentua. Inoltre le profonde modificazioni legislative che hanno reso unica la condizione dei figli hanno determinato, al tempo stesso, una “concentrazione” del significato giuridico del matrimonio sul rapporto di coppia; anche sotto questo profilo, quindi, le esigenze di tutela del coniuge economicamente debole risultano ancora attuali e in un certo senso più accentuate rispetto al passato.
D’altra parte le intervenute modificazioni sociali e normative che secondo l’ordinanza di remissione avrebbero reso necessaria una revisione del “dogma del tenore di vita matrimoniale” appaiono, per altri aspetti, meritevoli di considerazione. La loro portata può essere colta con particolare evidenza nella prospettiva delle famiglie che si sovrappongono nel tempo. In questo contesto l’obiettivo da perseguire sembrerebbe essere quello di un’equilibrata divisione delle risorse del soggetto economicamente forte tra i gruppi familiari che da lui dipendono economicamente. Poiché nella maggior parte dei casi le risorse a disposizione risultano limitate, garantire il persistente godimento del tenore di vita matrimoniale all’exconiuge potrebbe comportare una irragionevole distrazione di risorse nella prospettiva del nucleo familiare formato successivamente al divorzio. Ciò può risolversi in una compressione del diritto a formare una (nuova) famiglia; compressione che può apparire ingiustificata qualora sia determinata dall’esigenza di garantire il godimento del tenore di vita matrimoniale ad un ex coniuge che, in ragione della breve durata del matrimonio, dell’assenza di figli e della giovane età, sia in grado di recuperare la propria indipendenza economica. In termini generali appare, quindi, indubbiamente fondata l’esigenza di ricercare soluzioni interpretative che consentano di limitare le perduranti posizioni di interdipendenza tra i coniugi con riferimento a matrimoni di breve durata e nei quali non siano presenti figli. In queste fattispecie, infatti, risulterebbe opportuno valorizzare il principio dell’autoresponsabilità ed attuare la funzione assistenziale dell’assegno divorzile in ragione di un ottica “riabilitativa”; occorrerebbe, in altri termini, che l’assegno svolgesse solamente la funzione di consentire per un tempo determinato il superamento dell’incapacità del coniuge debole di procurarsi redditi propri.
A ben vedere, come la stessa Corte costituzionale pone in evidenza, una rigorosa applicazione dei criteri individuati dal legislatore nell’art. 5, comma 6, l. div. e ulteriormente circostanziati dalla costante giurisprudenza di legittimità appare pienamente funzionale al conseguimento di questo risultato. Valorizzando opportunamente il profilo della durata del matrimonio e degli altri criteri quali quelli relativi all’età dei coniugi ed alla loro condizione, infatti, è possibile limitare significativamente la tutela offerta al coniuge economicamente debole nel periodo successivo al divorzio e differenziare così la concreta attuazione della funzione assistenziale.
In conclusione il mancato accoglimento della questione di legittimità costituzionale appare pienamente condivisibile per due ordini di ragioni. Per quanto concerne i matrimoni di lunga durata o nei quali – nonostante la brevità del rapporto tra i coniugi – sia richiesto in prospettiva un significativo impegno per la cura dei figli, sembrano persistere esigenze di tutela del coniuge economicamente debole tali da rendere tuttora ragionevole l’orientamento secondo cui l’assegno divorzile deve mirare a garantire, ove possibile, il mantenimento del tenore di vita coniugale. Per quanto riguarda la tutela del coniuge economicamente debole nei matrimoni di breve durata nei quali non siano presenti figli, emerge l’irragionevolezza dell’obiettivo di garantire a quest’ultimo il persistente godimento del tenore di vita coniugale a tempo indeterminato; cionondimeno, si ravvisa la possibilità di individuare soluzioni interpretative adeguate e conformi al canone della ragionevolezza nell’ambito del contesto normativo vigente. Soluzioni, che, come la Corte costituzionale evidenzia, possono essere agevolmente conseguite attraverso una lettura interpretativa rigorosa che – valorizzando i criteri di moderazione indicati nell’art. 5 l. div. – consenta di limitare la persistenza di posizioni di dipendenza economica tra i coniugi nei matrimoni di breve durata e nei quali l’assenza di figli comuni non autosufficienti escluda la necessità del perduranti impegni di cura ed accudimento.
(1) Trib. Firenze 22 maggio 2013, n. 239, ord., in questa Rivista, 2014, 687, con nota di Al Mureden, Il parametro del tenore di vita coniugale nel “diritto vivente” in materia di assegno divorzile tra persistente validità, dubbi di legittimità costituzionale ed esigenze di revisione e di Morrone, Una questione di ragionevolezza: l’assegno divorzile e il criterio del “medesimo tenore di vita”, ivi, 704 ss.
(2) Sul principio di ragionevolezza delle leggi Morrone, Il custode della ragionevolezza, Milano, 2001, 275 ss.; Id., sub art. 3 Cost., in Codice della famiglia, a cura di Sesta, III ed., Milano, 2015, in part. 49.
(3) I Principles on European Family Law sono stati elaborati dalla Commission on European Family Law Family Law http://ceflonline.net/ con la finalità di individuare soluzioni tese al perseguimento della armonizzazione del diritto di famiglia nei diversi stati dell’Unione europea. sul punto v. Cubeddu, I contributi al diritto europeo della famiglia, in Patti e Cubeddu,Introduzione al diritto della famiglia in Europa, Milano, 2008, 16.
(4) Così Corte cost. 9 febbraio 2015, n. 11, in epigrafe.
(5) Cass., S.U., 29 novembre 1990, n. 11490, in Foro it., 1991, I, 1, 67, con note di Quadri, Assegno di divorzio: la mediazione delle sezioni unite e di Carbone, Urteildämmerung: una decisione crepuscolare (sull’assegno di divorzio).
(6) Totaro, Gli effetti del divorzio, in Tratt. dir. fam. diretto da Zatti, I, II, II ed., Milano, 2011, 1637, chiarisce che “si tratta di un indirizzo tanto consolidato da costituire diritto vivente”; sul punto v. anche Santosuosso, Il matrimonio. Libertà e responsabilità nelle relazioni familiari, Torino, 2011, 787.
(7) L’orientamento espresso da Cass., sez. un., 29 novembre 1990, n. 11490, cit., è stato ribadito in numerosissime pronunce, tra cui: Cass. 1 dicembre1993, n. 11860, in questa Rivista,1994, 15, con nota di Carbone, L’evoluzione giurisprudenziale in tema di assegno di divorzio; Cass. 16 giugno 2000, n. 8225, in Giur. it., 2001, I, 1, 462, con nota di Castagnaro, La Cassazione si ostina a far sopravvivere uno status economico connesso ad un rapporto definitivamente estinto e a non riconoscere il carattere alimentare dell’assegno; Cass. 17 gennaio2002, n. 432, in Nuova giur. civ. comm., 2003, I, 38, con nota di Al Mureden, In tema di adeguatezza dei redditi del coniuge divorziato; Cass. 27 settembre 2002, n. 14004, in questa Rivista, 2003, 14, con nota di De Marzo, Revisione dell’assegno divorzile e conservazione del tenore di vita matrimoniale; Cass. 28 gennaio 2004, n. 1487, in questa Rivista, 2004, 237, con nota di Liuzzi, Assegno di divorzio e incrementi reddituali; da ultimo Cass. 5 febbraio 2014, n. 2546, in Diritto & Giustizia online, 2014, con nota di Paganini; Cass. 5 marzo 2014, n. 5131, in DeJure.
(8) Così, ribadendo una formula che si riscontra con assoluta regolarità in decine di precedenti conformi, Cass. 5 febbraio 2014, n. 2546, cit. La decisione chiarisce poi che il giudice è chiamato a “procedere ad una determinazione quantitativa delle somme sufficienti a superare l’inadeguatezza di detti mezzi che costituiscono il tetto massimo della misura dell’assegno. La concreta determinazione dell’assegno deve avvenire in base alla valutazione ponderata e bilaterale dei criteri indicati nell’art. 5 della legge 898 del 1970”.
(9) Cass. 3 gennaio 2014, n. 488, in DeJure, in cui si ribadisce che “l’accertamento del diritto all’assegno divorzile va effettuato verificando l’inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente, raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio e che sarebbe presumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso o quale poteva legittimamente e ragionevolmente configurarsi sulla base di aspettative maturate nel corso del rapporto. Con riguardo alla quantificazione dell’assegno di divorzio, deve escludersi la necessità di una puntuale considerazione, da parte del giudice che dia adeguata giustificazione della propria decisione, di tutti, contemporaneamente, i parametri di riferimento indicati dall’art. 5 della legge 1 dicembre 1970, n. 898, come modificato dall’art. 10 della legge 6 marzo 1987, n. 74, per la determinazione dell’importo spettante all’exconiuge, anche in relazione alle deduzioni e alle richieste delle parti, salva restando la valutazione della loro influenza sulla misura dell’assegno”.
(10) Cass. 16 ottobre 2013, n. 23442, in DeJure.
(11) Tra le tante Cass. 4 novembre 2010, n. 22501, in Diritto & Giustizia, 2010; Cass. 24 marzo 2010, n. 7145, in Diritto & Giustizia, 2010.
(12) Il fatto che la valorizzazione del profilo della inadeguatezza dei mezzi del richiedente debba essere letta come una chiara volontà di sottolineare il passaggio da un assegno con natura composita ad uno con natura marcatamente assistenziale, nel quale le finalità compensativa e risarcitoria vengono relegate ad un piano secondario viene sottolineato, tra gli altri da Bonilini, L’assegno post-matrimoniale, in Bonilini e Tommaseo, Lo scioglimento del matrimonio, in Il Codice civile. Commentario fondato da Schlesinger, diretto da Busnelli, III ed., Milano, 2010, 585 ss.; Totaro, Gli effetti del divorzio, cit., 1631; Sesta, Diritto di famiglia, Padova, 2005, 353.
(13) Bonilini, L’assegno post-matrimoniale, cit., 595; nello stesso senso Barbiera, I diritti patrimoniali dei separati e dei divorziati, Bologna, 2001, 31 ss.
(14) Bonilini, L’assegno post-matrimoniale, cit., 595; in senso contrario Bianca, Diritto civile, 2.1, Milano, 2014, 294.
(15) Bonilini, L’assegno post-matrimoniale, cit., 595.
(16) L’espressione è di Bonilini, L’assegno post-matrimoniale, cit., 595.
(17) Bonilini, L’assegno post-matrimoniale, cit., 595.
(18) Sul punto v. Patti, I rapporti patrimoniali tra coniugi. Modelli europei a confronto, in Il nuovo diritto di famiglia, Trattato diretto da Ferrando, II, Bologna, 2008, 229; Id., Obbligo di mantenere e obbligo di lavorare, in Introduzione al diritto della famiglia in Europa, Milano, 2008, 309; Ferrando, Le conseguenze patrimoniali del divorzio tra autonomia e tutela, inDir. fam., 1998, 728; Cubeddu, Lo scioglimento del matrimonio e la riforma del mantenimento tra ex coniugi in Germania, in Familia, 2008, 22, la quale illustra la riforma del mantenimento operata nell’ordinamento tedesco il 1° gennaio 2008 ed il principio dell’autoresponsabilità; Ronfani, Recensione a Al Mureden, Nuove prospettive di tutela del coniuge debole. Funzione perequativa dell’assegno divorzile e famiglia destrutturata, Milano, 2007, in Sociologia del diritto, 2008, 193. Un’elevata sensibilità verso questi ultimi problemi si riscontra negli ordinamenti di common law: Blumberg, The Financial Incidents of Family Dissolution, in AA.VV., Cross currents, Family Law and Policy in the United States and England, edited by Katz, Eekelaar e Maclean, Oxford, 2000, 398; Katz, Family Law in America, New York, 2003, 87.
(19) Sesta, Diritto di famiglia, cit., 353.
(20) Cass. 9 ottobre 2007, n. 21099, in questa Rivista, 2008, 28, con nota di La Torre, Perdita dell’affectio coniugalis e diritto alla separazione, nella quale è stato enfaticamente evocato un “diritto costituzionalmente fondato di ottenere la separazione personale e interrompere la convivenza”, ove questa sia divenuta intollerabile.
(21) Sesta, Presentazione di Al Mureden, Nuove prospettive di tutela del coniuge debole. Funzione perequativa dell’assegno divorzile e famiglia destrutturata, Milano, 2007, VIII, osserva come “il fatto che il matrimonio non sia più indissolubile non può avere come conseguenza che l’ordinamento non appresti idonee garanzie a tutela di colui che in esso abbia investito le proprie risorse umane”. Questo principio, del resto, è chiaramente enunciato anche nella section 7.02 dei Principles of the Law of Family Dissolution elaborati dall’American Law Institute. Sempre in questo senso si rinvia alle articolate riflessioni di Renda, Il matrimonio civile. Una teoria neo-istituzionale, Milano, 2013, 268, il quale mette in luce che “il principio di eguaglianza dei coniugi si associa ad un vincolo che predetermina l’ordinamento intero della famiglia e che imprime alla relazione tra i coniugi il carattere della solidarietà, sottraendolo alla loro disponibilità”.
(22) Nella giurisprudenza inglese v., testualmente, Norris v. Norris, Family Division, 28 November 2002, (2002) EWHC 2996 (Fam), (2003) 2 FCR 245.
(23) Sul no-fault divorce si vedano Weitzman, The Divorce Revolution: The Unexpected Social and Economic Consequences for Women and Children in America, New York, 1985, in part. 15-51; Jacob, Silent Revolution: The Transformation of Divorce Law in the United States, Chicago, 1988; Katz, Family Law in America, New York, 2003, 82; per una illustrazione in lingua italiana Al Mureden, Conseguenze patrimoniali del divorzio e parità tra coniugi nelle leading decisions inglesi: verso una nuova valenza dell’istituto matrimoniale?, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2009, 212.
(24) Cfr. Thermaenius, Who’s washing the dishes now?, 2004, in http://epp.eurostat.cec.eu.int; v. anche l’indice di Gender equality in www:scb.se, nonché How Europeans spend their time. Everyday life of women and men, coordinator Winqvist, Luxembourg, 2004; Majer and Siermann, Income poverty in the European Union: Children, gender and poverty gaps, 2000; Aliaga, Gender gaps in the reconciliation between work and family, 2005; Franco and Winqvist, Women and man reconciling work and family life, 2002; Employment rates lower and part-time rates higher for women with children, issued by Bautier 2005, tutti in http://epp.eurostat.cec.eu.int.
(25) Marella, The Family Economy versus the Labour Market (or Hosework as a legal issue), in Labour Work and Family, edited by Conaghan and Rittch, 2005, 157 ss.; Weitzman,The Divorce Revolution: The Unexpected Social and Economic Consequences for Women and Children in America, cit., in part. 15-51. Per una ampia illustrazione delle questioni connesse al principio della eguaglianza tra uomo e donna nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e nel diritto interno v. Long, Il diritto italiano della famiglia alla prova delle fonti di origine sovranazionale, in Tratt. dir. fam. diretto da Zatti, I, I, II ed., Milano, 2011, 145. In argomento v. anche Andrini, La famiglia nella Costituzione europea, in Familia,2004, I, 551; Bergamini, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, in Codice della famiglia, a cura di Sesta, III ed., Milano, 2009, 128 ss.
(26) Aliaga, Gender gaps in the reconciliation between work and family, cit., sintetizza il fenomeno con la formula “the more children, the lower female employment rate” e – con più specifico riferimento ai tassi di occupazione in senso assoluto (75 % per gli uomini, 60 % per le donne) e a quelli relativi alla diffusione del lavoro part-time (86 % per gli uomini e 91% per le donne) – con la formula “Employment rates lower and part-time rates higher for women with children”.
(27) Aliaga, Gender gaps in the reconciliation between work and family, cit. Con specifico riferimento alla situazione italiana un recente studio dell’Istat (Come cambia la vita delle donne, Roma, 2004, 7 e 124) conferma che la difficoltà a conciliare lavoro e famiglia viene sopportata principalmente dalle donne. I tassi di occupazione delle donne single (86,5 %) e delle donne sposate ma senza figli (71,9 %) risultano infatti sensibilmente più elevati rispetto a quelli delle donne che vivono in coppia ed hanno figli (51,5 %). Anche all’interno della categoria delle donne con figli si riscontra una proporzionalità inversa tra numero dei figli e tassi di occupazione. È poi considerevole la percentuale di donne che risultano occupate al momento della gravidanza e, a seguito della nascita dei figli, non rientrano nel mondo del lavoro.
(28) Aliaga, Gender gaps in the reconciliation between work and family, cit., indica che questa scelta riguarda una donna su tre se ci sono figli e una donna su cinque in assenza di figli, mentre per gli uomini le percentuali di impiegati part-time con o senza figli sono sostanzialmente simili.
(29) Marella, The Family Economy versus the Labour Market (or Hosework as a legal issue), cit., 157 ss.
(30) Sul principio di uguaglianza tra coniugi Sesta, sub art. 29 Cost., in Codice della famiglia, a cura di Sesta, III ed., Milano, 2015, in part. 89; Caggia e Zoppini, sub art. 29 Cost., inCommentario alla Costituzione italiana, a cura di Bifulco, Celotto e Olivetti, Torino, 2006, 611.
(31) Questa prospettiva, già evidenziata da Donati, La famiglia come relazione sociale, Milano, 1989, 49, appare oggi ulteriormente confermata dai recenti interventi legislativi in materia di negoziazione assistita (d.l. 12 settembre 2014, n. 132, conv. in l. 10 novembre 2014, n. 162; sul punto Sesta, Negoziazione assistita e obblighi di mantenimento nella crisi della coppia, in questa Rivista, 2015, 297; Danovi, Il d.l. n. 132/2014: le novità in tema di separazione e divorzio, in questa Rivista, 2014, 952; Id., I nuovi modelli di separazione e divorzio: una intricata pluralità di protagonisti, in questa Rivista, 2014, 1141) e “divorzio breve” (Danovi, Al via il “divorzio breve”: tempi ridotti ma manca il coordinamento con la separazione, infra, 607 ss. e Oberto, «Divorzio breve», separazione legale e comunione legale tra coniugi, infra, 615 ss.).
(32) È indubbiamente significativo che di questa esigenza si trovi un chiaro riconoscimento nell’art. 5 del Protocollo addizionale n. 7 della Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nel quale si enuncia esplicitamente il principio secondo cui “i coniugi godono dell’uguaglianza dei diritti e delle responsabilità di natura civile tra essi e nei rapporti con i figli riguardo al matrimonio, durante il matrimonio e in caso di suo scioglimento”. In argomento v. Tosi, Parità tra i coniugi, in Commentario alla Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, Padova, 2001, 966 ss. Sul punto v. anche le osservazioni contenute nel commento ufficiale della sezione 5.05Compensation for Primary Caretaker’s Residual Loss in Earning Capacity dei Principles of the Law of Family Dissolution.
(33) Relazione al Progetto Iotti.
(34) Sesta, Diritto di famiglia, cit., 169; Id., Manuale di diritto di famiglia, VI ed., 2015, 86.
(35) Sull’articolo 2 Cost. Barbera, sub art. 2, in Commentario della Costituzione, a cura di Branca, Bologna-Roma, 1976, 55 ss.; Morrone, sub art. 2 Cost., in Codice della famiglia, a cura di Sesta, III ed., Milano, 2015, 6 ss.
(36) Bessone, Rapporti etico-sociali, in Commentario della Costituzione, a cura di Branca, Bologna-Roma, 1976, 75, sottolinea che l’art. 29 Cost., oltre a presentare “tutti gli attributi delle norme costituzionali con carattere di immediata percettività”, costituisce un punto di riferimento obbligato in funzione del quale operare la lettura di qualsiasi norma che si riferisce a rapporti familiari.
(37) Cass., sez. un., 17 luglio 2014, n. 16380, in Corr. giur., con nota di Carbone, Risolto il conflitto giurisprudenziale: tre anni di convivenza coniugale escludono l’efficacia della sentenza canonica di nullità del matrimonio; in Nuova giur. civ. comm., 4, II, 2015, 1036, con nota di Roma, Ordine pubblico, convivenza coniugale e pronunce ecclesiastiche di nullità del matrimonio: le Sezioni Unite suppliscono all’inerzia legislativa con una sostanziale modifica dell’ordinamento.
(38) La decisione delle Sezioni Unite accorda preferenza alla soluzione adottata da un’importante decisione di legittimità di tre anni precedente nella quale era stato espresso il principio secondo cui l’affidamento riposto dai coniugi sulla prolungata convivenza come matrimoniale costituisce un principio di ordine pubblico che preclude la delibazione di sentenze ecclesiastiche d’invalidità del vincolo (Cass. 20 gennaio 2011, n. 1343, in questa Rivista, 2011, 237, con nota di Carbone, Validità del matrimonio rapporto anche dopo la nullità religiosa del matrimonio atto; in Nuova giur. civ. comm., 4, II, 2011, 195 – 202, con nota di Quadri, Delibazione delle sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale e convivenza coniugale: le recenti prospettive della giurisprudenza). Peraltro questo orientamento era stato posto in discussione da pronunce di legittimità successive nelle quali era stato precisato che la prolungata convivenza dei coniugi poteva assumere carattere ostativo della delibazione delle pronunce ecclesiastiche di invalidità del matrimonio solo ove sorretta da una affectio familiae, mentre non avrebbe potuto rivestire efficacia preclusiva qualora si fosse risolta in una mera coabitazione (Cass. 8 febbraio 2012, n. 1780, in questa Rivista, 2012, 1000, con nota di Ippoliti Martini, I limiti alla delibazione delle sentenze di nullità del matrimonio concordatario: la cassazione distingue fra mera coabitazione e convivenza; Ead., Questioni attuali in tema di delibazione di sentenze ecclesiastiche di nullità del matrimonio concordatario, in Corr. giur., 2015, 114 ss.; Cass. 4 giugno 2012, n. 8926, in questa Rivista, 2012, 1040, con nota di Carbone, Ombre e luci nella giurisprudenza sui rapporti tra giurisdizione ecclesiastica e quella italiana in ordine alla rilevanza del matrimonio-rapporto).
(39) Sesta, Negoziazione assistita e obblighi di mantenimento nella coppia in crisi, in questa Rivista, 2015, 295, in part. 304, osserva che proprio laddove la decisione delle S.U. dispone la preclusione alla delibazione di sentenze ecclesiastiche di invalidità del matrimonio caratterizzato da una significativa convivenza come coniugi viene riaffermata la natura inderogabile dei doveri e dei diritti che derivano dal matrimonio, inclusi quelli che si manifestano nella solidarietà post-coniugale e che sono regolati dalle disposizioni in materia di assegno di mantenimento ed assegno divorzile.
(40) Trib. Firenze 3 ottobre 2007, in questa Rivista, 2008, 39, con nota di Al Mureden, Tenore di vita e assegni di mantenimento tra diritto ed econometria; considerazioni analoghe si rinvengono anche in Trib. Varese 4 gennaio 2012, in cui, con riferimento all’assegno di mantenimento, si chiarisce che la conservazione del tenore di vita coniugale costituisce un “obbiettivo solo tendenziale”, dovendosi tenere conto “degli effetti della disgregazione del nucleo domestico, vale a dire, innanzitutto, dell’ impoverimento dei partners”.
(41) Ronfani, Recensione a Al Mureden, Nuove prospettive di tutela del coniuge debole. Funzione perequativa dell’assegno divorzile e famiglia destrutturata, Milano, 2007, cit., 193. Al Mureden, Il “diritto a formare una seconda famiglia” tra doveri di solidarietà post-coniugale e principio di “autoresponsabilità”, in questa Rivista, 2014, 1043.
(42) Cass. 22 novembre 2000, n. 15065, in questa Rivista, 2001, 34, con nota di De Marzo, Mantenimento dei figli nati da precedente matrimonio e rilevanza della costituzione di una nuova famiglia.
(43) Cass. 23 agosto 2006, n. 18367, in De Jure; Cass. 24 gennaio 2008 n. 1595, in De Jure.
(44) Cass. 19 marzo 2014, n. 6289, in questa Rivista, 2015, 5, 470 ss., con nota di Buzzelli, Assegno di divorzio e nuova famiglia dell’obbligato: spunti per una rimeditazione del problema dell’attribuzione e della determinazione dell’assegno divorzile.
(45) Bonini Baraldi, Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, in Codice della famiglia, a cura di Sesta, II ed., Milano, 2009, 140.
(46) Bergamini, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, in Codice della famiglia, a cura di Sesta, III ed., Milano, 2015, 153 ss.
(47) Cass. 4 novembre 2010, n. 22501, cit.
(48) Ronfani, Recensione a Al Mureden, Nuove prospettive di tutela del coniuge debole. Funzione perequativa dell’assegno divorzile e famiglia destrutturata, Milano, 2007, cit., 194. In termini speculari occorre considerare anche la fattispecie nella quale il coniuge economicamente debole dia vita ad una nuova famiglia nell’ambito della quale benefici di un supporto economico da parte del nuovo partner. Al riguardo la S.C. ha costantemente affermato la sospensione dell’obbligo di mantenimento gravante sull’ex coniuge, di modo che l’assegno divorzile veniva a trovarsi in uno stato di quiescenza (Cass. 11 agosto 2011, n. 17195, in questa Rivista, 2012, 25, con nota di Figone, La convivenza more uxorio può escludere l’assegno divorzile); di recente la S.C. si è spinta sino ad affermare la estinzione definitiva ed irreversibile dell’obbligo di mantenimento gravante sull’ex coniuge divorziato. Sul punto v. Cass. 3 aprile 2015, n. 6855, con nota di Ferrando, “Famiglia di fatto” e assegno di divorzio. Il nuovo indirizzo della Corte di Cassazione, infra, 553 ss.
(49) Cubeddu, Solidarietà e autoresponsabilità nel diritto di famiglia, in Introduzione al diritto della famiglia in Europa, cit., 153, in part. 170; Ead, I principi europei su divorzio e il mantenimento tra ex coniugi, ivi, 271.
(50) Nello studio Separazioni e divorzi in Italia, anno 2012, pubblicato nel maggio 2013, reperibile all’indirizzo http://www.istat.it/it/archivio/126552, si legge che “i tassi di separazione e di divorzio totale sono in continua crescita. Nel 1995 per ogni 1.000 matrimoni si contavano 158 separazioni e 80 divorzi, nel 2011 si arriva a 311 separazioni e 174 divorzi”. Le indagini demografiche mettono a fuoco la presenza di un rilevante numero di separazioni e divorzi in cui sono coinvolti figli minori (48,7% e 33,1%) (Separazioni e divorzi in Italia, anno 2012, cit., 11). Un altro dato rilevante, che emerge solo in parte dalle statistiche dell’ISTAT, è quello che evidenzia la diffusione del fenomeno delle seconde nozze. Anche questo dato deve essere ulteriormente integrato tenendo conto di due fattori che le statistiche disponibili non possono prendere in considerazione, ma che, cionondimeno, riveste un particolare rilievo. In particolare occorre tenere presente il considerevole aumento di separazioni e divorzi tra coniugi “giovani” (18-24% età inferiore ai 40 anni); questo dato, infatti, segnala la presenza di persone che, verosimilmente, dopo la rottura del matrimonio vivranno altre esperienze familiari di convivenza o si accosteranno ad un secondo matrimonio. Occorre poi tenere conto della presenza di un considerevole numero di persone che dopo avere avuto figli fuori dal matrimonio, si apprestano a contrarre matrimonio e a vivere una “seconda esperienza familiare”.
(51) Sesta, L’unicità dello stato di filiazione e i nuovi assetti delle relazioni familiari, cit., 231; Id., Stato unico di filiazione e diritto ereditario, in Riv. dir. civ., 2014, 5; Id., sub art. 315, in Codice della famiglia, a cura di Sesta, III ed., Milano, 2015, in part. 1144; Prosperi, Unicità dello “status filiationis” e rilevanza della famiglia non fondata sul matrimonio, in Riv. crit. dir. priv., 2013, 273.
(52) Sesta, L’unicità dello stato di filiazione e i nuovi assetti delle relazioni familiari, in questa Rivista, 2013, 231.
(53) Al Mureden, La responsabilità genitoriale tra condizione unica del figlio e pluralità di modelli familiari, in questa Rivista, 2014, 466; Id., sub art. 316, in Codice della famiglia, a cura di Sesta, III ed., Milano, 2015, in part. 1168.
(54) Al Mureden, Conseguenze patrimoniali del divorzio e parità tra coniugi nelle leading decisions inglesi: verso una nuova valenza dell’istituto matrimoniale?, cit., 230; per una approfondita analisi comparatistica sul “significato giuridico del matrimonio” nei diversi paesi dell’Unione europea Waaldijk, More or Less Together: Levels of legal consequences of marriage, cohabitation and registered partnership for different-sex and same-sex partners, Paris, 2005.
(55) Sulle sentenze Corte cost. 24 ottobre 2007, nn. 348 e 349, v. Polacchini, I rapporti con l’ordinamento della CEDU, in Diritto costituzionale. Casebook, a cura di Mezzetti, Rimini, 2013, 47 ss.
(56) Renda, Il matrimonio civile. Una teoria neo-istituzionale, cit., 264-265, attraverso una lettura coordinata degli artt. 29 e 2 Cost., chiarisce che “i coniugi sono soggetti eguali tenuti a reciproca solidarietà” e che la solidarietà familiare assume un carattere ancor più specifico della solidarietà sociale. Essa infatti non si esplica tra estranei, ma tra soggetti compartecipi che “hanno instaurato una comunione integrale di vita”.
(57) Cass. 9 ottobre 2007, n. 21099, cit.
(58) Cosi si esprime Trib. Firenze 22 maggio 2013, n. 239, ord., in questa Rivista, 2014, 687, con nota di Al Mureden, Il parametro del tenore di vita coniugale nel “diritto vivente” in materia di assegno divorzile tra persistente validità, dubbi di legittimità costituzionale ed esigenze di revisione e di Morrone, Una questione di ragionevolezza: l’assegno divorzile e il criterio del “medesimo tenore di vita”.
(59) Cubeddu, Il divorzio, in Patti e Cubeddu, Diritto della famiglia, Milano, 2011, 628, osserva che in alcuni ordinamenti europei si è consolidata una regola in ragione della quale è istituita una “graduazione tra i soggetti aventi diritto a prestazioni contributive” a seguito della crisi della famiglia. In particolare, l’A. rileva che “uno specifico criterio è stato accolto dai principi di diritto europeo della famiglia sul divorzio e il mantenimento tra ex coniugi”. Il punto 2:7, infatti, contempla la fattispecie in cui il medesimo soggetto sia gravato dall’obbligo di mantenere persone appartenenti a nuclei familiari formati in tempi successivi. In questo caso la capacità del coniuge obbligato di soddisfare i bisogni dell’ex coniuge economicamente debole deve essere “graduata” anche tenendo in considerazione le eventuali esigenze di mantenimento che scaturiscano dalla formazione di una seconda famiglia e quindi degli obblighi assunti nei confronti del nuovo coniuge e, in via prioritaria, degli obblighi di mantenimento dei figli minori.
(60) Questa esigenza sembra emergere anche laddove si sottolinea (Quadri, Brevissima durata del matrimonio e assegno di divorzio, in Corr. giur., 2009, 474) l’opportunità di “rinunciare alla professione di fede nel principio della natura dell’assegno di divorzio, approfittando delle potenzialità interpretative dischiuse dall’art. 5, comma 6”.
(61) In questo senso rivestono notevole interesse le osservazioni contenute nel commento ufficiale della section 5.05 Compensation for Primary Caretaker’s Residual Loss in Earning Capacity dei Principles of the Law of Family Dissolution.
(62) In questo senso Rimini, La tutela del coniuge più debole fra logiche assistenziali ed esigenze compensative, in questa Rivista, 2008, 427.
(63) Cass. 29 ottobre 1996, n. 9439, in questa Rivista, 1996, con nota di Carbone, Matrimonio effimero: l’assegno non è dovuto e in Foro it., 1997, I, 1541, con nota di Quadri,Rilevanza della “durata del matrimonio” e persistenti tensioni in tema di assegno di divorzio; Cass. 16 giugno 2000, n. 8233, in questa Rivista, 2000, 505.
(64) In questo senso si veda, ad esempio, Cass. 4 febbraio 2009, n. 2721, in questa Rivista, 2009, 682, con nota di Al Mureden, L’assegno divorzile viene attribuito dopo un matrimonio durato una settimana. Configurabilità e limiti della funzione assistenziale riabilitativa, con la quale è stata confermata la decisione di merito che aveva riconosciuto il diritto all’assegno divorzile ad un coniuge reduce da un matrimonio durato una sola settimana; Cass. 16 ottobre 2013, n. 23442, in DeJure, che ha confermato la decisione di merito con la quale veniva attribuito un assegno divorzile alla ex moglie, professionista economicamente benestante, precisando che “al fine dell’accertamento del diritto all’assegno divorzile, non bisogna confondere lo stile con il tenore di vita; anche in presenza di rilevanti potenzialità economiche un regime familiare può essere, infatti, improntato a uno stile di “understatement” o di rigore ma questa costituisce una scelta che non può annullare le potenzialità di una condizione economica agiata”. Ancora, il diritto all’assegno divorzile è stato riconosciuto in capo ad una ex coniuge giovane reduce da esperienza matrimoniale relativamente breve da Cass. 11novembre 2009, n. 23906, in DeJure.