Michele Ruvolo, Questioni giurisprudenziali in tema di subfornitura industriale ed abuso di dipendenza economica, in Corriere Giur., 2010, 5, p. 599
Questioni giurisprudenziali in tema di subfornitura industriale ed abuso di dipendenza economica
L’obiettivo di questo lavoro è quello di offrire una panoramica giurisprudenziale su talune delicate questioni che si pongono in tema di contratti tra imprenditori, con particolare riferimento alla subfornitura industriale ed all’abuso di dipendenza economica, istituti per la cui trattazione si è anche pensato di riportare taluni casi pratici di particolare interesse in modo da agevolare la comprensione dei principi affermati nelle massime giurisprudenziali.
Sommario: La nozione di subfornitura industriale – La forma del contratto di subfornitura – Il contenuto del contratto di subfornitura – Il divieto di interposizione – La responsabilità del subfornitore – Conciliazione ed arbitrato – Abuso di dipendenza economica
La nozione di subfornitura industriale
Il contratto di subfornitura industriale si è prima diffuso nella prassi negoziale e, dopo avere acquisito una tipicità sociale, ha trovato una sua disciplina normativa con la legge 192/1998(successivamente modificata dalla legge 5 marzo 2001 n. 57 e dal d. lgs. 9 ottobre 2002 n. 231), uno dei cui obiettivi era quello della tutela, in relazione a possibili abusi del committente, della posizione del subfornitore, considerato il contraente debole nella dinamica dei rapporti negoziali tipici della subfornitura.
Con il termine “subfornitura” si intende il rapporto contrattuale in base al quale un imprenditore (committente) conferisce ad un altro imprenditore (subfornitore) l’incarico di predisporre parti del prodotto finale o di svolgere talune fasi del processo produttivo, se questo sia scomponibile.
Nella definizione che troviamo all’art. 1, I comma, della legge 192/98 si prevede che “con il contratto di subfornitura un imprenditore si impegna a effettuare per conto di una impresa committente lavorazioni su prodotti semilavorati o su materie prime forniti dalla committente medesima, o si impegna a fornire all’impresa prodotti o servizi destinati ad essere incorporati o comunque ad essere utilizzati nell’ambito dell’attività economica del committente o nella produzione di un bene complesso, in conformità a progetti esecutivi, conoscenze tecniche e tecnologiche, modelli o prototipi forniti dall’impresa committente “.
Ecco che la disciplina della subfornitura nelle attività produttive introdotta dalla legge 18 giugno 1998 n. 192 non si riferisce a tutti i rapporti commerciali, emersi nella prassi, tradizionalmente qualificabili come subfornitura, ma solo a quelli caratterizzati dalla “subalternità progettual-tecnologica” del subfornitore, in cui sia ravvisabile il presupposto peculiare della necessaria conformità dell’opera da realizzare a progetti esecutivi, conoscenze tecniche o tecnologiche, modelli e prototipi forniti dalla committente (ossia la c.d. lavorazione per conto e la subfornitura di prodotti o servizi, entrambi con la ricorrenza del presupposto della strumentalità della prestazione rispetto al ciclo produttivo del committente) ed esige, pertanto, la sussistenza della soggezione tecnologica del subfornitore rispetto al committente (Trib. Torino, 13 dicembre 2007).
Tale requisito della soggezione tecnologica è alla base della differenza tra il contratto di appalto – che, generando un’obbligazione di risultato, è caratterizzato dall’autonomia dell’appaltatore, con la quale è comunque compatibile il controllo esercitato dal committente – ed il contratto di
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L’appalto è caratterizzato dall’autonomia dell’appaltatore, in funzione della stessa obbligazione di quest’ultimo, che è di risultato e non di mezzi, e vi è compatibile il controllo e la sorveglianza esercitata dal committente al fine di assicurarsi che l’opera venga eseguita in conformità delle regole dell’arte. L’appaltatore, dovendo però perseguire il risultato dell’opera, non deve solo attenersi alle norme tecniche ed alle direttive dell’appaltante, ma deve opporre le eventuali necessarie obiezioni di ordine tecnico.
La subfornitura è invece caratterizzata dal controllo diretto ed integrale sull’esecuzione dei lavori da parte dell’impresa committente. Progetti esecutivi, conoscenze tecniche e tecnologiche, modelli e prototipi sono infatti forniti dall’impresa committente, la quale, dovendo il prodotto o servizio essere inserito nella produzione di un bene complesso, trasferisce al subfornitore il cosiddetto know how, nel senso dell’intero patrimonio conoscitivo sul come produrre un determinato bene o servizio. La dipendenza tecnologica e progettuale verso il committente risiede in questo integrale trasferimento da parte del committente medesimo al subfornitore delle nozioni sul come fare un determinato bene o servizio, al punto che il subfornitore, a differenza dell’appaltatore, è privo di autonoma capacità valutativa in ordine alla congruità delle prescrizioni (v. Trib. Bari, sez. II, 30 ottobre 2006; Trib. Bari, sez. II, 13 luglio 2006). Proprio in considerazione di ciò l’art. 7 (rubricato “proprietà del progetto“) stabilisce che “il committente conserva la proprietà industriale in ordine ai progetti e alle prescrizioni di carattere tecnico da lui comunicati al fornitore e sopporta i rischi ad essi relativi. Il fornitore è tenuto alla riservatezza e risponde della corretta esecuzione di quanto richiesto, sopportando i relativi rischi “.
Ai fini della qualificazione del rapporto intercorso fra le parti non può sfuggire che anche nel caso dell’appalto la materia può essere fornita dal committente, come si evince dall’art. 1658 c.c., che fa salva una diversa convenzione delle parti con riferimento alla disposizione secondo cui la materia deve essere fornita dall’appaltatore.
Tenuto conto di quanto sopra, emerge che la legge 192/98 non ha quindi considerato la subfornitura “strutturale” o “specializzata”, in cui il subfornitore non necessariamente si limita a dare esecuzione a degli ordini e a rispettare certe specifiche indicazioni, ma anzi, al contrario è spesso uno specialista del suo settore produttivo, ha un suo specifico know-how, peculiari tecnologie e conoscenze (tecnologie e conoscenze che, in ipotesi, il committente può non possedere) e proprio per questo può essere chiamato a partecipare anche alla fase di concezione, progettazione e sviluppo del prodotto. E la legge 192/1998 non ha preso in considerazione la subfornitura “strutturale” o “specializzata” in quanto il provvedimento legislativo in questione aveva lo scopo di fornire protezione al subfornitore parte debole del rapporto contrattuale. Ecco che, di fatto, occorre verificare, con riferimento allo specifico caso concreto, se sia configurabile una subfornitura congiunturale caratterizzata da subalternità progettual-tecnologica” del subfornitore e, quindi, interamente regolata dalla legge 192/1998, ovvero se sia configurabile un diverso rapporto.
In dottrina si è infatti distinto tra la subfornitura “congiunturale” o “per motivi di capacità”(che si ha quando il committente, pur essendo in grado di eseguire il lavoro da sé, si avvale del subfornitore per sue ragioni organizzative, ad es. per reperire capacità aggiuntive alle proprie in un momento di sovraccarico di lavoro) e la subfornitura “strutturale” o “specializzata” (che si ha quando il committente non è in grado di effettuare da sé una fornitura di beni o servizi e affida la stessa al subfornitore in considerazione della complessità del procedimento produttivo e della necessità di usufruire di sottofasi o singole funzioni del procedimento che richiedono competenze e/o tecnologie particolari).
Tale distinzione è stata recepita in giurisprudenza.
Secondo il Tribunale di Genova (sentenza della sezione VI del 13 dicembre 2005) la sussistenza dei presupposti soggettivi (consistenti nel rapporto tra due imprese) ed oggettivi (risultanti dalla richiesta di una lavorazione su materie prime fornite dalla committente nonché dalla realizzazione di un prodotto destinato ad essere incorporato nella produzione di un bene complesso, in conformità a progetti esecutivi, conoscenze tecniche e tecnologiche, modelli o prototipi forniti dall’impresa committente) concretano la presenza della c.d. subfornitura congiunturale, in cui un imprenditore isola una o più delle fasi in cui si articola il processo produttivo – fasi che potrebbe egli stesso svolgere con una diversa organizzazione della produzione impiegando risorse proprie – per affidarla all’esterno ad altro imprenditore. Questi a sua volta rende una prestazione che va ad innestarsi nel ciclo produttivo del committente, dovendosi attenere alle indispensabili direttive di carattere tecnico impartite da quest’ultimo, atteso che, trattandosi spesso di prestazioni che richiedono una elevata specializzazione tecnica, non è possibile a priori escludere che vi possa essere un concorrente apporto a livello progettuale e soprattutto esecutivo, da parte del subfornitore. Nella citata sentenza del 13 dicembre 2005 il Tribunale di Genova ha ritenuto che rientra nella disciplina di cui alla legge 192/98 in materia di subfornitura il contratto avente per oggetto il montaggio della struttura, degli accessori e di quant’altro necessario per la “completa finitura di n. 260 cellule bagno”, da realizzarsi su disegni e con materiali forniti in prevalenza dal committente.
Ora, proprio in considerazione del fatto che la subfornitura è caratterizzata dalla detta subalternità progettual-tecnologica del subfornitore, si è affermato che non rientra nell’ambito di applicazione della disciplina sulla subfornitura dettata dalla legge n. 192/1998 “il contratto avente ad oggetto solamente la fornitura di servizi integrati per interventi ordinari e straordinari di pulizia variamente indicati nel contratto stesso, presso gli uffici e la foresteria della committente, poiché manca in tal caso, il tipico carattere del contratto in oggetto, ovvero la dipendenza, non solo economica, ma anche tecnica e tecnologica, dalla committente ” (Trib. Monza, 9 maggio 2007).
Analogamente, si è esclusa la configurabilità della subfornitura nel caso di contratto relativo alla realizzazione di linee elettriche (v. Trib. Bari, sez. II, 30 ottobre 2006). In particolare, in questo caso sono state due le circostanze atte ad escludere che trattavasi di subfornitura: innanzitutto l’esclusione operata dalla relativa disciplina (v. i casi espressamente considerati come estranei alla nozione di subfornitura indicati al comma 2 dell’art. 1 della legge 192/1998 ai quali comunque si farà cenno in seguito) dei contratti aventi ad oggetto la fornitura di beni strumentali non riconducibili ad attrezzature (laddove nella specie trattavasi di realizzazione di linee elettriche come tali destinate ad essere artificialmente incorporate nel suolo) nonché la circostanza per la quale l’attività di costruzione di impianti, concernendo un complesso di nozioni non inerenti un unico bene finale, non si identifica come tale con il patrimonio conoscitivo del committente, bensì con una serie di regole d’arte da osservare per la corretta esecuzione del complesso dei lavori (v. anche Trib. Bari, sez. II, 13 luglio 2006).
In una recente sentenza del Tribunale di Roma (sezione IX) del 23 gennaio 2008 si è poi affermato che il contratto avente ad oggetto la prestazione di servizi generici di distribuzione di merci su incarico del committente (che nel caso di specie richiedeva specifiche caratteristiche nel mezzo di trasporto e modalità di esecuzione tali da garantire il buon livello del servizio) non integra un contratto di subfornitura, considerata la mancanza (anche tenuto conto delle clausole contrattuali e delle condizioni di gara di cui alla specifica vicenda oggetto del giudizio) “di un collegamento di dipendenza tra le due imprese, con riferimento all’organizzazione aziendale “.
Si è, invece, sostenuto che rientra nell’ambito di applicazione della disciplina sulla subfornitura il contratto con cui l’impresa committente ha subappaltato lavori di pavimentazione ad altra impresa, ove quest’ultima, ancorché specializzata nella realizzazione di pavimentazioni industriali, abbia assunto l’obbligo di realizzare i lavori sulla base del progetto esecutivo fornito dalla committente e con le caratteristiche tecniche specificamente individuate dalla medesima (Trib. L’Aquila, 13 dicembre 2002).
Del pari, è stata ravvisata una posizione di “dipendenza tecnologica” (con riconducibilità della fattispecie negoziale in questione nell’ambito di applicazione della disciplina sulla subfornitura) nel rapporto contrattuale avente ad oggetto la fornitura di alcune migliaia di metri lineari di “mobiletti sotto finestra” da realizzare sulla base dei disegni esecutivi predisposti dal committente e da inserire nella catena produttiva di quest’ultimo (Trib. Udine, 27 aprile 2001).
Stabilire se si tratta di un contratto di subfornitura o meno è di particolare interesse anche se si considera che secondo l’art. 3, comma 4, della legge 192/1998 “in ogni caso la mancata corresponsione del prezzo entro i termini pattuiti costituirà titolo per l’ottenimento di ingiunzione di pagamento provvisoriamente esecutiva ai sensi degli articoli 633 e seguenti del codice di procedura civile “. Ecco che in giurisprudenza si è sul punto affermato che, posto che per aversi subfornitura industriale ai sensi della nuova disciplina deve ricorrere una situazione di dipendenza progettual-tecnologica del subfornitore nei confronti del committente, va sospesa la provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo emesso nel presupposto che il credito sorga da un rapporto rientrante tra quelli regolati dalla nuova disciplina quando invece si verifichi la mancanza della dipendenza tecnologica (v. Trib. Torino 19 novembre 1999, dove il subfornitore aveva realizzato, senza direttive specifiche del committente, un “instradatore di chiamata; Trib. Taranto, 13 ottobre 1999, dove il subfornitore aveva svolto attività di bonifica per inquinamento da petrolio all’interno delle aree portuali; Trib. Taranto, 28 settembre 1999, dove il preteso subfornitore svolgeva attività di recupero dei crediti insoluti risultanti dalla documentazione relativa agli avvisi di accertamento.
Se si tiene conto del requisito della dipendenza progettual-tecnologica del subfornitore si può ben comprendere la ratio posta a base delle disposizioni della legge 192/1998, ossia quella di ridurre lo squilibrio contrattuale tra committenti e subfornitori in considerazione della debolezza contrattuale di questi ultimi, spesso esponenti del mondo della piccola impresa che si trovano a contrattare con imprese di grandi dimensioni.
In questo senso vanno letti la tipizzazione del contratto, la formalizzazione dello stesso attraverso la previsione di una forma scritta a pena di nullità, la previsione di conseguenze negative in caso di abusi di posizione, l’introduzione di strumenti di conciliazione della lite.
Sempre sotto il profilo oggettivo e della determinazione del campo di applicazione, va ora precisato che la legge 192/998 precisa anche, all’art. 1, II comma, quali sono i rapporti estranei alla sfera di operatività della legge stessa. Si tratta dei “contratti aventi ad oggetto la fornitura di materie prime, di servizi di pubblica utilità e di beni strumentali non riconducibili ad attrezzature “.
In relazione alla fornitura di materie prime non si può quindi fare riferimento alla legge 192/98.
I servizi di pubblica utilità sono poi regolati da leggi speciali.
Ricorre, inoltre, spesso un contratto di appalto e non di subfornitura quando viene stipulato un contratto tra imprese in base al quale una ha il compito di realizzare beni strumentali non riconducibili ad attrezzature (ossia, prevalentemente, immobili ed altri cespiti nei quali si esercita l’attività produttiva). Del resto, l’avere circoscritto la portata precettiva della disciplina in discorso ai beni mobili rinviene la propria ratio nel fatto che è proprio di tali beni l’essere utilizzati nell’ambito del ciclo di produzione di un bene complesso e l’avere la caratteristica di acquistare un significato tecnico nell’ambito della produzione di un bene più complesso. Trattasi, cioè, di un bene o servizio che funge da elemento di un ciclo produttivo complesso, e non di un bene finale, dotato di autonomia funzionale (v. le citate decisioni Trib. Bari, sez. II, 30 ottobre 2006 e Trib. Bari, sez. II, 13 luglio 2006 nel senso dell’esclusione del ricorso al contratto di subfornitura nelle ipotesi in cui trattasi di costruzione di impianti elettrici e linee aeree, che, poiché destinati ad essere artificialmente incorporati nel suolo, non costituiscono attrezzature).
Quanto all’ambito soggettivo di applicazione, la legge 192/1998 si riferisce, testualmente, a “imprenditori” e “imprese”. Si pone quindi il problema dell’inclusione nell’ambito di applicazione del provvedimento normativo in questione dei contratti con le Pubbliche Amministrazioni che non svolgono, prevalentemente o esclusivamente, attività economica. Difficilmente questi enti possono considerarsi “imprenditori” e “imprese”. Si tratta, comunque, di una questione sulla quale mancano decisioni della giurisprudenza. Certo, l’esclusione dei contratti suddetti dalla sfera operativa della legge 192/1998 sarebbe particolarmente significativa se si considera che nei casi di commesse degli Enti pubblici ricorre spesso una situazione di “dipendenza” degli imprenditori privati che meriterebbe considerazione.
La forma del contratto di subfornitura
Secondo quanto previsto dall’art. 2 della legge il contratto di subfornitura deve essere redatto per iscritto a pena di nullità (fermo comunque restando, sempre nell’ottica della tutela del subfornitore-contraente debole, il diritto di quest’ultimo, riconosciuto dal primo comma dell’art. 2, “al pagamento delle prestazioni già effettuate e al risarcimento delle spese sostenute in buona fede ai fini dell’esecuzione del contratto “).
Alla luce della previsione del requisito della forma scritta ad substantiam, pare quindi condivisibile quell’impostazione per cui, contrariamente a talune affermazioni dottrinali, la disciplina della subfornitura ha definito un nuovo tipo contrattuale (v. Trib. Bari, sez. II, 30 ottobre 2006 e Trib. Bari, sez. II, 13 luglio 2006). Ed infatti, un elemento rilevante nel senso della tipicità può essere rinvenuto proprio nella norma che commina la nullità del contratto in conseguenza del mancato rispetto della forma scritta.
Se, infatti, si dovesse ritenere, come è stato osservato in dottrina, che la nuova legge non abbia inteso introdurre un nuovo tipo di contratto ma integrare la disciplina di altri contratti (come l’appalto o il contratto d’opera), non si vede in che modo la mancata redazione per iscritto del contratto potrebbe determinare la nullità dello stesso e non semplicemente l’inoperatività del particolare regime previsto dalla legge sulla subfornitura (peraltro la conversione non avrebbe qui le conseguenze proprie dell’art. 1424 c.c., in quanto il contratto produrrebbe gli effetti originari previsti dalle parti, mutando semplicemente il quadro normativo di qualificazione). La forma è invece un requisito di validità del contratto e la sua mancata previsione è causa di nullità. La tipicità legale non esclude la diversità di situazioni fattuali cui può ricollegarsi la prestazione. Si spiega così il quarto comma dell’art. 5, secondo cui le eventuali contestazioni in ordine all’esecuzione della subfornitura devono essere sollevate dal committente entro i termini stabiliti nel contratto che non potranno tuttavia derogare ai più generali termini di legge. Entro tali limiti la disciplina della subfornitura rinvia dunque alle discipline dei singoli tipi cui è riconducibile la prestazione contrattuale, la quale, già sulla base dell’art. 1 della legge in discorso, può acquistare i caratteri dell’esecuzione di un’opera o quelli di una fornitura (così Trib. Bari, sez. II, 30 ottobre 2006; Trib. Bari, sez. II, 13 luglio 2006).
In senso contrario, si legge nella sentenza del Tribunale di Desio 1 marzo 2004 che la legge 18 giugno 1998 n. 192 non ha introdotto un nuovo tipo contrattuale ma costituisce una piattaforma normativa finalizzata ad offrire una base inderogabile di tutela ad una categoria di imprese che si trova ad operare all’interno di rapporti giuridicamente riconducibili entro vari tipi contrattuali, ma accomunati dal carattere economico fondamentale dell’esistenza di un nesso di dipendenza, potenziale fonte di abusi da parte dell’impresa committente (in virtù del suddetto principio, il rapporto di subfornitura oggetto della controversia, essendo prevalente un’obbligazione di facere da parte del subfornitore, è stato ricondotto al contratto d’appalto, con conseguente applicazione degli artt. 1667 e seg. c.c. per quanto riguarda la responsabilità del subfornitore).
Sempre in relazione alla forma del contratto di subfornitura si precisa, poi, che secondo l’art. 2 della legge 192/1998 “costituiscono forma scritta le comunicazioni degli atti di consenso alla conclusione o alla modificazione dei contratti effettuate per telefax o altra via telematica “. Ecco che il contratto di subfornitura è da ritenere validamente concluso anche per effetto del solo scambio di fax o di e-mails. Stipulato per iscritto il contratto, è da credere che sia priva di efficacia invalidante la mancanza di forma scritta degli ordini relativi alle singole forniture costituenti esecuzione delle previsioni negoziali.
Nell’ottica di fornire protezione al subfornitore che abbia iniziato l’esecuzione del contratto ancora da lui non sottoscritto, il citato art. 2 introduce una deroga al principio della necessità di un contratto scritto sottoscritto da entrambe le parti. Si prevede, infatti, che “nel caso di proposta inviata dal committente secondo le modalità indicate nel comma 1, non seguita da accettazione scritta del subfornitore che tuttavia inizia le lavorazioni o le forniture, senza che abbia richiesto la modificazione di alcuno dei suoi elementi, il contratto si considera concluso per iscritto agli effetti della presente legge e ad esso si applicano le condizioni indicate nella proposta, ferma restando l’applicazione dell’articolo 1341 del codice civile “.
Ne discende che in caso di trasmissione in forma scritta di un ordine da parte del committente, il contratto di subfornitura è validamente concluso (con applicazione della relativa disciplina) anche se il subfornitore non risponda per iscritto, ma si limiti a dare esecuzione a quell’ordine in modo conforme a quanto in esso previsto. In tale ipotesi il contratta è da ritenere concluso, in base a quanto previsto dall’art. 1327 c.c., nel tempo e nel luogo in cui ha avuto inizio l’esecuzione.
Viene comunque fatta salva l’applicazione dell’articolo 1341 c.c., il che significa che anche in questo caso le clausole vessatorie saranno efficaci solo se specificamente sottoscritte.
Il contenuto del contratto di subfornitura
In relazione al contenuto negoziale, l’art. 2 dispone che “nel contratto di subfornitura devono essere specificati: a) i requisiti specifici del bene o del servizio richiesti dal committente, mediante precise indicazioni che consentano l’individuazione delle caratteristiche costruttive e funzionali, o anche attraverso il richiamo a norme tecniche che, quando non siano di uso comune per il subfornitore o non siano oggetto di norme di legge o regolamentari, debbono essere allegate in copia; b) il prezzo pattuito; c) i termini e le modalità di consegna, di collaudo e di pagamento “.
Con particolare riferimento al prezzo, sempre l’art. 2 precisa che esso “deve essere determinato o determinabile in modo chiaro e preciso, tale da non ingenerare incertezze nell’interpretazione dell’entità delle reciproche prestazioni e nell’esecuzione del contratto “. Sul prezzo viene poi aggiunto, all’art. 3, che nel caso in cui vengano apportate, nel corso dell’esecuzione del rapporto, su richiesta del committente, significative modifiche e varianti che comportino comunque incrementi dei costi, il subfornitore avrà diritto ad un adeguamento del prezzo anche se non esplicitamente previsto dal contratto.
Per quanto riguarda i pagamenti, va rilevato che il contratto deve fissare i termini di pagamento della subfornitura, decorrenti dal momento della consegna del bene o dal momento della comunicazione dell’avvenuta esecuzione della prestazione, e deve precisare, altresì, gli eventuali sconti in caso di pagamento anticipato rispetto alla consegna. Il prezzo pattuito deve essere corrisposto in un termine che non può eccedere i sessanta giorni dal momento della consegna del bene o della comunicazione dell’avvenuta esecuzione della prestazione.
Deve ora osservarsi, con riferimento all’aspetto sanzionatorio, che in caso di mancato rispetto del termine di pagamento il committente deve al subfornitore, senza bisogno di costituzione in mora, un interesse specificamente determinato dalla legge sulla subfornitura. Sono comunque fatte salve la pattuizione tra le parti di interessi moratori in misura superiore e la prova del danno ulteriore.
Se poi il ritardo nel pagamento eccede di trenta giorni il termine convenuto, il committente incorre, inoltre, in una penale pari al 5 per cento dell’importo in relazione al quale non ha rispettato i termini.
Sotto il profilo degli strumenti processuali di tutela, vale la pena di evidenziare che il mancato pagamento del prezzo entro i termini pattuiti dà diritto al subfornitore di ottenere dal Giudice l’emissione di un decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo.
L’art. 6 della legge 192/1998 contiene, poi, una serie di previsioni sulla nullità di clausole negoziali.
E così, in merito allo ius variandi di una parte, si prevede che è nullo il patto tra subfornitore e committente che riservi ad uno di essi la facoltà di modificare unilateralmente una o più clausole del contratto di subfornitura. Sono tuttavia validi gli accordi contrattuali che consentano al committente di precisare, con preavviso ed entro termini e limiti contrattualmente prefissati, le quantità da produrre ed i tempi di esecuzione della fornitura.
Con riferimento al diritto di recesso si prevede che è nullo il patto che attribuisca ad una delle parti di un contratto di subfornitura ad esecuzione continuata o periodica la facoltà di recesso senza congruo preavviso.
Infine, è nullo il patto con cui il subfornitore disponga, a favore del committente e senza congruo corrispettivo, di diritti di privativa industriale o intellettuale.
Il divieto di interposizione
L’art. 4 della legge 192/1998 prevede: “La fornitura di beni e servizi oggetto del contratto di subfornitura non può, a sua volta, essere ulteriormente affidata in subfornitura senza l’autorizzazione del committente per una quota superiore al 50 per cento del valore della fornitura, salvo che le parti nel contratto non abbiano indicato una misura maggiore. Gli accordi con cui il subfornitore affidi ad altra impresa l’esecuzione delle proprie prestazioni in violazione di quanto stabilito al comma 1 sono nulli “.
Emerge all’evidenza la differenza con la disciplina prevista per il contratto di appalto, in relazione al quale l’art. 1656 c.c. stabilisce che “l’appaltatore non può dare in subappalto l’esecuzione dell’opera o del servizio, se non è stato autorizzato dal committente “.
Nella subfornitura l’autorizzazione del committente è necessaria solo se la quota della subfornitura della subfornitura supera il 50% del valore della fornitura (sempre che le parti non abbiano negozialmente indicato una misura maggiore).
La diversa regolamentazione del subcontratto relativo all’appalto ed alla subfornitura è dovuta alla differenza strutturale tra tali due istituti. Si è già detto che la subfornitura è caratterizzata dalla dipendenza tecnologica e progettuale del subfornitore nei confronti del committente, che ha il controllo diretto ed integrale sull’esecuzione dei lavori, fornendo egli progetti esecutivi e conoscenze tecniche e tecnologiche, ossia, in ultima analisi, tutte le nozioni sul come fare un determinato bene o servizio. Il contratto di appalto è invece caratterizzato dall’autonomia dell’appaltatore, su cui grava un’obbligazione di risultato e non di mezzi.
Ecco che al subfornitore, che a differenza dell’appaltatore è privo di autonoma capacità valutativa in ordine alla congruità delle prescrizioni, si consente di commissionare ad altri, senza bisogno di autorizzazione del committente, la realizzazione della subfornitura fino alla quota del 50% (o alla maggior quota prevista in contratto).
Mette a questo punto conto evidenziare una possibilità difficoltà che potrebbe sorgere nell’applicazione concreta della subfornitura della subfornitura. La norma non fa riferimento alla quota del 50% del prezzo, che sarebbe facilmente quantificabile, ma alla quota del “50% del valore della fornitura” e prevede la nullità dell’accordo per una quota maggiore in assenza di autorizzazione del committente. Diventa quindi rilevante determinare il detto “50% del valore della fornitura” (peraltro da valutare al momento della conclusione del subcontratto tra il subfornitore ed il terzo).
La responsabilità del subfornitore
In base a quanto previsto dall’art. 5 della legge 192/1998 il subfornitore è responsabile del funzionamento e della qualità della parte o dell’assemblaggio da lui prodotti o del servizio fornito. Tuttavia, tale responsabilità viene meno in relazione ai difetti nei materiali o attrezzi forniti dal committente per l’esecuzione della fornitura e tempestivamente segnalati dal subfornitore.
Il regime di responsabilità appena esposto, particolarmente sintetico, non esclude l’applicazione di altre discipline normative, come quella sulla responsabilità per danno da prodotto difettoso.
In merito a possibili erronee effettuazioni della fornitura, l’art. 5 prevede anche che “eventuali contestazioni in merito all’esecuzione della subfornitura debbono essere sollevate dal committente entro i termini stabiliti nel contratto che non potranno tuttavia derogare ai più generali termini di legge “.
La necessità di tali termini è dovuta al fatto che il subfornitore non può rimanere esposto sine die alla possibilità di una contestazione da parte del committente. Non può però trattarsi di un termine eccessivamente breve se si considera che l’art. 2965 c.c. stabilisce che “è nullo il patto con cui si stabiliscono termini di decadenza che rendono eccessivamente difficile a una delle parti l’esercizio del diritto “.
Al termine di decadenza in questione è poi collegata la possibilità per le parti di esperire un tentativo di conciliazione.
Conciliazione ed arbitrato
La legge 192/98 ha introdotto, all’art. 10, un particolare meccanismo di risoluzione delle controversie tra subfornitore e committente.
Dopo la scadenza del termine per le contestazioni del committente sull’esecuzione della subfornitura si apre una fase obbligatoria di conciliazione presso la Camera di commercio nel cui territorio ha sede il subfornitore. Il tentativo obbligatorio di conciliazione previsto dall’art. 10 è presupposto processuale dei giudizi relativi alle domande nascenti da tale contratto, con la conseguenza che la sua mancata audizione è causa di improponibilità dell’azione, salvo che tali giudizi siano preceduti da una fase cautelare. Trib. Monza, 6 marzo 2004 ha precisato che il tentativo di conciliazione in questione è incompatibile con il rito della verifica dello stato passivo fallimentare.
In caso di esito negativo di tale obbligatorio tentativo di conciliazione, allora è prevista la facoltà, su richiesta di entrambi i contraenti, di rimettere la controversia alla Commissione arbitrale istituita presso la Camera di Commercio, instaurando così un vero e proprio arbitrato.
Evidentemente, la procedura arbitrale potrà essere iniziata o in base ad una clausola compromissoria inserita in contratto oppure mediante un accordo successivo alla stipulazione del contratto o all’insorgere della controversia.
La presenza di una clausola compromissoria potrebbe però non convenire al subfornitore che abbia ottenuto, a seguito dell’inadempimento del committente alla sua obbligazione di pagare il prezzo, un decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo, considerato che tale clausola potrebbe essere fatta valere dal committente nella causa di opposizione al decreto ingiuntivo (anche con richiesta di sospensione della provvisoria esecuzione).
Il problema pratico maggiormente rilevante che si è posto in tema di tentativo di conciliazione è quello relativo alla sua necessità o meno in relazione alla procedura di ricorso per ingiunzione ex artt. 633 ss c.p.c. Al riguardo si è già detto che l’art. 3 della legge 192/98 prevede che la mancata corresponsione del prezzo entro i termini pattuiti costituisce titolo per l’ottenimento di ingiunzione di pagamento provvisoriamente esecutiva. Si tratta ora di verificare se prima di presentare il ricorso per ingiunzione il subfornitore sia o meno tenuto ad esperire il tentativo di conciliazione. E poiché l’art. 10 parla di un tentativo obbligatorio di conciliazione per “le controversie relative ai contratti di subfornitura di cui alla presente legge“, si deve anche valutare se il committente destinatario di un decreto ingiuntivo debba o meno far precedere la notifica dell’opposizione da un tentativo di conciliazione
In giurisprudenza si trova affermato (v. Trib. Genova, sez. I, 17 aprile 2007, e Trib. Udine, 27 aprile 2002) che in tema di decreti ingiuntivi e contratti di subfornitura è infondata e deve essere respinta l’eccezione di improcedibilità sollevata dall’opponente sul presupposto che il decreto ingiuntivo avrebbe dovuto essere preceduto dal tentativo di conciliazione ex art. 10L. n. 192/1998, giacché tale procedura è sicuramente incompatibile con il ricorso monitorio, così come affermato anche dalla Corte costituzionale (ordinanza 1 giugno 2004 n. 163, inForo it. 2005, I, 666).
Infatti, la situazione è da qualche anno diventata di facile lettura in quanto, appunto, nel 2004 la Corte costituzionale ha stabilito (nella citata sentenza n. 163) che è manifestamente infondata, in riferimento all’art. 3 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 4, L. 18 giugno 1998 n. 192, nella parte in cui non prevede che il subfornitore, il quale intenda avvalersi del procedimento per ingiunzione di cui agli artt 633 ss c.p.c., debba preventivamente esperire il tentativo obbligatorio di conciliazione di cui all’art. 10 stessa legge.
Ora, secondo tale sentenza della Consulta, che viene dopo la decisione n. 276 del 2000 resa a proposito dell’art. 412 bis c.p.c., in tema di inapplicabilità del tentativo di conciliazione al procedimento di ingiunzione per crediti di lavoro, la norma che non sottopone al tentativo di conciliazione anche le procedure monitorie in tema di subfornitura non contrasta con l’art. 3 della Costituzione poiché non vi è una disparità di trattamento tra due situazioni (l’esercizio dell’azione in via ordinaria e quello in via monitoria) che fanno capo allo stesso soggetto e ciò in quanto tali due situazioni riguardano due distinte forme di tutela giurisdizionale sperimentabili dal titolare secondo una sua libera scelta, onde non si vede come possa parlarsi di disparità. Né l’art. 3 Cost. è violato per difetto di ragionevolezza in quanto si deve tenere conto, per la Corte, sia della discrezionalità legislativa nel configurare le discipline processuali, sia del fatto che il legislatore, apprestando una tutela particolarmente intensa ai crediti dei subfornitori, con la previsione dell’ingiunzione di pagamento provvisoriamente esecutiva, mostra all’evidenza di risolvere non irragionevolmente in favore di una sollecita realizzazione delle pretese di tali soggetti (alla quale è funzionale il processo monitorio) la valutazione di bilanciamento con l’esigenza di apprestare uno strumento di composizione transattiva delle relative controversie.
Peraltro, nella sostanza la soluzione opposta, ossia quella di richiedere l’espletamento del tentativo di conciliazione prima dell’attivazione della procedura monitoria comporterebbe, considerato che il decreto ingiuntivo emesso ai sensi dell’art. 3 L. 192/98 è provvisoriamente esecutivo, lo svuotamento di significato di un rimedio monitorio che invece il legislatore configura in questo caso come particolarmente incisivo.
Certo, è vero che la soluzione di sganciare il rito monitorio dal tentativo di conciliazione in un ambito, quale quello della subfornitura, in cui il decreto ingiuntivo è lo strumento utilizzato in via quasi esclusiva (anche per la provvisoria esecutività prevista per legge) dai subfornitori per ottenere il pagamento dei corrispettivi da parte dei committenti, comporta che il tentativo di conciliazione risulterà applicabile solo quando la controversia riguarderà questioni diverse dal pagamento del corrispettivo della subfornitura.
Abuso di dipendenza economica
Il legislatore si è preoccupato della possibilità che si determinino situazioni di dipendenza del subfornitore verso il committente.
L’art. 9 della legge 192/1998 (sull’abuso di dipendenza economica) prevede che “è vietato l’abuso da parte di una o più imprese dello stato di dipendenza economica nel quale si trova, nei suoi o nei loro riguardi, una impresa cliente o fornitrice. Si considera dipendenza economica la situazione in cui una impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi. La dipendenza economica è valutata tenendo conto anche della reale possibilità per la parte che abbia subìto l’abuso di reperire sul mercato alternative soddisfacenti.
L’abuso può anche consistere nel rifiuto di vendere o nel rifiuto di comprare, nella imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie, nella interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto.
Il patto attraverso il quale si realizzi l’abuso di dipendenza economica è nullo. Il giudice ordinario competente conosce delle azioni in materia di abuso di dipendenza economica, comprese quelle inibitorie e per il risarcimento dei danni.
Ferma restando l’eventuale applicazione dell’articolo 3 della legge 10 ottobre 1990, n. 287, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato può, qualora ravvisi che un abuso di dipendenza economica abbia rilevanza per la tutela della concorrenza e del mercato, anche su segnalazione di terzi ed a seguito dell’attivazione dei propri poteri di indagine ed esperimento dell’istruttoria, procedere alle diffide e sanzioni previste dall’articolo 15 della legge 10 ottobre 1990, n. 287, nei confronti dell’impresa o delle imprese che abbiano commesso detto abuso “.
L’istituto dell’abuso di dipendenza economica è stato studiato in dottrina ma ha trovato un limitato riscontro giurisprudenziale.
Restano pertanto ancora irrisolte una serie di questioni, a partire da quella concernente l’applicabilità dell’istituto in questione a contratti diversi dalla subfornitura.
Sul punto anche in giurisprudenza si rinvengono due orientamenti contrapposti.
Il primo è nel senso di una soluzione restrittiva, secondo la quale il citato art. 9 “derogando al principio della libertà contrattuale, conferisce al giudice poteri di natura eccezionale qual è quello di riequilibrare l’assetto del contratto e può spingersi fino all’estremo di costituire veri e propri rapporti giuridici fra le parti, determinando in tal modo conseguenze che, ove se ne ritenesse l’applicazione al di fuori della ristretta cerchia delle subforniture, si rivelerebbero assolutamente dirompenti dei principi di comune applicazione in materia contrattuale ” (così Trib. Torino 19 novembre 1999 e Trib. Taranto 28 settembre e 13 ottobre 1999, in Foro it, 2000, I, 624; Trib. Torino 18 marzo 2003, in Gius, 2003, 13, 1502; Trib. Taranto 22 dicembre 2003, in Foro it., 2004, 1, 262, che non ha accolto il ricorso con cui un franchisee chiedeva di sospendere in via d’urgenza gli effetti della disdetta di un contratto di affiliazione commerciale per l’esercizio del servizio di autonoleggio, intimata dal franchisor nel rispetto del termine di preavviso pattuito, posto che: a) il franchising non è riconducibile ai rapporti di subfornitura, ai quali soltanto si applica il divieto dell’abuso di dipendenza economica; b) in ogni caso, non è configurabile un’interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto, allorquando il contratto prevede una durata determinata e attribuisce alle parti la facoltà di non proseguirlo inviando una disdetta nel termine all’uopo concordato; Trib. (collegiale) Bari 2 luglio 2002, in Foro it., 2002, I, 3208, che ha revocato il provvedimento reclamato con cui era stato costituito in via cautelare un rapporto obbligatorio tra un rivenditore al dettaglio ed un produttore di capi di abbigliamento che non aveva accettato la proposta contrattuale proveniente dal primo, provvedimento reclamato che aveva ritenuto che il rifiuto di vendere i capi di vestiario commissionati integrasse gli estremi dell’abuso di dipendenza economica ed aveva ordinato al fornitore di consegnare immediatamente la merce richiesta, alle condizioni previste nel modulo, predisposto dal fornitore stesso e sottoscritto dal cliente, contenente la proposta di acquisto).
Il secondo orientamento è invece favorevole ad una applicazione estensiva della norma sopra riportata, applicazione secondo la quale la norma stessa disegna un “…istituto che, a buon diritto, nel solco interpretativo tracciato dall’affermazione del centrale ruolo svolto dalla buona fede nella gestione dei rapporti speciali, precontrattuali e contrattuali, si inserisce quale “clausola generale di abuso di potere contrattuale delle relazioni negoziali tra imprese”, subito dopo altri significativi interventi normativi (disciplina sulle clausole abusive, legge antiusura). Inoltre, una seconda motivazione addotta a supporto della considerazione per cui l’art. 9 della legge n. 192 del 1998 è operante in tutti i contratti tra imprese è anche quella di carattere letterale per cui la norma parla di imprese clienti o fornitrici, usando quindi un termine (cliente) che non è presente altrove nel testo della legge n. 192 del 1998 (nella quale si usa la coppia committente/subfornitore).
In merito all’argomento (sottostante alla tesi restrittiva) della limitazione della libertà contrattuale Tribunale di Torre Annunziata del 30 marzo 2007 (in Giur. merito 2008, 2, 350) ha osservato, prendendo spunto dalle discipline normative che mirano a riequilibrare le situazione di squilibrio esistenti tra contraenti forti e contraenti deboli, discipline all’interno delle quali rientra certamente anche l’art. 9 legge 192/1998 con riferimento a contratti tra imprenditori in rapporto di dipendenza, che “l’impianto liberistico del codice civile, dopo l’entrata in vigore della Costituzione e la legislazione speciale attuativa di diritti costituzionali ha subito penetranti deroghe a tutela di determinate categorie di contraenti deboli (lavoratori, conduttori, assicurati, consumatori, investitori, ecc.). Anche nel settore dell’imprese, la libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 Cost. ha avuto limitazioni giustificate dalla necessità di realizzazione della funzione di utilità sociale. La stessa normativa in tema di concorrenza, fortemente influenzata dalla legislazione comunitaria, prevede forti limiti alla libertà di impresa, funzionali ad assicurare una reale competizione sul mercato delle imprese ed, in definitiva, a tutelare il mercato nel suo complesso garantendo le libertà positive delle imprese da pratiche costituenti turbativa dello stesso. I rapporti di disequilibrio economico o anche solo informativo sempre più spesso generano asimmetrie negli obblighi precontrattuali e contrattuali tra le parti contrattuali (es. obblighi di informazione e diritto di recesso a tutela del consumatore nelle vendite a distanza, del risparmiatore nei confronti delle banche e dell’investitore nei confronti degli intermediari finanziari). Non solo, quindi, situazioni e comportamenti rilevanti sul piano macroeconomico (normativa anticoncorrenziale), ma anche sul piano microeconomico, ovvero sul terreno squisitamente negoziale (relazioni professionista-consumatore, impresa subfornitrice-committente), possono generare obblighi specifici del contraente forte volti a riequilibrare autoritativamente sul piano giuridico il disequilibrio economico che, per sua natura, può determinare un disequilibrio di potere contrattuale”.
Nel senso dell’applicazione estensiva dell’istituto dell’abuso di dipendenza economica si vedano Trib. Roma (sezione IX) 23 gennaio 2008; Trib. Trieste 21 settembre 2006, in Foro it., 2006, I, 3513; Trib. Isernia 12 aprile 2006, in Giur. merito, 2006, 2149 ss.; Trib. Catania 5 gennaio 2004, in Foro it., 2004, 1, 262, in Arch. civ., 2004, 339, in Danno e resp., 2004, 4, 426, che ritiene che tale istituto “deve considerarsi, per sua natura, di applicazione generalizzata a tutti i rapporti contrattuali tra imprese aventi natura commerciale, sì da non porsi un problema di applicazione analogica o estensiva dello stesso “; Trib. Bari 22 ottobre 2004, in Foro it., 2005, 1, 1604, che ritiene che “la disciplina dell’abuso di dipendenza economica si applica a tutti i rapporti contrattuali tra imprese, ivi compreso il franchising“; Trib. Roma 5 novembre 2003, in Foro it., I, 3440 e Lavoro nella giur., 2004, 193; Trib. Bari 6 maggio 2002, in Foro it., 2002, I, 2178 e Danno e resp., 2002, 7, 765 ed in questa Rivista, 2002, 8, 1063).
Nell’ambito della tesi estensiva particolarmente interessante si rivela, poi, per le distinzioni che opera, il citato provvedimento del Tribunale di Torre Annunziata del 30 marzo 2007 secondo il quale, sebbene l’art. 9 non sia da limitare alla sola subfornitura, esso comunque non trova applicazione nel rapporto orizzontale tra imprese, richiedendosi invece che queste ultime siano in relazione verticale nell’ambito di un rapporto produttivo, di distribuzione, di effettuazione di servizi, qualunque sia la direzione della cessione di beni o servizi tra impresa dipendente e dominante.
Un’altra questione ancora da approfondire è quella relativa alla definizione del concetto stesso di abuso di dipendenza economica.
A differenza di quanto accade per i contratti dei consumatori, dove è previsto un elenco di clausole che si presumono vessatorie o abusive, nella subfornitura industriale non è stato normativamente precisato cosa si debba intendere per “abuso di dipendenza economica”. Chiaramente, le indicazioni ricavabili dalla norma vanno lette in relazione alla specifica situazione concreta.
E così – se si considera che in base al comma 2 dell’art. 9 l’abuso può anche consistere nel rifiuto di vendere o nel rifiuto di comprare o nell’imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie o nella interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto – si verifica un caso di abuso quando il subfornitore abbia investito economicamente in apparati tecnologici necessari a far fronte alla particolare lavorazione a lui richiesta (e difficilmente impiegabili in altre lavorazioni) e si veda poi il rapporto contrattuale bruscamente interrotto dalla sua controparte (su un caso analogo v. Trib. Taranto, 19 settembre 2003, in Foro it., 2003, 1, 3440; in Danno e resp., 2004, 1, 2004).
Parimenti, si ha un abuso nel caso in cui l’impresa committente, approfittando della sua posizione dominante e dell’impossibilità per il subfornitore di reperire alternative soddisfacenti, abbia imposto al subfornitore un contenuto negoziale che sia fonte di uno squilibrio di diritti e di doveri a favore del committente. Ad esempio, ricorre un abuso in caso di imposizione di una pattuizione negoziale eccessivamente gravosa, ai sensi della quale un cliente, che abbia l’esigenza di spostare il proprio impianto, è tenuto a rivolgersi solo alla società fornitrice, senza alcuna possibilità di contrattare i prezzi dei lavori e dei materiali (in questo caso Trib. Trieste, 21 settembre 2006 – in Foro it, 2006, 12, 1, 3513 ed in Giur. it., 2007, 7, 1737 – ha ordinato alla fornitrice di effettuare immediatamente gli interventi occorrenti per il trasloco, fatti salvi il diritto di quest’ultima ad ottenere il compenso nei tempi previsti dal contratto e quello del cliente a sindacarne eventualmente la congruità. Per il Tribunale di Trieste, infatti, è ammissibile un provvedimento d’urgenza che obblighi ad un facere infungibile, per tutelare, in via cautelare, la libertà contrattuale del contraente debole, in caso di violazione dell’art. 9 della legge 192/1998).
Si è invece affermato che non può accordarsi la tutela cautelare al subfornitore che lamenti l’abuso del proprio stato di dipendenza economica in considerazione del recesso del committente comunicato a seguito del reiterato addebito di inadempienze e ritardi nelle consegne (Trib. Bari, 17 gennaio 2005, in Foro it., 2005, 1, 1603) o in considerazione del recesso del committente (comunicato in un termine inferiore rispetto a quello previsto) a causa di una situazione di oggettiva necessità di riorganizzazione aziendale (Trib. Roma, 5/11/2003, inForo it., 2003, 1, 3440). In questi casi non ricorre un abuso di dipendenza economica in quanto non vi è un’interruzione arbitraria delle relazioni commerciali.
Il mancato rinnovo del contratto di affiliazione commerciale può invece costituire un abuso del diritto, in quanto contrario all’obbligo di buona fede nell’esecuzione del contratto, solo laddove assuma connotati imprevisti ed arbitrari alla luce del comportamento tenuto nel corso del rapporto (Trib. Bari, 22 ottobre 2004, in Foro it., 2005, 1, 1604).
Ed anche nel caso di una società che lamenti l’impossibilità di ottenere un materiale impiegato nel proprio processo produttivo per il rifiuto del fornitore da cui si era in precedenza approvvigionata e che chieda di inibire in via cautelare il diniego di dar corso all’ordine di acquisto, il provvedimento può essere emesso qualora siano dimostrati: a) l’inesistenza sul mercato di reali e valide alternative ai materiali commercializzati dal fornitore; b) l’organizzazione del processo produttivo secondo specifiche tecniche tali da necessitare in via esclusiva di quel particolare materiale; c) il pericolo di un blocco totale degli impianti a causa dell’esaurimento delle scorte (Trib. Catania, 5 gennaio 2004, in Danno e resp., 2004, 4, 426).
Degna di particolare nota è, poi, la distinzione operata dal Tribunale di Torre Annunziata (sentenza del 30 marzo 2007), per il quale la condizione di dipendenza economica “può essere indipendente dalla precedente instaurazione di un rapporto commerciale tra le imprese (es. nel rifiuto di acquisto o di contrarre) e, quindi, ragionevolmente collegarsi alla condizione di monopolista o di oligopolista di una delle parti con riferimento ad una determinata categoria (o sottocategoria) di prodotti o servizi costituenti l’attività principale dell’altra (definibile con dipendenza economica originaria). Tale tipo di dipendenza non risulta pacifica, essendovi da più parti osservato che, appunti, la dipendenza economica può derivare esclusivamente dalla pregressa instaurazione di rapporti commerciali che abbiano influenzato in modo determinante, la strategia aziendale dell’impresa più debole, rendendola dipendente dall’altra. La condizione di dipendenza economica, invece, può anche scaturire proprio dallo svolgimento di stretti rapporti commerciali tra le due imprese quando esso finisce con l’influenzare le strategie commerciali di una delle imprese tanto privare quest’ultima della indipendenza commerciale da tali relazioni (es. interruzione arbitraria dei rapporti commerciali, pregressa imposizione di obblighi di forte investimento o di abbandono di relazioni commerciali con altre imprese concorrenti con la prima, di altri settori commerciali o di altri mercati –dipendenza economica indotta). In ogni caso la valutazione della sussistenza della dipendenza economica comporta l’esame dell’esistenza di alternative di mercato all’impresa dominante (art. 9, comma 2, ultimo periodo). Pur non costituendo il parametro esclusivo, l’esistenza di alternative di mercato assume notevolissima rilevanza per valutare la dipendenza economica, in quanto tale condizione appare immodificabile se l’impresa dipendente non ha una concreta possibilità di emanciparsi instaurando diversi rapporti commerciali. Le forme attraverso le quali può realizzarsi l’abuso della dipendenza economica sono quelle del rifiuto a contrarre (di vendita o acquisto, precedute o meno da pregressi rapporti contrattuali tra le parti) e dell’imposizione di clausole negoziali ingiustificatamente gravose o discriminatorie (art. 9, comma 2). Tali comportamenti si sostanziano, in forme specifiche di responsabilità precontrattuale (rifiuto di contrarre) o di imposizione di clausole contrattuale, entrambe riferibili all’obbligo di buona fede gravante sulle parti contrattuali in tutte le fasi di svolgimento della relazione contrattuale, dalle trattative (art. 1337 c.c.), alla esecuzione del contratto (art. 1375 c.c.)”.
Sempre sotto il profilo della definizione del concetto stesso di abuso di dipendenza economica sembra poi opportuno osservare ciò che è stato ben chiarito da Cass. 20106/09 in merito alla nozione di abuso del diritto, ossia che si ha abuso del diritto quando il titolare di un diritto soggettivo, pur in assenza di divieti formali, lo eserciti con modalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando uno sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale, ed al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà furono attribuiti. Ricorrendo tali presupposti, è consentito al giudice di merito sindacare e dichiarare inefficaci gli atti compiuti in violazione del divieto di abuso del diritto, oppure condannare colui il quale ha abusato del proprio diritto al risarcimento del danno in favore della controparte contrattuale, a prescindere dall’esistenza di una specifica volontà di nuocere, senza che ciò costituisca una ingerenza nelle scelte economiche dell’individuo o dell’imprenditore, giacché ciò che è censurato in tal caso non è l’atto di autonomia negoziale, ma l’abuso di esso (in applicazione di tale principio, è stata cassata la decisione di merito la quale aveva ritenuto insindacabile la decisione del concedente di recedere ad nutum dal contratto di concessione di vendita, sul presupposto che tale diritto gli era espressamente riconosciuto dal contratto).
La terza sezione della Corte di cassazione è pervenuta a queste conclusioni anche sulla base della considerazione per cui i principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione e nell’interpretazione dei contratti, di cui agli artt. 1175, 1366 e 1375 c.c., rilevano sia sul piano dell’individuazione degli obblighi contrattuali, sia su quello del bilanciamento dei contrapposti interessi delle parti. Sotto il primo profilo, essi impongono alle parti di adempiere obblighi anche non espressamente previsti dal contratto o dalla legge, ove ciò sia necessario per preservare gli interessi della controparte; sotto il secondo profilo, consentono al giudice di intervenire anche in senso modificativo o integrativo sul contenuto del contratto, qualora ciò sia necessario per garantire l’equo contemperamento degli interessi delle parti e prevenire o reprimere l’abuso del diritto.
Un aspetto di particolare interesse è, poi, quello relativo al tipo di pronuncia che può emettere il giudice in caso di abuso di dipendenza economica.
Sul punto vale innanzitutto la pena di precisare che l’art. 9 è stato modificato dalla legge 57/2001, che ha previsto la possibilità per chi abbia subito l’abuso di agire davanti all’Autorità giudiziaria ordinaria non solo per il risarcimento del danno (cosa che era possibile anche in passato) ma anche per l’inibitoria. È stato poi anche aggiunto il comma 3 bis e, quindi, la possibilità per l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Antitrust) di procedere alle indagini, istruttorie, diffide e sanzioni previste dalla legge nei confronti dell’impresa che abbia commesso l’abuso.
In questo contesto ci si chiede se il giudice, al quale il citato art. 9 riconosce (come detto) la facoltà di emettere pronunce inibitorie, possa anche condannare ad un facere infungibile. In particolare, ci si interroga sulla possibilità di emettere, a seguito dell’accertamento dell’abuso di posizione dominante consistente nell’interruzione delle relazioni commerciali in atto o nel rifiuto di vendere o di comprare, un ordine di riattivazione delle dette relazioni commerciali o di effettuazione della vendita o dell’acquisto negati considerando questo ordine come un’inibitoria della condotta di interruzione delle relazioni commerciali o del comportamento di rifiuto.
In proposito va osservato che l’art. 9 non prevede un obbligo a contrarre né la possibilità di emettere un provvedimento che, lungi dall’essere inibitorio, trasformi un “provvedimento inibitorio in un provvedimento che, in spregio a quanto disposto dall’art. 2908 c.c., costituisca un rapporto giuridico al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge (artt. 2932 e 2597 c.c.) ovvero imponga in via cautelare un obbligo di fare, qual è quello di prestare il proprio consenso per la conclusione di un contratto “. (Trib. Bari, sez. II, 11 ottobre 2004. Per Trib. Roma, 12 settembre 2002, in Foro it., 2002, I, 3207, “posto che: a) non è ammissibile la condanna all’adempimento di un’obbligazione avente ad oggetto un facere infungibile; b) attraverso la tutela cautelare atipica non può essere alterata la struttura dei rapporti sostanziali discendenti da un contratto; non sussistono i presupposti per accogliere il reclamo proposto avverso l’ordinanza che aveva rigettato il ricorso con cui un’impresa fornitrice di prodotti destinati alla cosmesi aveva chiesto di inibire in via d’urgenza l’interruzione delle relazioni commerciali intrattenute con il committente, nonché il conferimento ad altra impresa dell’incarico di provvedere alla fornitura degli stessi prodotti “).
Va comunque segnalato che per Trib. Bari 6 maggio 2002 – posto che il rifiuto arbitrario di vendere la merce commissionata integrava nel caso di specie “gli estremi dell’abuso di dipendenza economica in danno del rivenditore al dettaglio che intratteneva un consolidato rapporto commerciale con il produttore di capi di abbigliamento di alta moda, anche considerato che il rifiuto era stato formalizzato quando ormai non era più possibile reperire in tempo utile sul mercato una valida alternativa e rilevato che l’immagine del rivenditore rischiava di essere compromessa dall’indisponibilità di quei capi di vestiario” – andava “ordinato al fornitore di consegnare immediatamente la merce richiesta, alle condizioni previste nel modulo, predisposto dal fornitore stesso e sottoscritto dal cliente, contenente la proposta di acquisto “.
Per quanto invece concerne l’azione risarcitoria e la sua legittimazione attiva, vale infine la pena di precisare che nell’abuso di dipendenza economica, ammesso che la figura trovi applicazione anche a rapporti diversi dalla subfornitura, l’azione di responsabilità compete alla società e non anche al singolo socio (Trib. Bologna, sez. IV, 14 aprile 2006, in Obbl. e contr., 2006, 8-9, 748), che per esempio ritenga di aver subito, per effetto del comportamento abusivo ex art. 9 legge 192/1998 operato nei confronti della società di cui è socio, un danno concretatosi nella diminuzione di valore della propria quota di partecipazione sociale, nonché nell’essere stato escusso dagli istituti bancari quale fideiussore per debiti della società ed infine per aver patito ripercussioni sulla propria attività professionale, con un conseguente forte stato di prostrazione psico-fisica. Ed infatti, il danno colpisce il patrimonio sociale ed obbliga il responsabile a risarcire il danno alla persona giuridica.