Michele Ruvolo, Anche il convivente può, a certe condizioni, ottenere dall’altro convivente l’indennizzo per arricchimento ingiustificato, in Corriere Giur., 2010, 1, 72
Anche il convivente puo’, a certe condizioni, ottenere dall’altro convivente l’indennizzo per arricchimento ingiustificato
Sommario: La vicenda – La questione – I precedenti – Il principio affermato da Cass. 11330/2009
La vicenda
Il caso deciso dalla III sezione civile della Cassazione riguarda una lite tra la figlia di primo letto (attrice) e la convivente more uxorio (convenuta) di un uomo deceduto senza lasciare testamento.
La prima aveva convenuto in giudizio la seconda per sentirla condannare al pagamento delle somme percepite e/o prelevate dai beni ereditari del padre dell’attrice.
La seconda aveva contestato la domanda dell’attrice ed aveva chiesto, in via riconvenzionale, di accertare e dichiarare il proprio diritto di comunione in ragione del 50% su tre appartamenti e relativi accessori e pertinenze, che assumeva essere stati acquistati dal suo convivente durante il lungo periodo di convivenza con il proprio determinante contributo economico. In subordine, aveva chiesto di accertare e dichiarare l’arricchimento senza giusta causa del convivente in misura pari al 50% del valore di detti immobili, con la condanna degli eredi al pagamento del relativo indennizzo. L’argomentazione difensiva della convivente era, quindi, che gran parte di quei beni erano stati acquisiti dall’uomo approfittando della convivenza con lei e, dunque, per effetto di ingiustificato arricchimento ai suoi danni.
In primo grado il Tribunale rigettava sia la domanda principale che quella riconvenzionale. Venivano ritenuti elementi provati sia la convivenza more uxorio protrattasi nel tempo che il contributo lavorativo ed economico fornito dalla convenuta sino al momento della morte del suo convivente. Si considerava poi prescritta l’azione di arricchimento ingiustificato, avuto riguardo alla data dell’ultimo acquisto immobiliare.
Impugnata la sentenza da parte della sola convenuta convivente, la Corte di appello, in parziale riforma della sentenza di primo grado, dichiarava ed
Contenuto Riservato!
Iscriviti alla nostra newsletter per avere accesso immediato
Se sei già iscritto, inserisci nuovamente la tua email per accedere
Avverso questa decisione della Corte di appello veniva proposto ricorso per Cassazione, deciso con la sentenza in commento.
La questione
Il problema che ha dovuto affrontare il giudice di legittimità è il seguente: nel caso in cui un convivente garantisca all’altro un rilevante e continuo contributo economico e lavorativo anche in virtù del quale questi può permettersi l’acquisto di alcuni immobili, alla cessazione della convivenza può riconoscersi al primo un indennizzo per arricchimento senza causa?
Per la Suprema Corte la risposta è, a certe condizioni, affermativa.
Chi aveva proposto ricorso per Cassazione affermava, invece, che le prestazioni oggetto del giudizio erano prestazioni patrimoniali rese all’interno della coppia di conviventi more uxorio, con la conseguenza che esse dovevano essere inquadrate nell’ambito delle obbligazioni naturali, costituendo un semplice dovere morale e sociale, e non giuridico, quello di fornire all’altro convivente i mezzi per vivere. Secondo questa impostazione andrebbe esclusa l’azione di cui all’art. 2041 c.c. nell’ambito della convivenza more uxorio, trattandosi di prestazioni rese affectionis vel benevolentiae causa e caratterizzate dalla spontaneità dell’adempimento, con la conseguenza che dovrebbe escludersi l’arricchimento quali che siano, per ciascuno degli interessati, le conseguenze economiche vantaggiose o svantaggiose, in quanto causate dalla libera e concorde determinazione delle loro volontà.
Va infatti ricordato che la giurisprudenza era giunta a qualificare come adempimenti di obbligazioni naturali tutte le attribuzioni patrimoniali effettuate tra conviventi, e ciò sia con riferimento a a quelle compiute durante lo svolgimento della convivenza che a quelle poste in essere alla cessazione della convivenza (1). L’obbligazione naturale era vista come uno strumento che riusciva a garantire la necessaria assistenza reciproca in modo analogo a quanto faceva per i coniugi l’art. 143 c.c. Lo spontaneo comportamento improntato a collaborazione, fedeltà, coabitazione ed assistenza tra conviventi integra ormai l’adempimento di un’obbligazione naturale, salvo, come si vedrà a breve, quando vi sia una notevole sproporzione tra le reciproche prestazioni.
I precedenti
Con la sentenza della sezione II n. 3713 del 13 marzo 2003 (2), la Suprema Corte affermava che un’attribuzione patrimoniale a favore del convivente more uxorio configura l’adempimento di un’obbligazione naturale a condizione che la prestazione risulti adeguata alle circostanze e proporzionata all’entità del patrimonio ed alle condizioni sociali del solvens. In particolare la convenuta aveva comperato, in costanza dì convivenza more uxorio, un terreno e l’attore, acquistando i materiali e lavorando per tutto il suo tempo libero, aveva costruito sia la casa di abitazione che altro edificio di tre piani al grezzo oltre ai locali accessori. Proposta domanda ex art. 936 c.c. ed accolta questa in sede di merito, la convenuta aveva proposto ricorso per cassazione deducendo che nulla competeva a controparte trattandosi di adempimento, da parte sua, di un dovere morale, atteso il rapporto di convivenza. La Suprema Corte rigettava la deduzione in considerazione dei principi sopra esposti. Nella sentenza in questione i giudici di merito, con accertamento di fatto ritenuto dalla Cassazione incensurabile in sede di legittimità, avevano escluso il rapporto di proporzionalità (come detto ritenuto invece essenziale per configurare l’arricchimento ingiustificato ex art. 2041 c.c. nell’ambito della convivenza more uxorio) tra l’opera edificatoria realizzata, a propria cura e spese, da uno dei conviventi (con l’arricchimento esclusivo dell’altro dei componenti la famiglia di fatto) e l’adempimento dei doveri morali e sociali da parte del convivente more uxorio (3). Nella sentenza n. 3713/03 la Suprema Corre, poi, riteneva pure non condivisibile l’assunto della ricorrente per cui, qualora la prestazione dell’altro convivente non potesse inquadrarsi nello schema concettuale dell’obbligazione naturale, la prestazione stessa doveva presumersi gratuita, essendo stata resa nell’ambito dei rapporti di convivenza more uxorio. Per i giudici di legittimità, infatti, in tali rapporti di convivenza la presunzione di gratuità delle prestazioni rese da una parte in favore dell’altra viene meno quando risulti che la prestazione esula dai doveri di carattere morale e civile di mutua assistenza e collaborazione, in relazione alle qualità e condizioni sociali delle parti e si configuri come mera operazione economico-patrimoniale che abbia determinato un inspiegabile ed illogico arricchimento del convivente, con proprio ingiusto danno.
Un principio analogo a quello affermato da Cass. 3713/2003 era stato già enunciato nelle sentenze della II sezione civile della Suprema Corte del 12 febbraio 1980 n. 1007 (4) e del 3 febbraio 1975 n. 389 (5), secondo le quali l’indagine sulla sussistenza di un’obbligazione naturale è duplice, dovendo accertarsi, da un lato, se nel caso dedotto sussista un dovere morale o sociale in rapporto alla valutazione corrente nella società e, dall’altro, se tale dovere sia stato spontaneamente adempiuto con una prestazione avente carattere di proporzionalità ed adeguatezza in relazione a tutte le circostanze del caso.
Nel 1978 si era invece affermato, nella sentenza n. 1024 del 27 febbraio, un principio diverso, ossia che l’arricchimento senza causa non sussiste se lo squilibrio economico,a favore di una parte ed in pregiudizio dell’altra, sia voluto dagli interessati, cioè quando il trasferimento dell’utilità economica trovi giustificazione nel consenso della parte che assuma di essere danneggiata. La volontaria prestazione esclude l’ingiusto arricchimento, quali che siano per essere per ognuno degli interessati le conseguenze patrimoniali economiche, vantaggiose o svantaggiose, della libera e concorde determinazione della loro volontà (6). Sempre con la stessa sentenza del 1978 la Suprema Corte aveva sostenuto che l’attività lavorativa svolta da una persona a favore di un’altra, con lei convivente more uxorio, deve presumersi resa a causa di affetto o di benevolenza, e perciò non costitutiva di un rapporto di lavoro, col relativo diritto alla retribuzione. La presunzione può ritenersi vinta solo se risulti che le persone abbiano inteso obbligarsi, rispettivamente, ad un lavoro e ad un compenso, sì che tra le due prestazioni sussista un nesso sinallagmatico (7). In questo caso del 1978, essendo stata respinta dal giudice del merito la pretesa della convivente more uxorio ad una retribuzione per attività lavorativa da lei effettuata a favore del convivente, in quanto resa non per obbligo ma affectionis causa, la Corte ha ritenuto altresì infondata la pretesa di indennizzo per indebito arricchimento.
Su questa scia si è statuito, nella giurisprudenza di merito, che le somme spese da un convivente more uxorio, attraverso l’impresa edile di cui sia titolare, per ristrutturare la casa, di proprietà esclusiva del partner, nella quale la coppia abbia abitato, non sono ripetibili, considerata la presunzione di gratuità delle prestazioni lavorative rese tra partners concubinarii, presunzione che può essere vinta solo dalla rigorosa prova dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato ed oneroso, tra le parti, o dall’accordo per una ripetizione delle somme impiegate per i lavori effettuati (Trib. Roma, 30 ottobre 1991 (8)).
Il principio affermato da Cass. 11330/2009
Nella sentenza in commento la Corte di cassazione fissa i principi relativi al rapporto tra ingiustificato arricchimento e convivenza more uxorio.
Ciò fa con riferimento ad un caso in cui risultava, dalla decisione di merito, la provenienza della provvista per gli acquisti immobiliari del convivente deceduto “anche e soprattutto ” dai proventi del lavoro della convivente superstite e l’assenza di una giusta causa del “rilevante contributo economico e lavorativo ” fornito dalla convivente per gli acquisti effettuati dal convivente deceduto durante tutto il periodo di ultratrentennale convivenza. Ecco che l’arricchimento di quest’ultimo era stato conseguente alla conversione a suo esclusivo profitto, mediante l’acquisto di proprietà immobiliari ad esso solo intestate, di contributi economici e lavorativi della convivente superstite, resi in assenza di un titolo (neppure gratuito) che giustificasse lo spostamento patrimoniale e tali – per rilevanza, continuità ed unilateralità degli apporti – da non costituire adempimento dei doveri morali, conseguenti all’instaurazione del rapporto di convivenza.
Prima di fissare tali principi, il giudice di legittimità ritiene opportuno precisare che l’azione generale di arricchimento ha come presupposto la locupletazione di un soggetto a danno dell’altro che sia avvenuta senza giusta causa, sicché non è dato invocare la mancanza o l’ingiustizia della causa qualora l’arricchimento sia conseguenza di un contratto, di un impoverimento remunerato, di un atto di liberalità o dell’adempimento di un’obbligazione naturale (9).
In particolare, si osserva: 1) che l’art. 2041 c.c., costituisce una norma di chiusura della disciplina delle obbligazione, concedendo uno strumento di tutela, esperibile in tutti i casi in cui tra due soggetti si verifica uno spostamento patrimoniale (c.d. utiliter versum), tale che uno subisca danno e l’altro si arricchisca, “senza una giusta causa” e, cioè, senza che sussista una ragione che, secondo l’ordinamento, giustifichi il profitto o il vantaggio dell’arricchito; 2) che l’azione ex art. 2041 c.c. ha carattere generale (perché è esperibile in una serie indeterminata di casi, in quanto espressione del principio per cui non è ammissibile l’altrui pregiudizio patrimoniale senza una ragione giustificativa) e natura sussidiaria (perché è esercitabile solo quando al depauperato non spetti nessun’altra azione, basata su un contratto, su un fatto illecito o su altro atto o fatto produttivo dell’obbligazione restitutoria o risarcitoria – art. 2042 c.c.) (10).
Alla luce di tali criteri viene affermato che se l’arricchimento costituisce la conseguenza di un contratto o di un rapporto compiutamente regolato non è dato invocare la mancanza o l’ingiustizia della causa, almeno fino a quando il rapporto o il contratto mantengano la loro efficacia obbligatoria (11).
Più in generale si precisa che l’arricchimento/depauperamento deve avere una giustificazione giuridicamente valida (secundum ius), intendendosi per tale un titolo legale o negoziale idoneo a sorreggere sia l’incremento, sia la connessa diminuzione patrimoniale. Al contrario l’arricchimento risulterà “senza una giusta causa”, quando non ha tale giustificazione e, cioè, quando è correlato ad un impoverimento non remunerato, né conseguente ad un atto liberalità e neppure all’adempimento di un’obbligazione naturale; e ciò in quanto l’ordinamento esige che ogni arricchimento dipenda dalla realizzazione di un interesse meritevole di tutela.
Ai fini dell’art. 2041 c.c., infatti, l’arricchimento non deve avere alcuna giuridica giustificazione: in particolare non deve potersi configurare neanche un atto di liberalità o l’adempimento di un’obbligazione naturale.
Con riferimento al caso dell’obbligazione naturale, evidentemente rilevante in relazione al caso della convivenza more uxorio oggetto del giudizio, la Suprema Corte evidenzia che il riferimento ad esigenze di tipo solidaristico non è di per sé sufficiente a prefigurare una “giusta causa” dello spostamento patrimoniale, giacché ai fini dell’art. 2034 c.c., comma 1, occorre allegare e dimostrare non solo l’esistenza di un dovere morale o sociale in rapporto alla valutazione corrente nella società, ma anche che tale dovere sia stato spontaneamente adempiuto con una prestazione avente carattere di proporzionalità e adeguatezza in relazione a tutte le circostanze del caso (12).
Ecco che, con particolare riguardo alla convivenza more uxorio, si precisa, a questo punto, che è possibile configurare l’ingiustizia dell’arricchimento da parte di un convivente “more uxorio” nei confronti dell’altro in presenza di prestazioni a vantaggio del primo esulanti dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza – il cui contenuto va parametrato in relazione alle condizioni sociali e patrimoniali dei componenti della famiglia di fatto – e travalicanti i limiti di proporzionalità e di adeguatezza. Viene quindi ribadito il principio già affermato dalle citate sentenze della Cassazione n. 3713/03, n. 1007/1980 e n. 389/1975.
Ed invero, nella sentenza in commento il giudice di legittimità non ha condiviso l’impostazione della parte ricorrente tendente a prefigurare una sorta di inconciliabilità logico-giuridica tra la convivenza more uxorio e l’azione di arricchimento senza giusta, sul presupposto dell’inquadramento delle prestazioni rese dai conviventi nell’ambito concettuale dell’obbligazione naturale. Una tale impostazione, infatti, postula che le prestazioni stesse trovino la loro giustificazione, per l’appunto, nel rapporto di convivenza e, cioè, che si tratti di prestazioni rese nell’adempimento dei doveri di carattere morale e civile di solidarietà e reciproca assistenza che, avuto riguardo alle condizioni sociali e patrimoniali delle parti, devono presiedere alla famiglia di fatto.
Per la Cassazione, invece, quando risulti – come nel caso oggetto della sentenza in commento – che le prestazioni rese da un convivente e convertite (in tutto o in parte) a vantaggio dell’altro esorbitano dagli indicati limiti di proporzionalità ed adeguatezza, allora è configurabile una mera operazione economico-patrimoniale, comportante un ingiustificato arricchimento del convivente more uxorio con pregiudizio dell’altro. Né sarebbe estensibile la presunzione di gratuità, propria delle prestazioni lavorative svolte nell’ambito di comunità familiari, se non quando vi è la rigorosa dimostrazione di una comunanza spirituale ed economica analoga a quella inerente al rapporto coniugale (cfr. Cass. n. 3012 del 1978). Peraltro, per i giudici di legittimità siffatta presunzione – da ritenersi operante nella famiglia di fatto nei limiti di cui all’art. 230 bis c.p.c. (cfr. Cass. n. 5803 del 1990) – potrebbe riferirsi solo alla collaborazione data per le esigenze del nucleo familiare ovvero alla gestione dell’azienda dalla quale la famiglia stessa tragga i mezzi di sostentamento.
In sostanza, chiamata a pronunciarsi sull’ammissibilità di un’azione ex art. 2041 c.c. anche tra conviventi more uxorio, la Cassazione, ripercorrendo ampiamente i presupposti generali ed i limiti applicativi dell’azione di ingiustificato arricchimento – partendo dalla considerazione per cui detta azione ha come presupposto la locupletazione di un soggetto a danno dell’altro che sia avvenuta senza giusta causa e che, quindi, non è dato invocare la mancanza o l’ingiustizia della causa qualora l’azione sia proposta come conseguenza di un contratto, di un impoverimento remunerato, di un atto di liberalità o dell’adempimento di un’obbligazione naturale – ha ritenuto che è possibile configurare l’ingiustizia dell’arricchimento da parte di un convivente more uxorio nei confronti dell’altro in presenza di prestazioni a vantaggio del primo che, parametrate in relazione alle condizioni sociali e patrimoniali dei componenti della famiglia di fatto, esulano dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza e travalicano i limiti di proporzionalità e di adeguatezza (13).
Un tale principio è da ritenere del tutto condivisibile in quanto nei casi in cui le prestazioni rese da un convivente vanno al di là del dovere morale effettivamente non sussiste un’obbligazione naturale e viene, quindi, a mancare un titolo legittimante la prestazione.
Tuttavia, ciò che va ora osservato è che se è facile escludere l’ammissibilità dell’azione ex art. 2041 c.c. nei casi in cui non può evidentemente parlarsi di assenza di giusta causa dell’arricchimento per possibile sussunzione della fattispecie nell’ambito di un rapporto contrattuale (si pensi ai casi, già citati, risolti da Cass. 2312/08, 5689/05, 14215/02, 7627/02), davvero delicata è, invece, la questione relativa alla valutazione necessaria per stabilire se una prestazione abbia il carattere della adeguatezza e della proporzionalità. Una tale valutazione non solo è potenzialmente complessa in relazione alle molteplici situazioni che possono presentarsi nel caso concreto, ma è pure parecchio delicata in quanto si risolve in un accertamento di fatto riservato al giudice di merito ed incensurabile in Cassazione se sorretto da motivazione sufficiente ed immune da vizi logici e da errori di diritto.
Certamente mancava il requisito della proporzionalità ed adeguatezza nel caso deciso dalla citata Cass. 3713/2003 in cui la convivente aveva intimato all’ex compagno (muratore che, lavorando nel tempo libero, aveva costruito sul fondo della convivente un immobile destinato ad abitazione della famiglia ed altri locali) di lasciare la casa di abitazione.
Poco, si capisce, invece, delle caratteristiche della vicenda fattuale che ha portato alla decisione di merito impugnata con il ricorso per cassazione deciso dalla sentenza in commento. Si comprende solo che il giudice di merito ha accertato che la convivente aveva fornito al convivente deceduto un rilevante contributo lavorativo ed economico nei lunghi anni di convivenza e sino al momento del decesso dell’altro. In particolare, si comprende che il giudice di merito aveva ritenuto provate due circostanze: 1) la provenienza della provvista per gli acquisti immobiliari del convivente deceduto “anche e soprattutto ” dai proventi del lavoro della convivente superstite; 2) l’assenza di una giusta causa del “rilevante contributo economico e lavorativo ” fornito dalla convivente per gli acquisti effettuati dal convivente durante tutto il periodo di ultratrentennale convivenza. In sostanza, nelle sentenze dei primi due gradi di giudizio si riteneva che l’arricchimento del convivente era stato conseguente alla conversione a suo esclusivo profitto, mediante l’acquisto di proprietà immobiliari ad esso solo intestate, di contributi economici e lavorativi della convivente superstite, resi in assenza di un titolo (neppure gratuito) che giustificasse lo spostamento patrimoniale e tali – per rilevanza, continuità ed unilateralità degli apporti – da non costituire adempimento dei doveri morali, conseguenti all’instaurazione del rapporto di convivenza. Si capisce pure che la prestazione della convivente non era consistita in una collaborazione nell’azienda familiare, considerato che il giudice di legittimità ha tenuto a precisare che la presunzione di gratuità è ritenuta operante dalla Cassazione nella famiglia di fatto nei limiti di cui all’art. 230 bis c.p.c. (cfr. Cass. n. 5803 del 1990) (14) e potrebbe riferirsi solo alla collaborazione data per le esigenze del nucleo familiare ovvero alla gestione dell’azienda dalla quale la famiglia stessa tragga i mezzi di sostentamento, il che non era dato ravvisare nel caso posto all’esame della Suprema Corte “per quanto emerge dal testo della decisione impugnata ” (così in sentenza ).
In sostanza, ciò che non si comprende bene è il tipo di attività lavorativa della convivente (diversa dalla collaborazione nell’azienda familiare) nella quale si è manifestato il detto contributo.
Certo, poiché si parla di un contributo “economico e lavorativo”, è evidente che la convivente non si fosse limitata a svolgere le funzioni domestiche, in tal modo esonerando da tali compiti il convivente. Ciò che pare determinante nel caso di specie è che la convivente abbia anche fornito un considerevole apporto economico per effettuare gli acquisti immobiliari del convivente. Si rimane, infatti, all’interno dell’adempimento di un dovere morale (con esclusione quindi dell’arricchimento senza causa) nei casi in cui un convivente si occupi in modo esclusivo delle faccende domestiche o, al contrario, fornisca in modo esclusivo l’apporto economico per fare fronte alle esigenze della coppia. Ed è da credere che si resti pure nell’ambito dell’adempimento di un dovere morale anche quando un tale convivente effettui pure un esborso monetario che si renda necessario per le esigenze del convivente e che sia proporzionato a tali esigenze ed alle disponibilità del soggetto che fornisce il contributo economico.
Ora, nel caso deciso dalla sentenza in commento la convivente, però, aveva pure fornito, oltre ad un contributo lavorativo, un contributo economico di notevole rilievo, e ciò non per esigenze primarie del convivente ma per l’acquisto di proprietà immobiliari intestate solo a quest’ultimo.
Non bisogna infatti dimenticare che per la Cassazione integra un adempimento di obbligazione naturale non soltanto l’assistenza morale ed affettiva prestata da uno dei conviventi more uxorio a favore dell’altro, ma anche l’esborso di somme effettuato da uno di tali soggetti, sia esso l’uomo o la donna, al fine di sopperire a singole necessità del compagno, purché possa riscontrarsi un rapporto di proporzionalità tra le somme esborsate ed i doveri morali e sociali assunti reciprocamente dai conviventi (15).
Nel caso di specie l’esborso era stato invece particolarmente elevato, visto che nella sentenza del giudice di merito si legge che la provenienza della provvista per gli acquisti immobiliari del convivente deceduto derivava “anche e soprattutto” dai proventi del lavoro della convivente superstite. Peraltro, si trattava di apporti economici e lavorativi definiti dalla sentenza in commento come rilevanti, continui ed unilaterali. In proposito basta ricordare che, seppure solo nella parte della sentenza relativa ai motivi del ricorso riguardanti la prescrizione del diritto all’indennizzo per ingiustificato arricchimento, la Corte tiene a precisare che il giudice di merito aveva evidenziato che l’impoverimento della convivente si era protratto fino alla morte del convivente, se non oltre, avendo la stessa continuato a pagare le rate di mutuo contratto per l’acquisto in comunione di un appartamento ed a “tamponare” altri impegni assunti dal suo convivente, tra cui quelli derivanti da cambiali emesse per L. 5.904.000 in relazione all’acquisto di un altro appartamento e da un’iscrizione ipotecaria per L. 17.000.000 a favore di un noto usuraio per l’acquisto di un terzo appartamento.
Pertanto, le prestazioni rese dalla convivente e convertite (in tutto o in parte) a vantaggio dell’altro esorbitavano dagli indicati limiti di proporzionalità e adeguatezza, rendendo effettivamente configurabile una mera operazione economico-patrimoniale, comportante un ingiustificato arricchimento del convivente more uxorio con pregiudizio dell’altro. Non costituisce infatti dovere morale del convivente quello di effettuare rilevanti e continui esborsi economici in favore dell’altro convivente affinché questi possa acquistare beni immobili a lui solo intestati.
Un altro aspetto della sentenza su cui va effettuata qualche riflessione è, poi, quello relativo alla non volontarietà dello spostamento patrimoniale, che viene definito come tratto non esclusivo dell’istituto in questione, configurandolo comunque come elemento essenziale, insieme ad altri, per la configurabilità dell’arricchimento senza causa. Si afferma anzi espressamente che la mancanza di volontà si risolve in un’ipotesi di mancanza di causa. Nel caso di specie mancava una volontà dello spostamento patrimoniale da parte della convivente. Sul punto sembra interessante il passaggio motivazionale della sentenza relativo all’esclusione dell’inerzia della creditrice-convivente, ritenendo che prima del decesso del convivente non vi era motivo (né la volontà e la determinazione) da parte della convivente di pretendere la cointestazione degli immobili, anche per le ripetute rassicurazioni provenienti dal primo (secondo cui “tutto ciò che era suo era anche della S. “).
In conclusione, pare condivisibile il principio per cui si è in presenza di un arricchimento ingiustificato in presenza di un contributo economico – lavorativo non proporzionato alle condizioni sociali e patrimoniali dei conviventi more uxorio e non è effettuato con la volontà di adempiere un dovere morale.
Ciò che importa è che tali elementi vengano rigorosamente dedotti e provati, in modo da evitare che prestazioni effettuate in realtà per effetto del vincolo affettivo che legava i conviventi vengano poi considerate come fonti di arricchimento ingiustificato dopo la cessazione della convivenza o la morte di uno dei due.
———————–
(1) V. Cass. 3 febbraio 1975, n. 389, in Foro it., 1975, I, 2304; App. Genova 7 marzo 1952, in Temi gen., 1952, 59; Trib. Firenze 11 agosto 1986, in Nuovo dir., 1988, 322, con nota di Bronzini; Trib. Pisa 20 gennaio 1988, in Dir. fam., 1988, 1049; Trib. Roma 13 maggio 1995, in Gius, 1995, 3594, con nota di Lascialfari.
(2) In Guida al diritto, 2003, 18, 49 ed in Giur. it. 2004, 3, 530, con nota di Paolanna Di Gregorio, Convivenza more uxorio e accessione: nuovi spunti di riflessione.
(3) La sentenza impugnata con il ricorso per cassazione aveva anche evidenziato come non era neppure da parlarsi di adempimento di un dovere morale in relazione alle prestazioni del convivente, dato che queste non si erano esaurite nel procurare alla famiglia di fatto un’abitazione dignitosa e confortevole, ma avevano avuto come effetto l’arricchimento esclusivo della convivente, per effetto dell’accessione, non solo della proprietà di un appartamento di circa mq. 175, ma anche di un fabbricato di tre piani di circa mq. 860 non ultimato, autonomamente utilizzabile con destinazione commerciale o residenziale, nonché tre locali di sgombero di mc. 154.
(4) In Giur. it., 1981, 1, 1, 1537 ed in Riv. dir. comm., 1982, 5, 2, 161.
(5) In Foro it., 1975, 1, 2301 e in Giur. it., 1976, 1, 1, 1622.
(6) V. anche Cass. 2118/67.
(7) V. anche Cass. 3203/71.
(8) In Dir. fam., 1992, 698.
(9) Già Cass. 2312 del 31 ottobre 2008 aveva affermato che l’azione generale di arricchimento ha come presupposto la locupletazione di un soggetto a danno dell’altro che sia avvenuta senza giusta causa, sicché, qualora essa sia invece conseguenza di un contratto o di altro rapporto compiutamente regolato, non è dato invocare la mancanza o l’ingiustizia della causa (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva escluso la possibilità di configurare l’ingiustizia dell’arricchimento da parte dell’acquirente per l’esistenza, nel contratto di vendita di un immobile, di una specifica clausola, consapevolmente accettata dal venditore, che escludeva ogni possibilità di aumento del prezzo convenuto. In relazione alle opere aggiuntive realizzate in corso d’opera, asseritamente accettate dalla controparte, veniva quindi dichiarata inammissibile la domanda ex art. 2041 c.c. per l’esistenza, nel caso di specie, di una specifica clausola contrattuale, consapevolmente accettata dalla venditrice, escludente ogni possibilità di aumento del prezzo convenuto, da intendersi omnicomprensivo di qualsiasi opera compiuta sull’immobile oggetto del futuro trasferimento. Non si poteva, quindi, configurare l’ingiustizia dell’incremento patrimoniale da parte dell’acquirente, la cui eventualità era stata negozialmente prevista e disciplinata nei termini sopra indicati. L’azione di cui all’art. 2041 c.c. poteva soccorrere soltanto nei casi di mancanza di altri rimedi tipici a siffatte situazioni, ma non quando, in presenza di un apposito regolamento negoziale del rapporto, l’azione contrattuale fosse concretamente infondata). Inoltre, anche Cass., sez. III, 16 marzo 2005, n. 5689, ha pure affermato che, proprio perché l’azione generale di arricchimento ha come presupposto che la locupletazione di un soggetto a danno dell’altro sia avvenuta senza giusta causa, quando tale locupletazione sia la conseguenza di un contratto o comunque di altro rapporto, non può dirsi che la causa manchi o sia ingiusta, almeno fino a quando il contratto o l’altro rapporto conservino la propria efficacia obbligatoria. Cass. 5689/2005 ha quindi ritenuto che correttamente i giudici del merito avevano rigettano la domanda di arricchimento senza causa in caso di miglioramenti eseguiti dal conduttore sul fondo del concedente nel corso del rapporto di affitto agrario e nell’ambito di tale contratto di affitto. Sulla base dello stesso principio di diritto Cass. civ., sez. un., 3 ottobre 2002, n. 14215 (segnalata in questa Rivista, 2002, 12, 1553 e Arch. civ., 2003, 792) ha escluso che potesse essere configurata come di indebito arricchimento la domanda proposta da un ente pubblico contro il proprio dipendente per conseguire la ripetizione di somme pagate per interessi su miglioramenti economici già giudizialmente riconosciuti, traendo tale vantaggio origine da un’obbligazione la cui fonte era il contratto o rapporto d’impiego). È infine relativa all’esclusione dell’arricchimento senza causa in caso di miglioramenti apportati nell’ambito di un contratto di locazione da un soggetto estraneo al rapporto contrattuale e che aveva subito un depauperamento per effetto delle opere eseguite Cass. civ., sez. III, 24 maggio 2002, n. 7627, in Dir. e giust., 2002, n. 24; Arch. civ., 2003, 325 e Rass. locaz. cond., 2003, 100. In Cass. 7627/02 si afferma, in particolare, che, poiché la mancanza di una giusta causa dell’attribuzione patrimoniale, ai fini dell’indennizzo per ingiusto arricchimento ai sensi dell’art. 2041 c.c., non si identifica con il danno soggettivamente ingiusto sofferto dalla parte depauperata, ma va accertata con riferimento alla posizione giuridica dell’arricchito, sussiste detta causa giustificatrice anche se essa derivi da un contratto intercorrente non tra il depauperato e l’arricchito, ma tra questi ed un terzo, almeno finché tale rapporto non sia annullato, rescisso o risolto. Conseguentemente, colui che abbia eseguito, su incarico del conduttore di un immobile, opere di miglioramento dell’immobile locato non può, ove il conduttore non l’abbia soddisfatto in relazione al suo credito, rivalersi con l’azione di indebito arricchimento verso il locatore al quale, in virtù di apposita clausola contrattuale o ai sensi dell’art. 1592 c.c., i miglioramenti siano acquisiti senza obbligo di indennizzo alla cessazione della locazione, trovando il vantaggio del locatore causa giustificatrice nel rapporto di locazione intercorso con il conduttore committente delle opere suddette.
(10) Nella sentenza in commento si afferma anche che l’arricchimento può consistere sia in un incremento patrimoniale, quanto in un risparmio di spesa o in una mancata perdita economica. Conseguentemente, il depauperamento può consistere sia in erogazioni di un’entità pecuniaria, sia in attività o prestazioni lavorative di cui si avvantaggi l’arricchito.
(11) Cfr. Cass. n. 2312 del 2008; sez. unite, n. 14215 del 2002.
(12) Cfr. Cass. n. 1007 del 1980.
(13) In tema di prescrizione dell’azione di arricchimento la Corte ha avuto anche modo di aggiungere che – in casi come quello di specie – in considerazione del fatto che il contributo economico – lavorativo viene prestato lungo tutto l’arco del rapporto more uxorio, il dies a quo del termine prescrizionale comincia a decorrere soltanto dalla cessazione della convivenza.
(14) Per Cass. 5803/1990 “la presenza di una comunanza di vita e di interessi fra conviventi (cosiddetta famiglia di fatto), una volta accertata, rende operante – nei limiti che derivano dall’operatività dell’art. 230 bis c.c. – la presunzione di gratuità delle prestazioni lavorative rese da una parte in favore dell’altra, con la conseguenza che grava su colui che assume la riconducibilità di tali prestazioni allo svolgimento di un rapporto di lavoro subordinato l’onere di vincere siffatta presunzione, dimostrando la loro estraneità allo stretto ambito familiare e l’attinenza allo esercizio di un’impresa “. Analogamente, per Cass. 1701/1988 “la presunzione di gratuità delle prestazioni lavorative rese tra persone conviventi more uxorio – gratuità che in generale, pur essendo eccezionale rispetto al normale carattere oneroso del rapporto di lavoro può essere ricavata da specifici elementi oggettivi e soggettivi, quali il tipo e le concrete modalità del rapporto, la qualità e la condizione economico-sociale dei soggetti, nonché le relazioni personali tra di essi – può essere vinta solo dalla prova rigorosa, a carico di chi l’assume, dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato ed oneroso, prova che non può consistere né nella sola corresponsione di vitto ed alloggio o di ulteriori utilità dirette al soddisfacimento di altre esigenze di ordine materiale nell’ambito della normale solidarietà affettiva e materiale dei componenti della famiglia di fatto, né nella circostanza che le prestazioni lavorative, anziché svolgersi nello stretto ambito familiare, attengano all’esercizio di una impresa, ove questa sia organizzata e gestita con criteri prevalentemente familiari, richiedendosi l’accertamento in concreto che vi sia un’equa ed effettiva partecipazione dei componenti alle risorse della famiglia di fatto “. Pure Cass. 7486/86 ha affermato che “al fine di stabilire se le prestazioni lavorative, svolte nello ambito di una convivenza more uxorio, diano luogo ad un rapporto di lavoro subordinato oppure siano riconducibili ad una diversa relazione, dalla quale esuli il requisito della subordinazione, il giudice – specie nella considerazione del ridimensionamento della presunzione di gratuità delle prestazioni rese anche nell’ambito della famiglia legittima a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 230 bis c.c. (sub art. 89 legge 19 maggio 1975 n. 151) – può escludere l’esistenza del rapporto di lavoro subordinato solo in presenza della dimostrazione rigorosa di una comunanza di vita e di interessi tra i conviventi (famiglia di fatto), che non si esaurisca in un rapporto meramente spirituale, affettivo e sessuale, ma, analogamente al rapporto coniugale, dia luogo anche alla partecipazione, effettiva ed equa, della convivente more uxorio alle risorse della famiglia di fatto “. Sul punto v. anche Cass. 5373/83, 1810/1980, 4221/79 e 3012/78.
(15) Cass. 389/1975. Cfr. anche Cass., sez. 3, 26 gennaio 1980 n. 651 e Cass., sez. 1, 11 aprile 1986 n. 2569. Inoltre, per Cass. 285/89 nella dazione di una somma di danaro da parte dell’uomo alla donna in occasione della cessazione della loro relazione sentimentale può ravvisarsi l’adempimento di una obbligazione naturale, con la conseguenza che la suddetta somma non può essere chiesta in restituzione (soluti retentio), né dedotta in compensazione da parte del solvens. Così anche già Cass. 60/69.