Giovanni Facci, Il merchandising del marchio sportivo, in Contratto e impresa, 2011, p. 198.
Il merchandising del marchio sportivo
Sommario: 1. Il merchandising nell’ordinamento sportivo. – 2. Il contratto di merchandising e l’evoluzione della normativa in tema di marchi registrati. – 3. Il marchio sportivo. – 4. Il merchandising e la sponsorizzazione sportiva. – 5. (segue) Il diritto all’immagine del singolo atleta ed il personality merchandising. – 6. La tutela del marchio sportivo e l’ambush marketing
1. Il merchandising nell’ordinamento sportivo
Le società sportive professionistiche, in primis quelle calcistiche, stanno attribuendo sempre più importanza al merchandising e cioè allo sfruttamento commerciale del marchio sportivo, attraverso la vendita di beni e prodotti recanti il segno distintivo del club. Nel panorama sportivo nazionale, infatti, i ricavi provenienti dal contratto di merchandising rappresentano una fonte economica dalle rilevanti potenzialità ma che finora è stata poco sfruttata, se rapportata alle realtà sportive di altre nazioni (1). Per questo motivo, le società (ma anche le Federazioni e le Leghe sportive), per far fronte alle crescenti spese di gestione, prestano sempre più attenzione e risorse al fine di aumentare i provenenti derivanti dal merchandising.
Anche il legislatore ha mostrato interesse al merchandising sportivo: nel corso della presente legislatura è stata presentata una proposta di legge per la tutela del marchio sportivo e per l’utilizzazione commerciale dello stesso (2). Tale progetto nasce dalla constatazione di una carenza normativa idonea a contrastare, in modo efficace, l’attività di contraffazione dei marchi e dei prodotti sportivi, nonché il fenomeno del cd. ambush marketing (3). Nello specifico, il progetto legislativo predispone una tutela forte per tutti i segni distintivi delle società sportive, degli enti sportivi, delle federazioni sportive e del Coni, utilizzati dalle aziende per le attività di sponsorizzazione o di merchandising (art. 1) (4); inoltre, è previsto un espresso divieto di utilizzazione dei segni distintivi senza l’autorizzazione dei titolari, nonché di svolgimento delle attività di ambush marketing (art. 2). Sono altresì disposte sanzioni amministrative pecuniarie specifiche, fatte salve le sanzioni già previste dalla legislazione vigente, per i contraffattori od imitatori (art. 4). Particolare attenzione è dedicata anche alla destinazione dei segni distintivi della società sportiva, in ipotesi del tutto particolari, come in caso di perdita di affiliazione, di fallimento o di cessazione dell’attività sportiva.
Tale proposta di legge, anche se non sarà mai diritto vigente, bene esprime l’interesse per il fenomeno. In ogni caso, il tentativo delle società sportive – ed in particolare di quelle calcistiche – di sfruttare a livello commerciale i propri segni distintivi è risalente nel tempo. In particolare, Iscriviti alla nostra newsletter per avere accesso immediato Se sei già iscritto, inserisci nuovamente la tua email per accedere Nel corso degli anni, comunque, le società sportive hanno affinato le tecniche per lo sfruttamento economico dei propri segni distintivi, al fine di dare impulso alla vendita di prodotti recanti il segno distintivo del club. In particolare, al fine di potenziare tale fonte di profitto, alcune società sportive professionistiche hanno sviluppato forme più complesse e differenti rispetto alle tradizionali forme di vendita di oggetti di largo consumo, tanto che talvolta sono state create apposite società al fine di accrescere il merchandising ed il marketing della società sportiva; a ciò si aggiunga che un indubbio impulso alla diffusione del merchandising proviene dai siti Internet ufficiali delle società calcistiche, attraverso i quali i tifosi possono acquistare on-line i prodotti ufficiali delle squadre (8). 2. Il contratto di merchandising e l’evoluzione della normativa in tema di marchi registrati. Il merchandising è definito generalmente come un contratto atipico, ma socialmente tipizzato per essere utilizzato in conformità ad una prassi contrattuale ben consolidata, con caratteri omogenei e costanti (9), mediante il quale il titolare di un marchio od altro segno distintivo (quale nome, figura o segno) che abbia acquisito notorietà tra il pubblico in un certo settore, ne concede la facoltà di uso ad un altro imprenditore, affinché lo stesso segno sia apposto su prodotti di natura notevolmente diversa rispetto ai beni che hanno dato successo al marchio od al segno distintivo e per i quali, in precedenza, è stato realizzato e registrato (10). Analoga definizione è contenuta nel comma 4º dell’art. 1 della proposta di legge, in precedenza citata, in tema di «Disposizioni per la tutela dei segni distintivi delle società sportive, enti e federazioni, e per la disciplina della loro utilizzazione commerciale e delle sponsorizzazioni sportive» (11). Alla luce di siffatta definizione, appare condivisibile l’osservazione secondo cui il merchandising altera le tradizionali tecniche di marketing, alla stregua delle quali un produttore generalmente affronta rilevanti costi iniziali per produrre un bene di elevata qualità, poi investe notevoli risorse per pubblicizzare e promuovere le vendite del prodotto, nella speranza che i consumatori acquistino i beni in quantità tali da recuperare le spese e conseguire utili. Con il merchandising, infatti, detto schema viene trasformato: il produttore, con un limitato investimento iniziale od addirittura senza alcun investimento di capitale, acquisisce la licenza su di un segno distintivo noto, che sia idoneo a far distinguere immediatamente il suo prodotto da quello dei concorrenti (12). Il merchandising, in ogni caso, deve essere tenuto distinto dal contratto di licenza di marchio (cd. licensing); quest’ultimo indica il contratto di licenza d’uso del marchio, concesso dal titolare ad altro soggetto affinché apponga il marchio stesso su prodotti o servizi identici o simili a quelli per cui il segno è stato creato e su cui viene apposto dal titolare. Lo scopo primario, pertanto, è quello di espandere la presenza del segno sul mercato, nell’ambito del settore di attività del titolare del marchio, tramite la commercializzazione di prodotti immessi sul mercato da aziende di altri imprenditori (13). La peculiarità che contraddistingue il merchandising, invece, è rappresentata dal fatto che il soggetto che ha portato all’affermazione originaria (“primaria”) un marchio (ma potrebbe trattarsi anche di opera dell’ingegno, nome civile e ritratto (14) concede ad un altro imprenditore la facoltà di farne un uso ulteriore (“secondario”) in un campo totalmente diverso da quello iniziale (15). In tal modo, il marchio diventa un bene autonomo, immateriale, che viene utilizzato come un valore in sé, per la sua efficacia suggestiva o pubblicitaria, che determina il conferimento di pregi commerciali all’imprenditore ed ai suoi prodotti (16). Tenuto conto di tale funzione del marchio nell’ambito del merchandising, si ponevano ostacoli giuridici di rilievo alla legittimità stessa del contratto, nella legislazione sui marchi anteriore alla riforma del 1992. Nel previgente sistema, infatti, la tutela giuridica del marchio era approntata esclusivamente nei limiti della funzione di indicazione di provenienza del prodotto, nel senso di garantire la corrispondenza tra il prodotto contraddistinto nel mercato con un dato marchio e l’impresa titolare del marchio stesso, così da tutelare il legittimo affidamento del consumatore sull’effettiva provenienza del prodotto nonché sulle qualità riferibili all’impresa produttrice (17). Così facendo, era messa in discussione la validità dei contratti di merchandising dei marchi, sotto il profilo che il concedente normalmente attribuisce a terzi il diritto di uso del marchio per prodotti non solo da lui non posti in commercio ma anche non affini a quelli da lui fabbricati (18). In altri termini, prima della riforma, in base alla ratio sopra indicata, si tendeva ad escludere che il concedente potesse vantare un’esclusiva sui prodotti merceologicamente distanti da quelli da lui commercializzati e ciò anche se provvedeva alla registrazione del marchio per le classi corrispondenti (19). In particolare, vi era un ostacolo legislativo alla validità della registrazione ultramerceologica, rappresentato dall’art. 22 l. m. (r.d. 21 giugno 1942, n. 929), secondo il quale poteva «ottenere il brevetto per marchio d’impresa chi lo utilizza, o si propone di utilizzarlo, nella sua industria o nel suo commercio». Alla stregua di tale disposizione, il presupposto per la protezione, collegata al dato formale della registrazione, era l’utilizzo nell’impresa, così che il deposito di un marchio al solo fine di concedere una licenza poteva essere dichiarato nullo (20); di conseguenza, chi aveva ottenuto una registrazione in relazione a settori produttivi lontani da quello in cui operava non era certo di poter ottenere adeguata tutela (21). Contestualmente, il concedente, in assenza di un potere di vietare ai terzi l’uso del marchio per prodotti estranei all’attività dell’azienda, non poteva neppure attribuire, con certezza, ad un concessionario l’autorizzazione corrispondente a titolo oneroso: il contratto avrebbe potuto essere dichiarato privo di causa o di oggetto (22). Alla stregua della funzione attribuita al marchio, di indicazione di provenienza del prodotto, è da collocare anche l’interpretazione che veniva data all’art. 15 l. m. (r.d. 21 giugno 1942, n. 929) (23) ed all’art. 2573 c.c. (24). Si riteneva, infatti, che l’uso del marchio potesse essere trasferito solo a titolo esclusivo e soltanto con l’azienda o con un ramo di questa, al fine di impedire l’inganno del pubblico, circa la provenienza dei prodotti (25). Alla luce di tale quadro giuridico, volto ad assicurare che il marchio venisse utilizzato solo per contraddistinguere i prodotti dell’impresa (26), sono evidenti gli ostacoli frapposti al contratto di merchandising: in quest’ultimo, il marchio non viene usato per assolvere la funzione appena indicata ma soltanto come valore in sé per la sua efficacia suggestiva e pubblicitaria; normalmente, inoltre, non si trasferisce alcun “ramo d’azienda” e spesso si opera tramite licenze non esclusive (27). Solo con l’evoluzione della normativa di cui alla riforma del 1992, con cui si è reciso il rapporto tra titolarità dell’azienda e titolarità del marchio è stata offerta una piena legittimazione al contratto di merchandising. In particolare, la funzione distintiva del marchio – inteso come indicatore di provenienza, in origine ritenuta la funzione prevalente ed irrinunciabile del marchio – viene ridimensionata con la riforma del 1992, non occupando più la posizione centrale ed esclusiva, occupata in precedenza nell’ambito del diritto dei marchi. Si è preso coscienza, infatti, che il marchio può assumere valore, e di conseguenza può essere tutelato, come bene a sé, nella sua funzione suggestiva o pubblicitaria (28). In tal modo, a seguito della riforma – con gli attuali artt. 23, 19 e 20 del Codice della Proprietà Industriale (rispettivamente già artt. 15, 22 e 1, comma 1º, l. m., come modificati a seguito della riforma del 1992) e con l’art. 2573 c.c. – sono state recepite le istanze provenienti dal mercato e già fatte proprie da una parte della dottrina (29) e della giurisprudenza (30), in tema di trasferimento o concessione in licenza del marchio, anche per prodotti o servizi distanti da quelli originari per i quali il marchio è stato registrato. In altre parole, dopo la riforma del 1992, non vi è più alcun ostacolo legislativo – diversamente da quanto avveniva in passato – al fatto che il titolare di un marchio che goda di “rinomanza”, secondo il testo dell’art. 1, comma 1º, lett. c), legge marchi (ora comma 1º, art. 20 Codice Proprietà Industriale), possa invocare una protezione allargata, che si estende ben al di là dei settori nei quali egli abbia portato il segno alla sua originaria affermazione (31). Tale disposizione, infatti, prevede che il titolare del marchio che gode di rinomanza «ha il diritto di vietare a terzi, salvo il proprio consenso, di usare … c) un segno identico o simile al marchio registrato per prodotti o servizi anche non affini» (art. 20, comma 1º, lett. c), Codice Proprietà Industriale). In tal modo, il titolare del marchio che gode di rinomanza ha la possibilità di consentire l’uso del proprio marchio per prodotti anche non affini ai propri e cioè per prodotti frutto di un’attività imprenditoriale diversa rispetto a quella esercitata (32) oppure anche per prodotti per i quali egli non ha registrato il proprio marchio (33). Né tantomeno vi sono più incertezze, di fronte al nuovo testo dell’art. 22 l. m. (attuale art. 19 Codice della Proprietà Industriale), che chiunque possa registrare un segno come marchio anche quando non abbia intenzione di procedere in prima persona alla fabbricazione ed al commercio dei beni con esso contrassegnati ma programmi invece di concedere la facoltà di sfruttamento economico del segno ad un terzo a ciò autorizzato (34). In altre parole, sono definitivamente superate le obiezioni circa la meritevolezza dell’interesse allo sfruttamento del valore attrattivo del marchio da parte di chi lo registri in funzione dell’utilizzo nell’impresa altrui (35). La disposizione di cui all’art. 22 l. m. (attuale art. 19 Codice della Proprietà Industriale), infatti, dispone che «può ottenere una registrazione per marchio d’impresa chi lo utilizzi, o si proponga di utilizzarlo, nella fabbricazione o commercio di prodotti o nella prestazione di servizi della propria impresa o di imprese di cui abbia il controllo o che ne facciano uso con il suo consenso». In questo modo, la rilevanza della disposizione è rappresentata non solo dal fatto che la novella del 1992 ha svincolato la titolarità del marchio dalla qualità di imprenditore, così che qualsiasi soggetto è legittimato a presentare la relativa domanda, ma anche dalla circostanza che il legislatore espressamente ha ammesso che possa essere titolare di un marchio chi si riproponga unicamente di cederne ad altri il diritto di farne uso, per le classi cui si estende la tutela conferitagli dalla legge dietro pagamento di un corrispettivo (36). Tale previsione ben testimonia la volontà di allontanamento da un sistema nel quale la sola funzione giuridicamente tutelata del marchio era quella d’indicazione di provenienza, al fine di riconoscere allo stesso anche un valore suggestivo od evocativo in sé (37); non si potrebbe comprendere, d’altronde, la possibilità che la titolarità del marchio sia svincolata dalla qualità di imprenditore. A completamento dell’assunto circa la meritevolezza dell’interesse allo sfruttamento del valore attrattivo del marchio, da parte di chi lo registra in funzione dell’utilizzazione nell’impresa altrui, è il testo profondamente innovato degli artt. 15 l. marchi (attuale art. 23 Codice della Proprietà Industriale) e 2573 c.c. (38); tali previsioni, infatti, consentono espressamente – a differenza della normativa previgente – che la circolazione del segno distintivo dei beni avvenga anche in assenza di un coevo trasferimento di un ramo aziendale. Siffatto principio vale sia per la cessione sia per la concessione in licenza del marchio, ammettendosi che la concessione riguardi anche solo una parte dei prodotti o servizi per il quale il marchio è protetto (art. 15, comma 2º, l. marchi). In questo modo, viene confermato il riconoscimento di un valore attrattivo al marchio, che ne fa un “bene” in sé, suscettibile di essere goduto – direttamente od indirettamente (tramite licenze) – e di poter circolare indipendentemente dal complesso aziendale in cui sarà inserito (39). In seguito alla riforma, pertanto, il concedente può procedere alla concessione del marchio “parziale”, per categorie di prodotti anche distanti da quelli originari, e disinteressarsi del tutto delle scelte produttive del concessionario in merchandising (40). Il limite a siffatte operazioni è rappresentato dall’esigenza che dal trasferimento e dalla licenza del marchio non derivi «inganno in quei caratteri dei prodotti o servizi che sono essenziali nell’apprezzamento del pubblico» (41). Tale disposizione trova il proprio completamento nel comma 2º, lett. a), dell’art. 14, Codice della Proprietà Industriale, secondo il quale il marchio decade «se sia divenuto idoneo ad indurre in inganno il pubblico, in particolare circa la natura, qualità o provenienza dei prodotti o servizi, a causa di modo e del contesto in cui viene utilizzato dal titolare o con il suo consenso, per i prodotti o servizi per i quali è registrato». Il marchio, inoltre, può essere oggetto di licenza non solo parziale ma anche non esclusiva, nel senso che il licenziatario può consentire a più soggetti di usare il marchio per gli stessi prodotti oppure può continuare a farne uso lui stesso. In caso di licenza non esclusiva, comunque, si vuole evitare il rischio che vengano immessi sul mercato, con lo stesso marchio, prodotti o servizi apparentemente identici ma in realtà qualitativamente diversi, con conseguente rischio di inganno per il consumatore (42). Per questa ragione, la norma prevede che la licenza non esclusiva sia lecita a condizione che il licenziatario si obblighi a porre in commercio prodotti “eguali” a quelli corrispondenti messi in commercio con lo stesso marchio dal titolare o da altri licenziatari. La svolta legislativa così sancita risulta assai favorevole al merchandising e più in generale allo sfruttamento del valore suggestivo, attrattivo o pubblicitario che dir si voglia dei marchi. Lo stesso segno potrà dunque essere usato da una pluralità di soggetti privi di alcun reciproco collegamento anche in settori assai vicini – a conferma che l’assolvimento della funzione distintiva e di indicazione di provenienza non è più il principio cardine per tutta l’interpretazione della normativa in materia di diritto dei marchi (43) – tenuto conto che la nuova disciplina ha inteso tutelare anche la “rinomanza dei marchi” cioè la reputazione ed il valore in sé di cui gode il marchio e che può essere sfruttato a fini commerciali (44). In questo modo, non si pongono più dubbi sulla legittimità di un contratto che abbia per oggetto il marchio celebre in sé considerato, quale puro e semplice valore di scambio, reso appetibile sul mercato dalla sua comprovata qualità di collettore di clientela (45). 3. Il marchio sportivo Il merchandising delle società sportive presuppone la possibilità di tutelare legalmente il segno distintivo del club. A questo proposito, si è già ricordato come nel lontano 1979, la Lega Nazionale Calcio invitasse le società alla revisione del proprio marchio, emblema e logotipo, nonché al deposito ed alla registrazione degli stessi, al fine di garantirsi un’eventuale esclusiva, per ogni settore merceologico, nonché per tutelarsi contro ogni abuso legalmente perseguibile (46). Sussistevano però dubbi – almeno fino alle riforma della legge marchi del 1992 – che una società sportiva fosse titolare di un diritto esclusivo sul proprio segno distintivo e potesse tutelarlo legalmente; in particolare, si ponevano ostacoli giuridici a considerare il segno distintivo delle società sportive come un marchio in senso tecnico e di conseguenza appariva problematica una tutela dello stesso in modo pieno (47). Come si è sottolineato nel paragrafo precedente, infatti, la disciplina sui marchi in vigore prima del 1992 era improntata ad una tutela del segno in funzione esclusivamente di indicazione di provenienza del prodotto contrassegnato, nel senso che detto segno deve designare i prodotti posti in essere e commercializzati dalla stessa azienda. Tuttavia, le società sportive, normalmente, non producono direttamente alcun bene materiale ed i simboli delle stesse sono nati, pertanto, non per contraddistinguere prodotti da loro provenienti ma per essere proficuamente commercializzati mediante la cessione in uso a terzi (48). Vi era così incertezza sulla legittima titolarità di marchi di impresa in capo alle società sportive in settori diversi da quello della produzione di spettacoli sportivi, tenuto conto che, mancando tra l’altro il fine di lucro (49), l’attività direttamente svolta da dette società era necessariamente limitata all’evento sportivo, senza alcuna possibilità di estendere la propria attività ad altri settori (50). Di conseguenza, appariva alquanto difficile individuare una base giuridica per le pretese delle società sportive, alla luce di siffatta ricostruzione che presupponeva un’impresa in atto nel settore specifico in cui il marchio veniva registrato (51); in tal modo, se un marchio veniva registrato per una pluralità di classi, la registrazione, generalmente, non era considerata valida se non per le classi alle quali era attinente l’impresa in essere (52). In altri termini, era fortemente dubbio, ad esempio, che una squadra di calcio potesse essere titolare di un marchio relativo a prodotti che nulla avevano a che fare con l’oggetto sociale della stessa società sportiva (53). A ciò si aggiunga che, come già esaminato in precedenza, vi erano non poche incertezze sulla legittimità stessa dei contratti di merchandising. Per questa ragione, vi era il rischio che la concreta realizzazione degli interessi perseguiti dalle società sportive con la sottoscrizione di accordi di merchandising del proprio marchio venisse del tutto vanificata (54). Per ovviare a tale problematica, si è sostenuto di tutelare il segno distintivo delle società sportive attraverso la disciplina sul diritto d’autore, avvalendosi della difesa offerta al simbolo grafico, in virtù del carattere creativo dell’emblema (55); ugualmente, sempre per offrire una idonea tutela, si sono invocate le norme del codice civile riguardanti il diritto al nome, applicabili non solo alle persone fisiche ma anche a quelle giuridiche (56). Siffatte ricostruzioni erano avvalorate anche dalla circostanza che il titolare del diritto d’autore oppure al nome non avrebbe incontrato, nelle operazioni di merchandising, le difficoltà e gli ostacoli giuridici già segnalati, nel paragrafo precedente, in merito ai contratti di licenza d’uso del marchio (57). Con la riforma del 1992, con cui si è reciso il rapporto tra titolarità dell’azienda e titolarità del marchio (e quest’ultimo ha perso la sua funzione esclusivamente di indicatore di provenienza del prodotto (58), è stato possibile offrire non solo una piena legittimazione al contratto di merchandising ma anche una tutela più forte al marchio delle società sportive. Si è già evidenziato, infatti, come a seguito dell’evoluzione della normativa, si sia svincolata la titolarità del marchio dalla qualità di imprenditore e si sia ammesso che chiunque possa procedere alla registrazione di un segno come marchio, anche se non abbia intenzione di procedere alla fabbricazione ed al commercio ma abbia intenzione di concedere la facoltà di sfruttamento a terzi (art. 22 l. m., attuale art. 19 Codice della Proprietà Industriale). Nello specifico, la tutela attuale del marchio sportivo è individuata nel comma 3º dell’art. 8 del Codice della Proprietà Industriale (59) (art. 21, comma 3º, l. m., dopo la riforma del 1992), che consente la possibilità di registrare o usare (60) come marchio, «se notori» «i nomi di persona, i segni usati in campo artistico, letterario, scientifico, politico o sportivo, le denominazioni e sigle di manifestazioni e quelli di enti ed associazioni non aventi finalità economiche, nonché gli emblemi caratteristici di questi». In tal modo, si riconosce una categoria di segni registrabili come marchi di cui si assicura l’esclusiva all’autore della notorietà od al suo avente causa, in deroga al generale principio della libera registrabilità (61); infatti, soltanto chi è l’artefice della notorietà ha diritto di registrarla come marchio o farla registrare come marchio da terzi, al fine di sfruttarla commercialmente, in esclusiva, per qualsiasi settore merceologico, soprattutto attraverso lo strumento del merchandising (62). La tutela è alquanto estesa poiché la disposizione sembra introdurre un vero e proprio divieto generale di registrazione in malafede, applicabile anche all’ipotesi in cui il registrante, giocando per così dire d’anticipo, si appropri di un segno la cui notorietà extracommerciale sia soltanto in corso di formazione (63). È evidente, pertanto, la finalità di tutelare in pieno l’interesse dell’avente diritto a trarre un vantaggio economico dalla notorietà del proprio nome o segno ed evitare così ogni fenomeno di parassitismo (64); contestualmente, la disposizione ben testimonia l’allontanamento da una costruzione del marchio esclusivamente come segno distintivo e dalla conseguente tesi che ne limitava la tutela soltanto al valore distintivo e non a quello suggestivo: nel caso di specie, invece, vi è il riconoscimento del valore suggestivo di determinati segni e della loro capacità di vendita, che così facendo potrà essere sfruttata attraverso il merchandising, anche al di fuori degli ambiti in cui i soggetti di cui all’art. 8 Codice della Proprietà industriale svolgono l’attività che ha dato origine alla notorietà (65). Si consideri, infine, che la notorietà di cui all’art. 8 del Codice della Proprietà Industriale viene a dirimere l’eventuale problematica connessa al fatto che non sempre il segno di una società sportiva potrebbe avere la capacità distintiva di cui all’art. 13 dello stesso Codice, essendo la maggior parte dei marchi sportivi dei toponimi, che descrivono la provenienza geografica del club e pertanto meramente descrittivi (66). Un toponimo, infatti, può presentare carattere distintivo, là dove il segno, in ragione dell’uso che ne sia fatto dall’impresa che ne è titolare, abbia acquistato una certa notorietà così da essere istintivamente associato nella mente dei consumatori a tale impresa (67). Senza contare, inoltre, che un marchio sportivo originariamente privo di capacità distintiva in quanto toponimo è suscettibile di acquisire carattere distintivo poiché viene generalmente arricchito di dettagli figurativi, che lo trasformano da semplice in complesso, così come tra l’altro auspicato dalla Lega calcio sin dal 1979 (68). A ciò si aggiunga che si tende anche a ritenere ammissibile la registrazione come marchi d’impresa dei colori sociali delle squadre, in virtù dell’art. 7 Codice Proprietà industriale, purché tali colori possano evocare distintamente, nella percezione che ne ha il pubblico dei consumatori, una data società sportiva (69). 4. Il merchandising e la sponsorizzazione sportiva. Sono ben evidenti le differenze e le diverse funzioni svolte dal contratto di merchandising rispetto a quello di sponsorizzazione; basti soltanto pensare, ad esempio, che nella sponsorizzazione è il marchio che si avvantaggia dall’essere associato a qualcosa (come un evento, il nome di un club o di un atleta) in grado di trasmettere un messaggio positivo per i consumatori, mentre nel merchandising è il prodotto su cui viene apposto il marchio celebre a trarre beneficio dall’abbinamento (70). Sussiste, tuttavia, una stretta attinenza, in ambito sportivo, tra il merchandising e la cd. sponsorizzazione tecnica (71) allorché quest’ultima riguardi l’abbigliamento utilizzato per lo svolgimento dell’attività agonistica (come indumenti da gara e da allenamento), nell’ambito di uno sport di squadra, soprattutto se a livello professionistico (72), come ad esempio, il calcio o la pallacanestro. In questa ipotesi, infatti, la sponsorizzazione si accompagna generalmente ad un accordo di merchandising, per lo sfruttamento commerciale del marchio sportivo sull’abbigliamento tecnico, la cui importanza è ben testimoniata ad esempio dai rilevanti dati che talvolta si registrano nella vendita delle repliche delle maglie della prima squadra di club professionistici (73) oppure più in generale dai ricavi che le società professionistiche traggono dai contratti di sponsorizzazione tecnica (74). Nello specifico, la sponsorizzazione tecnica ed il merchandising danno luogo ad un’ipotesi di collegamento negoziale, in cui sono ravvisabili distinti contratti, ciascuno con una propria causa autonoma, destinati a realizzare una unitaria operazione economica (75). In particolare, attraverso siffatta operazione, l’azienda sponsor non solo acquisisce la qualifica ed i conseguenti diritti di sponsor tecnico (tra cui il diritto di apporre il proprio marchio sul supporto tecnico utilizzato dallo sponsee, al fine di acquisire visibilità), ma anche il diritto di produrre, distribuire e commercializzare, in esclusiva, prodotti di abbigliamento ed accessori, recanti i simboli distintivi della società o dell’evento sponsorizzato (76). Contestualmente, la società sportiva, oltre a ricevere un eventuale corrispettivo in denaro oltre alla fornitura di materiale tecnico, a fronte della concessione del diritto di sponsor tecnico, può sfruttare economicamente – attraverso il merchandising e le conseguenti royalty sulle vendite di prodotti – il valore attrattivo incorporato nel proprio segno distintivo, monopolizzando il commercio dell’abbigliamento ufficiale della squadra nonché degli accessori che riproducono l’emblema del club (77). Con riguardo ai diritti spettanti alla società sponsorizzata, si consideri che la fornitura non è una liberalità d’uso, ma si pone in rapporto sinallagmatico con le prestazioni dello sponsorizzato (78); inoltre, il valore della fornitura, allo stesso modo dell’importo dell’eventuale corrispettivo in denaro, a fronte dei diritti di sponsor tecnico riconosciuti, variano a seconda del prestigio e dell’importanza della società sportiva parte del contratto. Più nello specifico, il corrispettivo in denaro può essere determinato in una somma predeterminata, a prescindere dal risultato sportivo conseguito, oppure può essere strettamente collegato ad esso. Anche nella prima ipotesi (corrispettivo fisso), può essere previsto un corrispettivo integrativo, eventuale, in funzione del piazzamento del club nel Campionato nazionale oppure nella Coppa di Lega oppure in quelle europee. Generalmente è previsto, in caso di retrocessione del club in una serie inferiore, una consistente riduzione del corrispettivo in denaro, se non anche la facoltà per lo sponsor tecnico di recedere dal contratto in essere. A fronte, invece, della concessione della licenza di uso del marchio della società sportiva in favore dello sponsor tecnico, quest’ultimo si impegna a riconoscere e a corrispondere alla società sportiva una royalty, rappresentata da una percentuale sul fatturato realizzato dallo sponsor tecnico dalla vendita dei prodotti tecnici con il marchio della società sportiva. Non si può escludere, comunque, che anche una parte del compenso fisso od eventuale in denaro sia attribuita pure a titolo di corrispettivo per la concessione della licenza del marchio del club e non solo per il conferimento dei diritti di sponsor tecnico (79). In ogni caso, accanto a queste prestazioni principali (conferimento della qualifica e dei conseguenti diritti di sponsor tecnico, nonché licenza di produrre e commercializzare determinati prodotti di abbigliamento a fronte sia di una fornitura di materiale sia dell’eventuale pagamento di un corrispettivo sia del riconoscimento di una royalty), le parti si impegnano ad eseguire prestazioni ulteriori anch’esse di una certa rilevanza. Tali prestazioni, comunque, attengono prevalentemente al rapporto di sponsorizzazione tecnica; così, ad esempio, la società sportiva si impegna a far indossare i prodotti tecnici oggetto della fornitura e recanti il marchio dello sponsor tecnico a tutti i giocatori delle varie squadre (dalla prima squadra al settore giovanile), a tutti i membri degli staff tecnici delle varie squadre ed agli ausiliari di campo (come ad es. i raccattapalle), in occasione di tutte le manifestazioni sportive, anche a carattere soltanto amichevole ed anche in allenamento (80). Siffatto obbligo (di far indossare il materiale dello sponsor tecnico) a carico della società si configura come una promessa dell’obbligazione o del fatto del terzo, ex art. 1381 c.c. (81), con conseguente responsabilità del promittente (sponsee) se il terzo (in primis i giocatori) non adempie quanto promesso; in particolare, se i giocatori della società sponsorizzata non indossano l’abbigliamento fornito dallo sponsor, si ravvisa un inadempimento contrattuale di non scarsa importanza, ex art. 1455 c.c., con possibilità di risolvere il contratto e di richiedere il risarcimento degli eventuali danni (82). Il diritto dello sponsor tecnico di far indossare a tutti gli atleti i prodotti oggetto della fornitura riguarda anche gli indumenti eventualmente indossati sotto la maglia da gioco durante la competizione. Tali indumenti, infatti, devono recare, se i regolamenti federali non lo vietano, il marchio dello sponsor tecnico (83), così che sussiste un inadempimento della società se un atleta, ad esempio, durante l’esultanza per un gol si sfila la maglia da gioco, mostrando una sottomaglia recante il logo di un’azienda concorrente dello sponsor tecnico. Quali ulteriori prestazioni nell’ambito del contratto di sponsorizzazione tecnica, il club si impegna, generalmente, a rendere una serie di prestazioni promo-pubblicitarie in favore dello sponsor (come ad esempio, l’esposizione del marchio dello sponsor in occasione delle partite ufficiali, per un certo numero di minuti a partita sui cartelloni “rotor multiface” e/o su cartelli fissi; l’esposizione del marchio dello sponsor sui biglietti e gli abbonamenti, sul backdrop ufficiale nell’area delle interviste, sulla cartella stampa, nella pagina sponsor del sito internet ufficiale; una fornitura di biglietti; la possibilità di organizzare eventi con la partecipazione di alcuni giocatori della prima squadra, ecc.). Si consideri, infine, che, sulla base della sempre più rilevante importanza acquisita dagli accordi di sponsorizzazione tecnica, i regolamenti delle Federazioni sportive hanno previsto disposizioni specifiche al riguardo. Il fine è anche quello di salvaguardare la corretta immagine del movimento e dell’organizzazione sportiva di afferenza; in tal modo, siffatte disposizioni finiscono per avere notevole incidenza sul normale evolversi delle relazioni negoziali, rappresentando limiti non indifferenti all’autonomia negoziale delle parti (84). Così, ad esempio, con riguardo alla sponsorizzazione tecnica di squadre di calcio di serie A o B, il marchio dello sponsor tecnico (oltre che quello del main sponsor e degli eventuali sponsor secondari), deve essere apposto sulle maglie ed i pantaloncini indossati durante le partite ufficiali, nel rispetto del Regolamento delle divise da gioco emanato dalla Lega Nazionale Professionisti (85), nonché, sempre per quanto concerne la tenuta da gioco dei calciatori, nel rispetto dell’art. 72 delle Norme Organizzative Interne della F.I.G.C., con particolare riguardo al comma 4º (86). Più in generale, i prodotti tecnici destinati alle competizioni ufficiali, oltre al marchio della società sportiva ed a quello del main sponsor, possono riprodurre il marchio dello sponsor tecnico, nel rispetto delle dimensioni massime consentite dagli organismi sportivi, nazionali ed internazionali, aventi competenza di volta in volta sulla manifestazione (87). Si pone, però, il problema della vincolatività delle disposizioni emanate dagli organismi sportivi – come le Federazioni, nazionali od internazionali – oppure degli accordi assunti tra le società e la Lega di appartenenza, nei confronti di soggetti, quali gli sponsor, che sono estranei all’Ordinamento sportivo oppure che non sono parti di siffatti accordi. Generalmente, la questione è superata tramite l’inserimento nel regolamento contrattuale di clausole di rinvio ed accettazione con cui le parti, e quindi anche lo sponsor, richiamano ed accettano le disposizioni Federali oppure gli accordi di Lega riguardanti il contratto in questione. 5. (segue) Il diritto all’immagine del singolo atleta ed il personality merchandising Con il contratto di sponsorizzazione tecnica, lo sponsor, generalmente e salvo diverso accordo, acquisisce i diritti di riproduzione e diffusione dell’immagine del club (88), ma non acquisisce alcun diritto di sfruttamento pubblicitario o promozionale dell’immagine dei singoli tesserati della società. In altre parole, lo sponsor non può utilizzare l’immagine dei singoli tesserati, per iniziative pubblicitarie e promozionali a meno che esse non siano riconducibili alla squadra, nell’ambito dello svolgimento di gare, allenamenti ed altre attività sociali (89); è fatta salva, ovviamente, l’ipotesi in cui vi sia il consenso da parte dell’interessato oppure della società qualora a questa sia stato ceduto il diritto di immagine da parte del singolo. Allo stesso modo, in virtù del contratto di merchandising con la società, l’azienda non può utilizzare il nome o l’immagine del singolo sportivo, più o meno celebre, al fine di produrre e porre in commercio beni destinati ad essere contraddistinti dal nome o dall’immagine del singolo (cd. personality merchandising) (90). In questo modo, i singoli atleti hanno, eccetto l’ipotesi di diversi accordi in vigore con la società, piena ed autonoma libertà negoziale per la stipula sia di contratti promo-pubblicitari (91), sia di merchandising per lo sfruttamento commerciale del proprio nome od immagine (92); a quest’ultimo proposito, si evidenzia come il già esaminato comma 3º dell’art. 8 del Codice della Proprietà Industriale tuteli, se notorio, anche il nome di persona, riconoscendo all’avente diritto la possibilità di registrarlo e di usarlo come marchio, anche attraverso lo strumento del merchandising. Più in generale, viene in rilievo il diritto al nome ed all’immagine del singolo atleta che deve intendersi come diritto della persona celebre allo sfruttamento commerciale del proprio right of publicity (93). Con riguardo al diritto del singolo atleta di stipulare contratti promo-pubblicitari, è senza dubbio significativo il contenuto della Convenzione stipulata tra la Lega Nazionale Professionisti e l’Associazione Italiana Calciatori (A.I.C.) in data 23 luglio 1981 (94), relativa alla regolamentazione delle attività promozionali e pubblicitarie riguardanti le società calcistiche ed i calciatori loro tesserati (95). A tal proposito, si ribadisce che i calciatori hanno la facoltà di utilizzare in qualsiasi forma lecita e decorosa la propria immagine anche «a scopo di lucro, purché non associata a nomi, colori, maglie, simboli o contrassegni della Società di appartenenza o di altre Società» e purché non in occasione di attività ufficiale (art. 1 Convenzione) e pertanto riconducibile direttamente od indirettamente all’attività professionale svolta a favore del club in cui milita. Allo stesso modo, il calciatore ha la facoltà di concludere singolarmente contratti concernenti le scarpe da gioco da usare durante le gare e gli allenamenti (art. 6). Così facendo, può verificarsi la seguente situazione (peraltro alquanto diffusa) in cui un atleta, pur tesserato per una società che abbia come sponsor tecnico per l’abbigliamento da gara e da allenamento una determinata azienda, utilizzi legittimamente scarpe, durante le gare e gli allenamenti, recanti il logo di una azienda concorrente allo sponsor tecnico del club. Ugualmente non sussiste alcun inadempimento – fatti salvi eventuali diversi accordi – se il tesserato indossi, nell’attività extrasportiva come il tempo libero o nella pratica di sport non ricollegabile al club per cui è tesserato, abbigliamento di un’azienda concorrente allo sponsor tecnico della società di appartenenza. Anzi può accadere che l’atleta sia anche “testimonial” di un’azienda concorrente, purché l’immagine non sia associata a quella della società sportiva in cui l’atleta milita. A questo proposito, la Convenzione (agli artt. 10 e 11) si premura espressamente di prevenire e risolvere situazioni di contrasto o di incompatibilità tra i contratti di sponsorizzazione e/o di pubblicità stipulati dalla società e quelli sottoscritti dall’atleta. Nello specifico, si tende a risolvere i possibili contrasti, affidandosi prevalentemente alla reciproca buona fede ed al massimo spirito collaborativo, per comporre sul nascere ogni possibile contrasto concorrenziale, anche se una maggior tutela appare formalmente riservata ai contratti delle società in quanto involgenti interessi collettivi (art. 11). Si consideri, tuttavia, che quanto previsto dalla Convenzione è applicato con notevole elasticità, tenuto conto che essa è stata sottoscritta (1981) in un’epoca in cui lo sfruttamento commerciale dell’immagine dei calciatori professionisti nonché delle società era soltanto agli albori, senza che fossero immaginabili il rilievo economico e le punte di sviluppo attuali. In ogni caso, lo sponsor tecnico della squadra se non può disporre dell’immagine del singolo giocatore può, per fini pubblicitari, legittimamente utilizzare e riprodurre – in virtù degli accordi generalmente contenuti nel contratto di sponsorizzazione – l’immagine dei giocatori della società sponsorizzata, nei limiti in cui l’immagine riguardi un “gruppo” di giocatori della squadra e non pertanto il singolo atleta, nel contesto di gare, allenamenti od altre attività ufficiali (96). A tal fine, ad esempio, con riguardo ai calciatori della Nazionale, il vigente accordo tra F.I.G.C. e Associazione Italiana Calciatori, intende per «“immagine di un gruppo di calciatori della Nazionale” qualsiasi immagine che sia evocativa delle Squadre o che – a prescindere da ogni altro aspetto – raffiguri almeno quattro calciatori in azione di gioco o comunque nel contesto di una gara». La Convenzione del 23 luglio 1981, relativa alle attività promozionali e pubblicitarie riguardanti le Società calcistiche ed i calciatori loro tesserati, invece, definisce per fotografie di gruppo «le fotografie di squadra raffiguranti almeno undici dei suoi componenti». Si è già evidenziato, tuttavia, che tale Convenzione appare ormai inadeguata, alla luce del contesto attuale, relativo allo sfruttamento commerciale dell’immagine sia dei singoli atleti sia delle società. Appare più plausibile, pertanto, ritenere, al di là del mero dato numerico, che l’utilizzo della fotografia durante un’azione di gioco e l’utilizzo dell’immagine di più atleti in posa possa considerarsi legittimo, senza necessità del consenso dei singoli soggetti ritrattati, allorché l’immagine di “gruppo” utilizzata per fini pubblicitari dallo sponsor della società non induca i terzi nell’erroneo convincimento che siano uno o più atleti determinati e non la società, ad aver prestato il consenso all’utilizzo dell’immagine per fini pubblicitari e promozionali (97). 6. La tutela del marchio sportivo e l’ambush marketing È fortemente avvertita l’esigenza di tutelare il marchio sportivo contro eventuali contraffattori od imitatori. A tal fine, nei contratti di merchandising sono spesso previste clausole specifiche; così ad esempio, dopo la previsione generale che ciascun contraente è tenuto a fornire tempestiva comunicazione all’altra parte di ogni violazione commessa da terzi, sono generalmente regolamentate le modalità per intraprendere e coltivare le azioni a difesa del marchio. In particolare, si vuole disciplinare se dette azioni spettino autonomamente a ciascuna delle parti, oppure se debbano essere esercitate congiuntamente oppure se soltanto il merchandisee possa provvedere direttamente alla difesa del marchio licenziato (98). Dall’esigenza di tutelare il marchio concesso in licenza prende le mosse anche il progetto di legge, in tema di Disposizioni per la tutela dei segni distintivi delle società sportive, enti e federazioni, e per la disciplina della loro utilizzazione commerciale e delle sponsorizzazioni sportive, a cui si è fatto riferimento in precedenza. In particolare, esso nasce dalla constatazione sia di una carenza normativa idonea a contrastare, “con regole e con criteri precisi” l’attività di contraffazione dei marchi e dei prodotti sportivi nonché il fenomeno dell’ambush marketing, sia delle gravissime perdite in termini di fatturato che sono generate, nell’ordinamento sportivo, dal fenomeno della contraffazione dei marchi sportivi. Anche in ambito comunitario, è stata affermata l’esigenza di tutelare il marchio delle società sportive; in particolare, con la sentenza della Corte di Giustizia del 12 novembre 2002 NC/206/01, relativa al celebre club inglese dell’Arsenal, la Corte comunitaria si è pronunciata sulla tutelabilità del marchio Arsenal, appartenente all’omonimo club calcistico, nei confronti di un venditore di prodotti non ufficiali (nel caso di specie, sciarpe) riportanti il marchio del club, in un chiosco che comunque esponeva un cartello con l’avvertenza che gli articoli in vendita non erano ufficiali. In tale occasione, la Corte comunitaria ha affermato la tutelabilità del marchio in questione a nulla rilevando l’avvertenza sulla non provenienza dei prodotti dal club; nella motivazione, infatti, si è evidenziato che se i prodotti, dopo essere stati venduti nel luogo in cui appariva l’avvertenza, erano presentati a terzi, costoro potevano essere indotti ad interpretare il segno come indicante l’Arsenal quale impresa di provenienza dei prodotti. Tale importante precedente, pertanto, incentra la protezione del marchio sportivo esclusivamente attraverso il riferimento alla confondibilità sull’origine e sulla provenienza del prodotto, senza tenere in considerazione, comunque, che il marchio sportivo comunica non solo un messaggio sulla provenienza ma anche una componente suggestiva legata indubbiamente all’immagine mentale di cui il marchio è caricato; di conseguenza, consentire a soggetti non collegati con il titolare del marchio di mettere in commercio prodotti recanti segni che, pur in assenza di confusione, richiamano il messaggio connesso al marchio, sottrae un valore sia al titolare del marchio sia a coloro che hanno acquistato i prodotti originali, pagando il relativo corrispettivo (99). Si consideri, in proposito, che la tutela dei marchi che godono di rinomanza – ed i marchi delle società sportive sembra che senz’altro debbano essere classificati tra i marchi rinomati, proprio perché portatori di un messaggio ulteriore rispetto a quello distintivo (100) – si estende, pur in mancanza di un pericolo di confusione, anche all’ipotesi in cui l’uso non autorizzato di un segno uguale o simile ad essi «senza giusto motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca pregiudizio agli stessi» (art. 20, lett. c), cod. propr. ind.) (101). La ratio della protezione dei marchi che godono di rinomanza, infatti, è evidentemente quella di affiancare alla tradizionale funzione di indicazione di origine del marchio anche una tutela contro ogni forma di parassitismo (102). In tal modo, i segni distintivi dello sport che godano di rinomanza dovrebbero vantare una indubbia tutela contro ogni iniziativa commerciale diretta a sfruttare, in assenza di un legittimo consenso, il valore di mercato di detti segni, allorché il comportamento del terzo utilizzatore dia luogo ad un vantaggio di origine essenzialmente parassitario oppure comporti un pregiudizio per il titolare del segno (103). Nell’ambito della protezione del marchio sportivo e delle conseguenti azioni a tutela dello stesso – di cui si segnalano in sede civilistica in primis l’art. 124 c. propr. ind. ed in sede penale gli artt. 573 e 574 c.p. – merita di essere evidenziata la recente attenzione che viene prestata al fenomeno del cd. ambush marketing. Esso consiste sostanzialmente nel tentativo da parte di aziende che non sono sponsor o partner di un evento sportivo di utilizzare indirettamente la popolarità dell’evento e/o del marchio sportivo, senza investire in contratti di sponsorizzazione o di merchandising, distogliendo di conseguenza l’attenzione del pubblico dallo sponsor dell’evento o dai licenziatari del marchio (104). Così, ad esempio, può accadere che in occasione di un evento sportivo particolarmente importante, alcune aziende, pur non essendo sponsor della Federazione nazionale oppure di quella internazionale, sfruttino l’evento, utilizzando i colori ed i simboli nazionali, per lanciare sul mercato prodotti o per pubblicizzare loro servizi (105). Un recente e clamoroso caso di cd. ambush marketing, a livello internazionale, lesivo del diritto dello sponsor dell’evento, si è registrato nel corso dei recenti Mondiali di calcio in Sud Africa, quando una nota multinazionale di birra ha fatto entrare nello stadio appariscenti hostess – per questo oggetto di frequenti inquadrature televisive – che indossavano abiti recanti il logo della stessa azienda; in tal modo, si è ravvisata una evidente lesione dei diritti della multinazionale concorrente, che invece era sponsor ufficiale dell’evento e pertanto unico brand per quel genere merceologico, autorizzato a fare pubblicità negli stadi dove erano in corso i Mondiali (106). A questo proposito, è significativo come il legislatore italiano, in occasione dei Giochi Olimpici invernali di “Torino 2006” sia intervenuto per garantire la tutela del marchio Olimpico, con la l. 17 agosto 2005, n. 167, sancendo al comma 2º dell’art. 2, il divieto di «pubblicizzare, detenere per farne commercio, porre in vendita, o mettere altrimenti in circolazione prodotti o servizi utilizzando segni distintivi di qualsiasi genere atti ad indurre in inganno il consumatore sull’esistenza di una licenza, autorizzazione o altra forma di associazione tra il prodotto o il servizio e il CIO o i Giochi olimpici» ed al comma 3º sempre dell’art. 2, il divieto di «intraprendere attività di commercializzazione parassita (“ambush marketing”), intese quali attività parallele a quelle esercitate da enti economici o non economici, autorizzate dai soggetti organizzatori dell’evento sportivo, al fine di ricavarne un profitto economico». In tal modo, si è voluto approntare una tutela più forte per i titolari del marchio Olimpico e per i partner economici durante la manifestazione sportiva di Torino 2006. Si consideri, comunque, che anche in assenza di un provvedimento legislativo ad hoc, la tutela contro lo sfruttamento parassitario di un evento sportivo e/o del relativo marchio o segno dovrebbe essere garantita ugualmente, a seconda dei casi, non solo dalla disciplina attuale a protezione del marchio o degli altri segni distintivi ma anche da quella in tema di repressione della concorrenza sleale. È indubbio, infatti, che con il marketing parassitario i soggetti licenziatari del marchio o degli altri segni oppure gli sponsor dell’evento ricevano un duplice danno, poiché non solo un terzo utilizza lo stesso simbolo o si fregia della qualifica di sponsor ad un costo pressoché nullo, ma tale pratica riduce sensibilmente la qualità ed il valore economico dei diritti acquisiti con la stipula del contratto di merchandising o di sponsorizzazione (107). Per questa ragione, non vi dovrebbero essere perplessità circa la possibilità di invocare la tutela di cui all’art. 2598, n. 3, c.c., volto a sanzionare ogni forma di concorrenza parassitaria e come tale «non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda». 1() Al riguardo sono del tutto significativi i dati riportati nell’esauriente disamina effettuata da Teotino, Uva, La ripartenza, Bologna, 2010, p. 271, da cui emerge come le entrate da merchandising vedano la Serie A di calcio italiano all’ultimo posto da un raffronto con le altre maggiori Leghe europee calcistiche. 2() Proposta di legge d’iniziativa del deputato Lolli, presentata il 5 agosto 2008, in tema di «Disposizioni per la tutela dei segni distintivi delle società sportive, enti e federazioni, e per la disciplina della loro utilizzazione commerciale e delle sponsorizzazioni sportive». 3() Per ambush marketing si intende il tentativo effettuato da chi non è sponsor di un evento di sfruttarne la popolarità, utilizzandone i simboli in forma indiretta o implicita, senza investire in contratti di partnership. 4() Art. 1. (Tutela dei segni distintivi delle società sportive, degli enti sportivi e delle federazioni sportive):«1. Costituiscono segni distintivi di proprietà delle società sportive, degli enti sportivi, delle federazioni sportive e del Comitato olimpico nazionale italiano (CONI) i marchi, i loghi, le denominazioni, i simboli, i colori sociali e i trofei che contraddistinguono l’attività d’impresa di ciascuno dei predetti soggetti. Ai fini della presente legge, si intendono per attività d’impresa: le attività agonistico – sportive; le attività commerciali, connesse o non connesse a quelle agonistico-sportive; le attività di licenza d’uso dei predetti segni distintivi e di «merchandising», definito ai sensi del comma 4º. I segni distintivi, compresi quelli che non sono nuovi elencati nell’art. 12 del codice della proprietà industriale, di cui al d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, appartengono in via esclusiva, anche in deroga a quanto stabilito dal medesimo art. 12, a ciascuno dei soggetti di cui al primo periodo del presente comma anche qualora gli stessi segni non siano stati utilizzati dai citati soggetti fin dall’inizio della loro attività ma resi noti in conseguenza dell’attività stessa. 2. I segni distintivi di cui al comma 1º non possono costituire oggetto di registrazione come marchio da parte di soggetti diversi dalle società sportive, degli enti sportivi, delle federazioni sportive e del CONI cui rispettivamente appartengono, per qualsiasi classe di prodotti o di servizi, ad eccezione dei casi in cui siano oggetto di espressa richiesta e di autorizzazione scritta. 3. Il divieto di cui al comma 2º si applica anche ai segni distintivi che contengono, in qualsiasi lingua, parole o riferimenti diretti comunque a richiamare i segni distintivi di cui al comma 1º e i relativi eventi o che, per le loro caratteristiche oggettive, possano indicare un collegamento con l’organizzazione o con lo svolgimento delle manifestazioni sportive organizzate dalle società sportive, dagli enti sportivi, dalle federazioni sportive o dal CONI. 4. Ai fini della presente legge, con il termine «merchandising» si fa riferimento alle tecniche di sfruttamento economico dei segni distintivi di una società sportiva, di un ente sportivo, di una federazione sportiva o del CONI, nel commercio di prodotti o di servizi ai quali i predetti segni distintivi sono abbinati, accostati o collegati. Il contratto di merchandising è l’accordo con il quale il titolare di un marchio o di un altro diritto esclusivo concede la facoltà di uso del marchio stesso a un altro soggetto per apporlo su prodotti o per abbinarlo a servizi di natura diversa da quelli per i quali lo stesso marchio o un altro diritto esclusivo è stato realizzato e registrato in precedenza. 5. Le registrazioni effettuate in violazione del presente articolo sono nulle a tutti gli effetti di legge». 5() Al riguardo, De Silvestri, Le operazioni di sponsorizzazione e il merchandising delle società calcistiche, in Riv. dir. sport., 1983, p. 137; De Giorgi, Sponsorizzazione e mecenatismo, Padova, 1988, p. 170; Ricolfi, Il contratto di merchandising nel diritto dei segni distintivi, Milano, 1991, p. 56; Cantamessa, Merchandising, sponsorizzazioni e diritti di immagine, in Lineamenti di diritto sportivo, a cura di Cantamessa, Riccio, Sciacalepore, Milano, 2008, p. 509. 6() De Silvestri, Le operazioni di sponsorizzazione e il merchandising delle società calcistiche, cit., p. 137. 7() Liotta, Santoro, Lezioni di diritto sportivo, Milano, 2009, p. 168. 8() Al riguardo, si veda p. 85 del Prospetto informativo di offerta in opzione ai soci e ammissione a quotazione di azioni ordinarie Juventus Football Club s.p.a., del 24 maggio 2007, pubblicato, in http://www.consob.it. 9() Sul merchandising quale contratto socialmente tipizzato, si veda Delli Priscoli, Il merchandising tra franchising e sponsorizzazione, in Giur. comm., 2004, 1, p. 1103, nota 1. 10() Frignani, I problemi giuridici del merchandising, in Riv. dir. ind., 1988, p. 34; Galgano, Il marchio nei sistemi produttivi integrati: sub-forniture, gruppi di società, licenze, merchandising, in questa rivista, 1987, p. 188; Ricolfi, Il contratto di merchandising, in Dir. ind., 1999, p. 41;Id., Il contratto di merchandising nel diritto dei segni distintivi, Milano, 1991, p. 34; Auteri, I nomi e i segni distintivi notori delle manifestazioni e degli enti sportivi fra la protezione del nome e quella del marchio, in Nuova giur. civ., 1995, I, p. 103; Marasà, voce Merchandising, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1993, p. 1; Delli Priscoli, Il merchandising tra franchising e sponsorizzazione, cit., p. 1103. 11() Art. 1, comma 4º: «ai fini della presente legge, con il termine «merchandising» si fa riferimento alle tecniche di sfruttamento economico dei segni distintivi di una società sportiva, di un ente sportivo, di una federazione sportiva o del CONI, nel commercio di prodotti o di servizi ai quali i predetti segni distintivi sono abbinati, accostati o collegati. Il contratto di merchandising è l’accordo con il quale il titolare di un marchio o di un altro diritto esclusivo concede la facoltà di uso del marchio stesso a un altro soggetto per apporlo su prodotti o per abbinarlo a servizi di natura diversa da quelli per i quali lo stesso marchio o un altro diritto esclusivo è stato realizzato e registrato in precedenza». 12() Gatti, Il merchandising e la sua disciplina giuridica, in Riv. dir. comm., 1989, p. 122. 13() Musumarra, La disciplina dei contratti di sponsorizzazione e di merchandising nello sport, in Diritto dello sport, a cura di Coccia, De Silvestri, Forlenza, Fumagalli, Musumarra, Selli, Firenze, 2008, p. 327; Marasà, voce Merchandising, cit., p. 3. 14() In caso di diritto d’autore, si fa riferimento al character merchandising, mentre nel caso di nomi e ritratti si suole far riferimento al cd. personality merchandising; sul punto, Ricolfi, Il contratto di merchandising, cit., p. 41; Marasà, voce Merchandising, cit., p. 1. Su un caso di merchandising riguardante l’effige di un noto calciatore, si segnala Cass., 10 novembre 1979, n. 5790; al riguardo, le considerazioni di Frignani, Dassi, Introvigne, Sponsorizzazione, Merchandising, Pubblicità, cit., p. 132. 15() Ricolfi, Il contratto di merchandising, cit., p. 41; Di Cataldo, I contratti di merchandising nella nuova legge marchi, in La riforma della legge marchi, a cura di Ghidini, Padova, 1995, p. 74; Marasà, voce Merchandising, cit., p. 1. 16() Musumarra, La disciplina dei contratti di sponsorizzazione e di merchandising nello sport, cit., p. 327. 17() Sulla funzione di indicazione di provenienza, dove il concetto rinvia al collegamento tra marchio ed impresa, si veda esaustivamente Zorzi, Il marchio come valore di scambio, Padova, 1995, p. 90; al riguardo anche Auteri, Lo sfruttamento del valore suggestivo dei marchi d’impresa mediante merchandising, in questa rivista, 1989, p. 513; De Silvestri, Le operazioni di sponsorizzazione e il merchandising delle società calcistiche, cit., p. 142; Frignani, I problemi giuridici del merchandising, cit., p. 39. 18() Ricolfi, Il contratto di merchandising, cit., p. 41. 19() Ricolfi, Il contratto di merchandising, cit., p. 41. 20() Lo evidenzia Frignani, I problemi giuridici del merchandising, cit., p. 37; Frignani, Dassi, Introvigne, Sponsorizzazione, Merchandising, Pubblicità, cit., p. 137; Auteri, Lo sfruttamento del valore suggestivo dei marchi d’impresa mediante merchandising, in questa rivista, 1989, p. 525. 21() Frignani, Dassi, Introvigne, Sponsorizzazione, Merchandising, Pubblicità, cit., p. 137. 22() Ricolfi, Il contratto di merchandising, cit., p. 41; Di Cataldo, I contratti di merchandising nella nuova legge marchi, in La riforma della legge marchi, a cura di Ghidini, Padova, 1995, p. 68; parte della dottrina (Galgano, Il marchio nei sistemi produttivi integrati: sub-forniture, gruppi di società, licenze, merchandising, in questa rivista, 1987, p. 190; Id., Diritto civile e commerciale, 3.1, Padova, 1990, p. 181), comunque, riteneva perfettamente ammissibile il contratto di merchandising, tenuto conto dei controlli di qualità riservati al licenziante ed il divieto per il licenziatario di apporre il marchio del primo su prodotti che non avessero superato positivamente il controllo. 23() Art. 15: «Il marchio non può essere trasferito se non in dipendenza del trasferimento dell’azienda, o di un ramo particolare di questa, a condizione, inoltre, che il trasferimento del marchio stesso avvenga per l’uso di esso a titolo esclusivo. In ogni caso, dal trasferimento del marchio non deve derivare inganno in quei caratteri dei prodotti o merci che sono essenziali nell’apprezzamento del pubblico». 24() Il comma 1º dell’art. 2573 c.c., prima della modifica operata dall’art. 83 d.lgs. 4 dicembre 1992, n. 480, disponeva che «Il diritto esclusivo all’uso del marchio registrato può essere trasferito soltanto con l’azienda o con un ramo particolare di questa». 25() Sul punto, Frignani, Dassi, Introvigne, Sponsorizzazione, Merchandising, Pubblicità, cit., p. 140; Frignani, I problemi giuridici del merchandising, cit., p. 39; Mosso, Legittimazione alla registrazione del marchio e contratto di merchandising, in Riv. dir. sport., 1992, p. 105. Sui problemi circa l’ammissibilità dei contratti di merchandising, anteriormente alla riforma del 1992, si segnala anche Mayr, in Codice della proprietà industriale, estratto da Ubertazzi, Padova, 2009, p. 100. 26() Auteri, Lo sfruttamento del valore suggestivo dei marchi d’impresa mediante merchandising, cit., p. 516. 27() Lo sottolinea Frignani, Dassi, Introvigne, Sponsorizzazione, Merchandising, Pubblicità, cit., p. 140. 28() Sul punto si segnala Magni, Merchandising e sponsorizzazione, Padova, 2002, p. 36. 29() Al riguardo, Galgano, Il marchio nei sistemi produttivi integrati: sub-forniture, gruppi di società, licenze, merchandising, cit., p. 190; Frignani, I problemi giuridici del merchandising, cit., p. 42; Ricolfi, Il contratto di merchandising nel diritto dei segni distintivi, cit., p. 491. Sul punto anche Auteri, Territorialità del diritto di marchio e circolazione di prodotto «originali», Milano, 1973, p. 316. 30() In proposito, si veda l’evoluzione giurisprudenziale verso la legittimazione della pratica del merchandising, riportata in Auteri, Lo sfruttamento del valore suggestivo dei marchi d’impresa mediante merchandising, cit., p. 520; Galgano, Il marchio nei sistemi produttivi integrati: sub-forniture, gruppi di società, licenze, merchandising, cit., p. 178; Frignani, Dassi, Introvigne, Sponsorizzazione, Merchandising, Pubblicità, cit., p. 140. 31() Ricolfi, Il contratto di merchandising, cit., p. 41; Di Cataldo, I contratti di merchandising nella nuova legge marchi, cit., p. 69; Marasà, voce Merchandising, cit., p. 4. 32() Cantamessa, Merchandising, sponsorizzazioni e diritti di immagine, cit., p. 504. 33() Di Cataldo, I contratti di merchandising nella nuova legge marchi, cit., p. 70. 34() Ricolfi, Il contratto di merchandising, cit., p. 41. 35() Marasà, La circolazione del marchio, in Riv. dir. civ., 1996, II, p. 493; Id., voce Merchandising, cit., p. 4. 36() Mayr, in Codice della proprietà industriale, estratto da Ubertazzi, Padova, 2009, p. 97; Cavani, Commento generale alla riforma, in La riforma della legge marchi, a cura di Ghidini, Padova, 1995, p. 8; Di Cataldo, I contratti di merchandising nella nuova legge marchi, cit., p. 68; Ricolfi, Il contratto di merchandising, cit., il quale rileva come la riforma del diritto dei marchi abbia incrementato la sicurezza dei contratti di merchandising aventi per oggetto un marchio ed abbia portato ad una parificazione del trattamento di questi accordi con quello degli accordi concernenti opere dell’ingegno, nomi e immagine. Per il character ed il personality merchandising, non si poteva, infatti, mettere in discussione la validità dell’operazione, atteso che il nostro ordinamento sicuramente attribuisce una specifica protezione a ciascuna delle entità corrispondenti (e v. artt. 7-9 e 19 c.c.; 12 l. autore). 37() Mayr, in Codice della proprietà industriale, cit., p. 96; al riguardo anche Di Cataldo, I contratti di merchandising nella nuova legge marchi, cit., p. 70. 38() Marasà, La circolazione del marchio, cit., p. 493. 39() In questi termini, Marasà, La circolazione del marchio, cit., p. 479; Id., voce Merchandising, cit., p. 4. 40() Prima della riforma, infatti, la legittimità del contratto di merchandising era giustificata sulla base dei controlli di qualità riservati al licenziante e con il divieto per il licenziatario di apporre il marchio del primo su prodotti che non avessero superato positivamente il controllo (Galgano, Il marchio nei sistemi produttivi integrati: sub-forniture, gruppi di società, licenze, merchandising, cit., p. 190; Id., Diritto civile e commerciale, cit., p. 181.) 41() Sulla ratio di tale disposizione, Auteri, Cessione e licenza di marchio, in La riforma della legge marchi, a cura di Ghidini, Padova, 1995, p. 97. 42() Franzosi, in Il codice della proprietà industriale, a cura di Scuffi, Franzosi, Fittante, Padova, 2005, p. 167; Vanzetti, La nuova legge marchi, Milano, 1993, p. 66; Vanzetti, Di Cataldo, Manuale di diritto industriale, Milano, 2009, p. 258. 43() Di Cataldo, I contratti di merchandising nella nuova legge marchi, cit., p. 71; Ricolfi, Il contratto di merchandising, cit. 44() Magni, Merchandising e sponsorizzazione, cit., p. 45; Vanzetti, La nuova legge marchi, cit., p. 103. 45() In questo senso già Galgano, Il marchio nei sistemi produttivi integrati: sub-forniture, gruppi di società, licenze, merchandising, cit., p. 178. 46() Al riguardo, Cantamessa, Merchandising, sponsorizzazioni e diritti di immagine, cit., p. 509; De Silvestri, Le operazioni di sponsorizzazione e il merchandising delle società calcistiche, cit., p. 137; De Giorgi, Sponsorizzazione e mecenatismo, cit., p. 170. 47() Sul punto anche De Giorgi, Sponsorizzazione e mecenatismo, cit., p. 170. 48() De Silvestri, Le operazioni di sponsorizzazione e il merchandising delle società calcistiche, cit., p. 144. 49() Al riguardo, l’art. 10 della l. 23 marzo 1981, n. 91, in tema di rapporti tra società e sportivi professionisti nel prevedere che «possono stipulare contratti con atleti professionisti solo società sportive costituite nella forma di s.p.a o di s.r.l.», disponeva al comma 2º che «L’atto costitutivo deve prevedere che gli utili siano interamente reinvestiti nella società per il perseguimento esclusivo dell’attività sportiva». A seguito della modifica di cui all’art. 4, comma 1º, del d.l. 20 settembre 1996, n. 485, il comma 3º dell’art. 10 della l. 23 marzo 1981, n. 91, dispone che «L’atto costitutivo deve provvedere che una quota parte degli utili, non inferiore al 10 per cento, sia destinata a scuole giovanili di addestramento e formazione tecnico-sportiva». 50() Rossotto, Santoni De Sio, Sindico, I marchi nel pallone, in Dir. ind., 1999, p. 324. 51() Galli, Estensione e limiti dell’esclusiva sui nomi e sui segni distintivi dello sport tra merchandising e free-riders, in AIDA, 2003, p. 234; M.Bianca, I contratti di sponsorizzazione, cit., p. 178; De Silvestri, Le operazioni di sponsorizzazione e il merchandising delle società calcistiche, cit., p. 137; Cantamessa, Merchandising, sponsorizzazioni e diritti di immagine, cit., p. 496. 52() Vanzetti, Relazione di sintesi, in Aida, 1993, p. 142. 53() Frignani, Dassi, Introvigne, Sponsorizzazione, Merchandising, Pubblicità, cit., p. 138. 54() De Silvestri, Le operazioni di sponsorizzazione e il merchandising delle società calcistiche, cit., p. 137. 55() De Silvestri, Le operazioni di sponsorizzazione e il merchandising delle società calcistiche, cit., p. 152; De Giorgi, Sponsorizzazione e mecenatismo, cit., p. 171. Sulla tutela dell’emblema sulla base del diritto d’autore, si segnala anche Auteri, I nomi e i segni distintivi notori delle manifestazioni e degli enti sportivi fra la protezione del nome e quella del marchio, in Nuova giur. civ., 1995, I, p. 111. In senso critico, Ricolfi, I segni distintivi dello sport, in AIDA, 1993, p. 137. 56() De Giorgi, Sponsorizzazione e mecenatismo, cit., p. 173; M. Bianca, I contratti di sponsorizzazione, cit., p. 179; Auteri, I nomi e i segni distintivi notori delle manifestazioni e degli enti sportivi fra la protezione del nome e quella del marchio, in Nuova giur. civ., 1995, I, p. 104. 57() De Silvestri, Le operazioni di sponsorizzazione e il merchandising delle società calcistiche, cit., p. 156. 58() Delli Priscoli, Il merchandising tra franchising e sponsorizzazione, cit., p. 1103. 59() Al riguardo, Galli, Estensione e limiti dell’esclusiva sui nomi e sui segni distintivi dello sport tra merchandising e free-riders, cit., p. 247; su tale disposizione, tra gli altri, Borghese, in Il codice della proprietà industriale, a cura di Scuffi, Franzosi, Fittante, Padova, 2005, p. 111; Mayr, in Codice della proprietà industriale, estratto da Ubertazzi, Padova, 2009, p. 30. 60() Si segnala la modifica introdotta dall’art. 6, comma 2º, del d. lgs. 13 agosto 2010, n. 131. 61() Trib. Modena, 26 giugno 1994, in Nuova giur. civ., 1995, I, p. 99. 62() Vanzetti, Di Cataldo, Manuale di diritto industriale, Milano, 2009, p. 209; Vanzetti, La nuova legge marchi, Milano, 1993, p. 103; Ammendola, Lo sfruttamento commerciale della notorietà civile di nomi e segni, Milano, 2004, p. 33; Sironi, Considerazioni in tema di marchi olimpici e di segni distintivi dello sport, in AIDA, 2007, p. 773; Galli, Estensione e limiti dell’esclusiva sui nomi e sui segni distintivi dello sport tra merchandising e free-riders, cit., p. 247. 63() Galli, Segni distintivi e industria culturale, in AIDA, 2003, p. 482, il quale fa espresso riferimento al precedente di App. Venezia, 17 giugno 2002, in Giur. dir. ind., 2002, n. 4446, la quale pur non applicando l’art. 22 l.m., come modificato nel 1992, in quanto non ancora in vigore al momento dei fatti, ha comunque ritenuto che il principio espressamente codificato da esso, dovesse ritenersi operante. Sulla tutela anticipata, predisposta dalla disposizione, rispetto al momento di sfruttamento commerciale, si segnala anche Fazzini, Profili della tutela della funzione suggestiva del marchio nella nuova legge (in margine a due sentenze sul marchio di società calcistiche), in Riv. dir. ind., 1995, II, p. 160; Ricolfi, I segni distintivi dello sport, cit., p. 123. 64() Ammendola, Lo sfruttamento commerciale della notorietà civile di nomi e segni, cit., p. 18. Al riguardo, Galli, Estensione e limiti dell’esclusiva sui nomi e sui segni distintivi dello sport tra merchandising e free-riders, cit., p. 248, sottolinea come la tutela dovrebbe estendersi anche alle ipotesi in cui il segno venga usato da un terzo in funzione non solo distintiva dei prodotti o servizi per cui è usato, bensì anche per rendere questi prodotti o servizi più attraenti agli occhi del pubblico e, nel caso di specie, di quella parte del pubblico che apprezza il segno come simbolo non commerciale ma sportivo. 65() Vanzetti, La nuova legge marchi, cit., p. 103; Vanzetti, Di Cataldo, Manuale di diritto industriale, cit., p. 214. 66() Cortesi, Marchio commerciale e società di calcio: idiosincrasia e mal celata passione, in Riv. dir. econ. sport, 2006, p. 63. 67()Liotta, Santoro, Lezioni di diritto sportivo, cit., p. 169; Maugeri, Considerazioni in tema di illecito confusorio delle società sportive, in AIDA, 2007, p. 851. 68() Cortesi, Marchio commerciale e società di calcio: idiosincrasia e mal celata passione, cit., p. 63. 69() Liotta, Santoro, Lezioni di diritto sportivo, cit., p. 170; Cortesi, Marchio commerciale e società di calcio: idiosincrasia e mal celata passione, cit., p. 65; Maugeri, Considerazioni in tema di illecito confusorio delle società sportive, in AIDA, 2007, p. 854; sui marchi di colore, Sciacca, Note in tema di marchio di forma e di colore, in Giur. it., 2008, f. 11, p. 2492; Maugeri, Considerazioni in tema di illecito confusorio delle società sportive, in AIDA, 2007, p. 842; Morri, La rappresentazione grafica del marchio nelle decisioni dell’UAMI e degli organi giurisdizionali comunitari, in Riv. dir. ind., 2006, f. 6, 1, p. 252; Toni, Brevi note in tema di novità e capacità distintiva del marchio di forma, in Giur. comm., 2005, II, p. 605; Biglia, Il marchio di forma nella giurisprudenza della Corte di Giustizia Ce, in Riv. dir. ind., 2004, II, p. 399; Fabrizio-Salvatore, Sul marchio di forma e sull’imitazione servile della forma del prodotto, in Foro it., 2000, I, c. 3298. 70() Delli Priscoli, Il merchandising tra franchising e sponsorizzazione, in Giur. comm., 2004, 1, p. 1108, il quale tuttavia ritiene non incompatibile con la struttura della sponsorizzazione il fatto che sia lo sponsorizzato a pagare un corrispettivo allo sponsorizzante. Al riguardo, anche Ricolfi, Il contratto di merchandising nel diritto dei segni distintivi, cit., p. 425, il quale evidenzia come nella sponsorizzazione lo sponsee assuma obblighi positivi di facere ed in particolare obblighi aventi ad oggetto forme di veicolazione del marchio e/o nome dello sponsor, al fine di favorire la divulgazione del messaggio promozionale. Nel merchandising il titolare del marchio oppure con riguardo al personality merchandising il personaggio celebre non è obbligato a modificare in alcun modo il proprio comportamento dovendo solo acconsentire l’utilizzo del proprio marchio o di altro segno distintivo sui prodotti realizzati dalla controparte contrattuale. 71() Per sponsorizzazione tecnica si intende il contratto nel quale l’azienda sponsor si obbliga a fornire allo sponsee una serie di beni o di servizi, strumentali all’attività da questo svolta (Amato, voce Sponsorizzazione, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1993, p. 4; sui vari tipi di sponsorizzazione riscontrabili nella casistica, M. Bianca, I contratti di sponsorizzazione, Rimini, 1990, p. 65; De Silvestri, Le operazioni di sponsorizzazione e il merchandising delle società calcistiche, cit., p. 120; Franceschelli, I contratti di sponsorizzazione, in Giur. comm., 1987, I, p. 295). 72() Sul professionismo sportivo, si veda l’art. 2 della l. 23 marzo 1981, n. 91. 73() Al riguardo, sono rilevanti i dati riportati in Teotino, Uva, La ripartenza, Bologna, 2010, p. 27, relativi al merchandising del Real Madrid nel primo mese dopo l’ingaggio dei giocatori Kakà e Cristiano Ronaldo; in particolare, sono state vendute maglie di tali giocatori, per un ammontare di circa 48 milioni di euro. 74() In proposito, sono significativi i dati della Juventus, di cui al Prospetto informativo di offerta in opzione ai soci e ammissione a quotazione di azioni ordinarie Juventus Football Club s.p.a., cit., p. 72; in particolare, si evince che il corrispettivo minimo complessivo previsto dal contratto stipulato nel novembre 2001 con lo sponsor tecnico dell’abbigliamento, per i dodici anni del rapporto è pari a euro 157,3 milioni. A tale somma, inoltre, debbono aggiungersi le forniture annuali di materiale tecnico nonché le royalties annue sulle vendite. 75() Sui contratti collegati, tra gli altri, Carusi, La disciplina della causa, in I contratti in generale, a cura di Gabrielli, I, Torino, 2006, p. 640; Scognamiglio, Causa e motivi del contratto, in Tratt. del contratto, diretto da Roppo, II, Regolamento, a cura di Vettori, Milano, 2006, p. 184; Ferrando, I contratti collegati: principi della tradizione e tendenze innovative, in questa rivista, 2000, p. 127; Sangermano, La dicotomia contratti misti-contratti collegati: tra elasticità del tipo ed atipicità del contratto, in Riv. dir. comm., 1996, II, p. 551; Castiglia, Negozi collegati in funzione di scambio (su alcuni problemi del collegamento negoziale e della forma giuridica delle operazioni economiche di scambio), in Riv. dir. civ., 1979, p. 397; Orlando Cascio-Argiroffi, voce Contratti misti e contratti collegati, in Enc. giur. Treccani, IX, Roma, 1988. 76() Su un caso in cui lo sponsor tecnico di una squadra di calcio, che aveva il diritto di commercializzare in esclusiva i prodotti di abbigliamento contraddistinti dai segni distintivi della squadra di calcio, ha ottenuto il risarcimento del danno da un’azienda che aveva prodotto, fatto produrre e messo in vendita magliette di calcio recanti il nome ed il marchio registrato della squadra, si segnala Cass., 2 luglio 2007, n. 14967. 77() Galli, Estensione e limiti dell’esclusiva sui nomi e sui segni distintivi dello sport tra merchandising e free-riders, in AIDA, 2003, p. 232. 78() Così, Cass., 29 maggio 2006, n. 12801, in Resp. civ., 2007, p. 554, relativa alla fornitura di biciclette da corsa ad una squadra ciclistica. Nello stesso senso anche Lodo Arbitrale, 15 febbraio 1991, in Riv. arbitrato, 1992, p. 131, con nota di M. Bianca, Sponsorizzazione tecnica e inadempimento contrattuale. In senso diverso, a favore della liberalità d’uso, ex art. 770 c.c., nell’ambito della sponsorizzazione tecnica, si veda Inzitari, Sponsorizzazione, cit., p. 254; in senso critico, Giacobbe, Atipicità del contratto e sponsorizzazione, cit., p. 414. 79() Possono esservi comunque anche modalità differenti di corresponsione, come ad esempio una percentuale di royalty in maniera crescente al raggiungimento di determinate soglie di fatturato; oppure può essere concordata una royalty forfetaria fissa (flat fee), che prescinde dai volumi di vendita. Sul punto, Colantuoni, Merchandising, in I contratti, 2006, p. 827. 80() È fatto salvo generalmente il diritto per gli allenatori e lo staff medico e dirigenziale di non utilizzare l’abbigliamento tecnico durante le competizioni. 81() Vidiri, Il contratto di sponsorizzazione: natura e disciplina, cit., p. 19. 82() Si segnala, Lodo Arbitrale, 15 febbraio 1991, cit. 83() Al riguardo, l’art. 72, comma 4º, bis, delle Norme Organizzative Interne della F.I.G.C. prevede che: «L’indumento eventualmente indossato sotto la maglia di giuoco potrà recare esclusivamente il marchio dello sponsor tecnico di dimensioni non superiori alle misure regolamentari. 84() Briante, Savorani, Il fenomeno «sponsorizzazione» nella dottrina, nella giurisprudenza e nella contrattualistica, cit., p. 645; Cantamessa, Merchandising, sponsorizzazioni e diritti di immagine, cit., p. 521. Sul punto già, De Silvestri, Le operazioni di sponsorizzazione e il merchandising delle società calcistiche, cit., p. 116. 85() Al riguardo, si veda il Comunicato Ufficiale, n. 16 del 6 agosto 2008, «Regolamento delle divise da gioco», con particolare riguardo agli artt. 6 e 7. In particolare, l’art. 6, Pubblicità dello sponsor, prevede che: «1. Si intende per sponsor il nome, il marchio, il logo, il prodotto e/o il servizio di un’azienda. 2. È vietato recare pubblicità a categorie di prodotti per i quali esista esplicito divieto di legge, nonché slogan di natura politica, confessionale o razziale, o di cause che offendono il comune senso della decenza. 3. La pubblicità dello sponsor è consentita solo sul davanti della maglia e la superficie totale occupata dalla stessa non deve superare i 250 cm². La pubblicità dello sponsor non è consentita sulle maniche, sul retro e sul colletto della maglia da gioco. 4. Lo spazio di 250 cm² può essere utilizzato da un numero massimo di 2 sponsor per gara. Lo spazio in questione può essere, nel rispetto del comma precedente, non contiguo. 5. Le Società hanno la facoltà di utilizzare sponsor diversi per ogni gara. Le divise ufficiali da gioco devono in ogni caso essere depositate e approvate dalla LNP secondo quanto previsto dal successivo art. 10. 6. La pubblicità dello sponsor non è consentita sui pantaloncini, sui calzettoni e all’interno dei numeri. Esclusivamente per le società partecipanti al Campionato di Serie B TIM, a titolo sperimentale per le stagioni sportive 2008/2009 e 2009/2010, è consentita la pubblicità dello sponsor anche sui pantaloncini. La pubblicità dello sponsor è consentita solo sul davanti dei pantaloncini e la superficie occupata dalla stessa non deve superare i 40 cm². Lo spazio di 40 cm² deve essere utilizzato da un unico sponsor. 7. Il criterio per la misurazione della pubblicità è il seguente: si misurano – vuoto per pieno – le singole unità di cui si compone il marchio, intendendo per «unità»: nel caso di scritte, ogni singola parola; nel caso di loghi, l’intera superficie dell’elaborazione grafica costituente il logo. Si considera superficie di ogni singola unità (parola o logo) la forma geometrica piana regolare nella quale l’unità può essere inscritta». L’art. 7, Pubblicità del fornitore dell’abbigliamento sportivo, prevede che: «1. Sulle divise da gioco può essere apposto il marchio del fornitore dell’abbigliamento sportivo. 2. Il fornitore dell’abbigliamento sportivo non è necessariamente il produttore dello stesso. 3. Il fornitore dell’abbigliamento sportivo può apporre sulle divise da gioco il proprio marchio o nome nel rispetto delle seguenti norme:…». 86() L’Art. 72 (Tenuta di giuoco dei calciatori) delle Norme Organizzative Interne della F.I.G.C. è consultabile, in http://www.figc.it/. 87() Per l’abbigliamento non regolamentato (come ad es. quello riguardante l’allenamento), invece, la collocazione e la dimensione dei rispettivi marchi sarà disposta in conformità agli accordi assunti dalle parti. 88() Su un caso di utilizzo non autorizzato dell’immagine della società e di un atleta, Pret. Roma, 24 dicembre 1981, in Foro it., 1982, I, c. 565, secondo la quale «va inibita, con provvedimento cautelare d’urgenza, la diffusione – non autorizzata dagli aventi diritto – di un poster bifacciale recante, su un lato, la fotografia di una squadra calcistica (A.S. Roma) e, sull’altro, l’immagine, con firma e dedica, di un suo prestigioso giocatore (Paulo Roberto Falcao)». Di recente, si segnala il caso singolare esaminato da Cass., 11 agosto 2009, n. 18218, in Red. in Mass. Giust. civ., 2009, p. 7-8, relativa ad un caso del tutto particolare, in cui la S.C. ha affermato la tutela dell’immagine e della denominazione di un’imbarcazione che svolgeva competizioni agonistiche; nel caso di specie un’azienda senza il consenso dell’avente diritto e senza pagare il corrispettivo dovuto, aveva indebitamente riprodotto nel proprio calendario l’immagine e la denominazione dell’imbarcazione, usata anche come elemento di richiamo nell’ambito di campagne pubblicitarie o di sponsorizzazione, inserendo nella vela il proprio marchio. 89() I doveri promo pubblicitari dei giocatori di calcio nei confronti della Società, sono individuati nell’art. 8 della Convenzione per la regolamentazione degli accordi concernenti attività promozionali e pubblicitarie che interessino le società calcistiche professionistiche ed i calciatori ed i loro tesserati, del 23 luglio 1981, stipulata tra l’Associazione Italiana Calciatori e la Lega Nazionale; successive modifiche ed integrazioni sono state apportate in data 27 luglio 1984. 90() Sul cd. personality merchandising, tra gli altri, Ricolfi, I segni distintivi dello sport, in AIDA, 1993, p. 116; Id., Il contratto di merchandising nel diritto dei segni distintivi, cit., 434; Di Cataldo, I contratti di merchandising nella nuova legge marchi, cit., p. 74. 91() Di recente, al riguardo, Colantuoni, Novazio, Il contratto di cessione di immagine in ambito sportivo, in Contratti, 2010, p. 204. 92() Sulla differenza tra le operazioni di sponsorizzazione e di personality merchandising del singolo atleta, si veda Ricolfi, Il contratto di merchandising nel diritto dei segni distintivi, cit., p. 426. 93() Per questa ragione la notorietà della persona non è in grado da sola di giustificare, ex art. 97 l. 22 aprile 1941, n. 633, il libero utilizzo dell’immagine, essendo necessario anche un fine informativo (Cass., 10 giugno 1997, n. 5175, in Foro it., 1997, c. 2920). Si è, infatti, ben evidenziato che: «la divulgazione del ritratto di persona notoria è lecita non per il fatto in sé che la persona ritratta possa dirsi notoria ma se ed in quanto risponda ad esigenze di pubblica informazione, sia pure in senso lato; quando cioè esclusiva ragione della diffusione sia quella di far conoscere al pubblico le fattezze della persona in questione e di documentare visivamente le notizie che di questa persona vengono date al pubblico. Quando, al contrario, la divulgazione del ritratto avvenga per altro scopo che non sia quello legittimo di soddisfare l’esigenza pubblica di informazione, allora essa non è più una giustificazione, ma il fatto che induce ad una divulgazione che porta vantaggi, spesso a contenuto patrimoniale, a colui che la divulgazione esegue» (Cass., 2 maggio 1991, n. 4785, in Dir. informaz. informat., 1991, p. 837). Su un caso di illecito utilizzo dell’immagine di un calciatore in assenza del consenso dell’interessato, si segnala Trib. Tortona, 24 novembre 2003, in Danno e resp., 2004, p. 533, con nota di Pardolesi, Il cigno rossonero: illecito sfruttamento e dilution dell’immagine. 94() Successive modifiche ed integrazioni sono state apportate in data 27 luglio 1984. 95() Su tale convenzione anche De Giorgi, Sponsorizzazione e mecenatismo, cit., p. 166. 96() Al riguardo, si segnala Pret. Roma, 31 maggio 1983, in Giust. civ., 1984, I, p. 308, secondo la quale «Per effetto di convenzione intercorsa tra la lega nazionale calcio e l’associazione italiana calciatori, compete alla società sportiva – senza necessità del consenso dei singoli calciatori – il diritto di utilizzare (direttamente o mediante cessione al cd. sponsor) le fotografie di gruppo della squadra stampate sul cd. poster ufficiale, purché si tratti di un’utilizzazione pubblicitaria e/o promozionale dell’attività economica imprenditoriale svolta dalla società nel campo dello spettacolo sportivo». 97() Sul punto Cantamessa, Merchandising, sponsorizzazioni e diritti di immagine, cit., p. 527. 98() Sul profilo della legittimazione all’azione, si veda anche Vanzetti, Di Cataldo, Manuale di diritto industriale, cit., p. 543. 99() Galli, Estensione e limiti dell’esclusiva sui nomi e sui segni distintivi dello sport tra merchandising e free-riders, cit., p. 242. Al riguardo, anche Vanzetti, Di Cataldo, Manuale di diritto industriale, cit., p. 156. 100() Galli, Estensione e limiti dell’esclusiva sui nomi e sui segni distintivi dello sport tra merchandising e free-riders, cit., p. 235. Sulla portata dell’espressione «marchio che gode di rinomanza» utilizzata dalla legge, si rinvia a Vanzetti, Di Cataldo, Manuale di diritto industriale, cit., p. 246; Vanzetti, La nuova legge marchi, cit., p. 25; Id., Il marchio rinomato, in La riforma della legge marchi, cit., p. 79. 101() Ha fatto riferimento anche alla violazione dei diritti di privativa di cui all’art. 20, lett. c), c.p.i. (oltre che b), Trib. Bari, 13 aprile 2010, in Banca Dati Dejure, relativa alla registrazione ed alla messa in commercio di prodotti recanti il marchio «46», già oggetto di registrazione in Italia ed all’estero da parte di Valentino Rossi. 102() Vanzetti, Di Cataldo, Manuale di diritto industriale, cit., p. 156. 103() Galli, Estensione e limiti dell’esclusiva sui nomi e sui segni distintivi dello sport tra merchandising e free-riders, cit., 252. Sul riconoscere al marchio di una società sportiva una tutela estesa, non solo al valore distintivo, ma anche al valore attrattivo e suggestivo, si segnala in giurisprudenza, Trib. Bologna, 1 febbraio 2001, est. Ferro, in AIDA, 2002, Repertorio IV. 3.3; nel caso di specie, si è ritenuto che l’uso del segno «Forza Bologna» interferisse ex art. 1, comma 1º, lett. c), con il diritto sul marchio della società sportiva, la quale almeno in ambito regionale gode di rinomanza; al riguardo anche Trib. Torino, 5 novembre 1999, est. Aragno, in AIDA, 2000, Repertorio IV. 3.3; Trib. Torino, 13 aprile 2000, est. Vigone, in AIDA, 2000, Repertorio IV. 3.3. 104() Nella Proposta di legge d’iniziativa del deputato Lolli, presentata il 5 agosto 2008, in tema di Disposizioni per la tutela dei segni distintivi delle società sportive, enti e federazioni, e per la disciplina della loro utilizzazione commerciale e delle sponsorizzazioni sportive, si legge la seguente definizione di ambush marketing: «Esso consiste sostanzialmente nel tentativo da parte di aziende, che non sono sponsor o partner dell’evento, di distogliere l’attenzione del pubblico dallo sponsor medesimo attraverso forme di comunicazione simili o analoghe, e di attirarla su di loro utilizzando la popolarità dell’evento e del marchio senza investire in contratti di sponsorizzazione e di «merchandising». 105() In questo senso l’osservazione contenuta nella Proposta di legge d’iniziativa del deputato Lolli, relativamente ai Mondiali di calcio del 2006. 106() La notizia è stata riportata da tutti gli organi di informazione; si segnala in http://www.ansa.it. 107() Maccarone, Marchio sportivo ed ambush marketing, in I contratti, 2007, p. 166. 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