Marco Rossetti, Rassegna di merito: Trib. Ivrea, 16 dicembre 2004, in Contratti, 2005, 4, p. 385, Mandato
Sommario: Il fatto – Le ragioni della decisione – I precedenti
Il fatto
Tre persone si accordavano per acquistare un immobile con denaro fornito da ciascuna di esse. Tuttavia soltanto ad una veniva affidato l’incarico di concludere le trattative ed acquistare l’immobile, con l’intesa che, ad acquisto effettuato, egli avrebbe trasferito a ciascuna delle altre due 1/3 della proprietà. L’immobile tuttavia non veniva mai acquistato: di tale fatto il mandatario accusava uno dei mandanti, sostenendo non essergli stati forniti i mezzi per l’acquisto, mentre il mandante imputava il fatto al mandatario, dolendosi della sua negligenza. Ciascuno dei due chiedeva pertanto, nei confronti dell’altro, la risoluzione del contratto ex art. 1453 Codice civile.
Il tribunale, rigettata l’eccezione preliminare secondo cui nella specie sarebbe stata sussistente una società occasionale, e rilevato come nessuna delle parti avesse provato l’inadempimento dell’altra, ha dichiarato il contratto risolto per mutuo dissenso.
Le ragioni della decisione
La sentenza così motiva: «ritiene il Giudice che la complessiva operazione negoziale intercorsa tra le parti (…) vada ricondotta all’alveo del mandato ex articolo 1703 Codice civile, e più precisamente del mandato senza rappresentanza ex art. 1705 Codice civile, non già all’alveo della società occasionale (…).
Sul punto, si osserva infatti che, in aderenza al disposto di cui all’articolo 1703 Codice civile, «una parte» (il Castellarin) si è obbligata a «compiere uno o più atti giuridici» (id est l’acquisto di un immobile da intestare a tre persone) «a favore dell’altra» (cioè la Rossetto e Bertolotto); ed il mandatario, poi, è stato incaricato di agire in nome proprio pur se «per conto della signora Franca Rossetto e Mario Bertolotto», con ciò escludendo che possa trattarsi di mandato con rappresentanza, atteso che nemmeno è stata dedotta l’esistenza di una procura di conferimento della rappresentanza, che, a termini dell’articolo 1392 Codice civile, doveva comunque rivestire la forma scritta».
Così risolto il problema della qualificazione del contratto, il tribunale ha osservato nel merito che
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Il fatto che le prime contestazioni siano riferite al 1997, e cioè a due anni dopo i fatti, allorquando le parti si erano rivolte ai rispettivi avvocati (…), induce quindi a far ritenere, quantomeno con presunzione ex articolo 2727 e 2729 Codice civile, che le parti avessero risolto il contratto inizialmente stipulato, atteso che, in caso contrario, il loro silenzio circa la mancata esecuzione dello stesso per un periodo di quasi due anni, sarebbe inspiegabile. Aliis verbis , ritiene questo Giudice che la mancata esecuzione degli obblighi contrattuali da parte di entrambi i contraenti per un significativo lasso temporale, in assenza di reciproche contestazioni o di motivate ragioni, può costituire un indice del fatto che il contratto stesso sia stato consensualmente risolto tra le parti, e ciò alla luce di una valutazione presuntiva ex articoli 2727-2729 Codice civile.
Conclusivamente sul punto, quindi, il contratto va dichiarato risolto per mutuo dissenso.
Dichiarata la risoluzione del contratto, alla stregua dei principi generali codificati dall’articolo 1458, comma 1, Codice civile, s’impone la restituzione delle prestazioni effettuate, non trattandosi di contratto ad esecuzione continuata o periodica.
Pertanto, come da domanda attorea, parte convenuta deve essere condannata a restituire alla Rossetto la somma, pacificamente versata, di Lire 30.000.000, pari ad euro 15.493,71.
Su tale somma capitale vanno poi accordati i richiesti interessi moratori, conteggiati al tasso legale e decorrenti, ex articolo 1219, comma 1, Codice civile, dalla domanda giurisdizionale, radicata con la notifica dell’atto di citazione il 8 febbraio 2000, al saldo.
Non è invece dovuta la richiesta rivalutazione monetaria, trattandosi, all’evidenza, di debito di valuta per il quale vige il principio nominalistico di cui all’articolo 1277 Codice civile, non già di debito di valore.
I precedenti
Sulla prima delle massime di cui in epigrafe non constano precedenti editi. Può ritenersi pacifico, peraltro, che non costituisca società (nemmeno occasionale) l’acquisto di un bene da parte di più acquirenti pro indiviso con denaro comune; ovvero il contratto con il quale le parti convengono di gestire e godere separatamente beni di proprietà comune, nemmeno in presenza di un patrimonio comune, poiché difetta l’ulteriore essenziale elemento dell’esercizio in comune dell’attività economica e la conseguente divisione degli utili (così Cass. 7 aprile 1987, n. 3353, in Rep. Foro it. 1987, Società, 281). È stata, per contro, ritenuta la sussistenza di un contratto di società nell’attività di un complesso musicale, i cui utili venivano divisi tra tutti i componenti (Cass., sez. lav., 20 aprile 1998, n. 4013, in Annali it. dir. aut. , 1998, 497, nonché in Dir. aut. , 1999, 82).
La seconda delle massime di cui in epigrafe affronta ed intreccia due tempi molto delicati: da un lato, quello del riparto dell’onere della prova inadempimento; dall’altro quello degli effetti degli inadempimento reciproci nei contratti sinallagmatici.
Sulla prima questione (riparto dell’onere della prova nei giudizi di risoluzione del contratto per inadempimento, ex art. 1453 Codice civile), deve ricordarsi come le SS.UU. della Cassazione abbiano di recente risolto i precedenti contrasti di giurisprudenza, statuendo che il creditore il quale agisca per la risoluzione del contratto deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, mentre rispetto al fatto «inadempimento» l’attore ha il solo onere di allegazione. Sarà, per contro, il convenuto a dovere provare il fatto estintivo dell’altrui pretesa, e cioè l’avvenuto adempimento (Cass., sez. un., 30 ottobre 2001, n. 13533, in questa Rivista , 2002, 113 con nota di Carnevali). Questo orientamento, tuttavia, potrebbe generare situazioni di empasse proprio nei casi, come quello deciso dalla sentenza qui in rassegna, di inadempimento reciproci. Se infatti il convenuto nel giudizio di risoluzione non solleva l’eccezione di inadempimento ex art. 1460 Codice civile, ma si limita a contrapporre puramente e semplicemente la sua domanda di risoluzione a quella attorea (ad esempio, non dichiara di non avere adempiuto per autotutela a fronte inadempimento dell’attore, ma dichiara di avere puntualmente adempiuto), e nessuna delle due parti dà la prova di avere puntualmente adempiuto, si perverrebbe al paradosso che tutte e due le domande di risoluzione dovrebbero essere accolte, perché nessuno ha provato di avere puntualmente adempiuto le proprie obbligazioni!
Il giudice di legittimità, a fronte di inadempimento reciproci, ha distinto due ipotesi: quella in cui le contrapposte domande di risoluzione per inadempimento risultino ambedue infondate, per l’inesistenza delle lamentate inadempienze; e quella in cui le contrapposte domande di risoluzione per inadempimento risultino ambedue fondate, a causa della equivalenza e della contemporaneità degli inadempimenti.
a) Nel caso in cui le contrapposte domande di inadempimento risultino ambedue infondate (ad esempio, perché nessuna delle parti riesca a provare la gravità dell’altrui inadempimento), la Corte di cassazione – con scelta seguita dalla sentenza qui in rassegna – ha ritenuto che il contratto debba ritenersi risolto per mutuo dissenso. Quando il giudice, infatti, accerta l’inesistenza dei singoli, specifici addebiti mossa da ciascuna delle parti all’altra, egli, non potendo pronunciare la risoluzione per colpa di taluna di esse, deve dare atto dell’impossibilità di esecuzione del contratto per effetto della scelta (ex art. 1453, secondo comma) di entrambi i contraenti, e decidere di conseguenza quanto agli effetti risolutori di cui all’art. 1458 Codice civile (Cass. 18 giugno 1982, n. 3744, in Giur. it., 1983, I, 1, 963; nello stesso senso, Cass. 25 maggio 1992, n. 6230, in Rep. Foro it. , 1992, Contratto in genere , 379; Cass. 29 aprile 1993, n. 5065, Contratti , 1993, 527; Cass. 29 novembre 1994, n. 10217, Arch. locazioni , 1995, 326).
Questo orientamento, sebbene dettato da evidenti esigenze pratiche (non costringere le parti ad adempiere il contratto quando i reciproci rapporti siano del tutto guastati) può comunque porre qualche serio problema all’interprete, quando – come nel caso di specie – la legge prescriva per il contratto una determinata forma.
Nella giurisprudenza di legittimità, si è più volte affermato che il mandato senza rappresentanza avente ad oggetto il trasferimento di beni immobili richiede la forma scritta ad substantiam , la cui assenza rende nullo il negozio (Cass., sez. III, 9 luglio 2001, n. 9289, in Rep. Foro it. 2001, Mandato, 5; Cass., sez. III, 10 novembre 2000, n. 14637, in Foro it ., 2001, I, 941).
Si è, del pari, affermato che la risoluzione consensuale (ovvero, il che è lo stesso, per mutuo dissenso) di un contratto per il quale la legge richiede la forma scritta, deve necessariamente rivestire la medesima forma (Cass., sez. II, 19 ottobre 1998, n. 10328, in Riv. not. , 1999, 723; nello stesso senso, Cass., sez. II, 22 giugno 2000, n. 8491, in Rep. Foro it. , 2000, Contratto in genere, 436).
Dalla collazione di questi due princìpi risulta che la risoluzione consensuale del mandato ad acquistare immobili non potrebbe avvenire per facta concludentia , ma richiede necessariamente lo scritto ad substantiam : di conseguenza, appare difficile ammettere che il giudice possa ritenere sussistente un negozio (e cioè l’accordo risolutorio) privo di un requisito di forma prescritto a pena di nullità.
b) Quando, invece, le contrapposte domande di risoluzione risultino ambedue fondate, sicché il giudice non possa stabilire quale sia stata la causa prima, unica e determinante della risoluzione, secondo la Corte di cassazione, le domande vanno rigettate entrambe, ed il giudice non può dichiarare risolto il contratto. Ha osservato, a questo riguardo, la S.C. che in mancanza di sopravvenuta impossibilità (totale e definitiva) delle prestazioni (nel qual caso, però, la virtù vincolante dei rapporto cessa ex art. 1463 Codice civile, non già ex art. 1453 Codice civile), non può addivenirsi alla risoluzione dell’impegno contrattuale per colpa, di pari entità, delle parti, «dacchè la reciprocità di inadempienze equivalenti, vale a dire perfettamente uguali sul piano della loro rilevanza negativa, non sarebbe atta a cagionare quel turbamento del c.d. sinallagma funzionale (interdipendenza fra le prestazioni), conseguente a disequilibrio delle posizioni delle parti nella fase dinamica, attuativa del rapporto, richiesto dal sistema normativo (art. 1453 Codice civile) per lo scioglimento del vincolo contrattuale». Pertanto di fronte ad uguali inadempienze, il giudice, non riuscendo ad individuare esattamente la causa unica, effettiva e determinante, della risoluzione, non può procedere alla declaratoria risolutiva del rapporto, ma deve limitarsi al rigetto di entrambe le domande, per insussistenza dei fatti giustificativi delle pretese reciprocamente introdotte (Cass. 15 luglio 1971, n. 2303, in Giust. civ ., 1971, I, 1547).
Anche questo orientamento, tuttavia, appare difficilmente condivisibile. Sebbene l’ipotesi di due inadempimenti reciproci contemporanei e perfettamente equivalenti sia più di scuola che reale, non può fare a meno di osservarsi che, secondo la soluzione adottata dalla S.C., si giungerebbe al paradosso di avere un contratto non adempiuto da alcuna delle parti, e che nondimeno non può essere risolto. In questo modo la vicenda contrattuale entrerebbe in una empasse insuperabile, giacché delle due l’una: se uno dei contraenti domanda la risoluzione, la sua pretesa sarebbe rigettata a causa della equivalenza e contemporaneità degli inadempimenti; se domanda invece l’adempimento, la sua pretesa sarebbe del pari paralizzata dall’eccezione d’inadempimento che l’altra parte non mancherebbe di sollevare. Appare pertanto più lineare – e più conforme alla ratio dell’art. 1453 Codice civile – ritenere che, dinanzi ad inadempimenti bilaterali, il giudice debba comunque cercare di stabilire quale sia quello più grave, al fine di stabilire a chi debba essere addebitata la risoluzione. Ove ciò non fosse possibile, a causa di una perfetta equivalenza dei contrapposti inadempimenti, la soluzione preferibile sembra essere quella di dichiarare comunque risolto il contratto, a causa del mancato funzionamento del sinallagma, salvo tenere conto degli inadempimenti reciproci al momento di valutare l’entità dei danni risarcibili.